Questo lavoro potrebbe comparire anche nella parte dedicata alla formazione, perché è di questo che si parla, ma visto che il contesto operativo è quello istituzionale, le considerazioni che proporrò sono a mio avviso significativamente indicative dell’immagine che si ha, dall’esterno dell’istituzione, dell’approccio psicologico e in particolare di quello psicoanalitico nell’ambito di alcuni contesti formativi, e mi sembra pertanto più pertinente collocare questo scritto nello spazio “Psicoanalisi e istituzione”. Come ho già riportato in un precedente lavoro (v. Carnevali - Modelli formativi e pratiche cliniche a confronto – Pratica Psicoterapeutica n. 4 - 1/2011), nella mia funzione di tutor di tirocinanti di varie scuole di formazione, ho previsto il loro inserimento nei gruppi terapeutici ad orientamento gruppoanalitico che conduco in un CPS, in due funzioni diverse, definite “osservatore partecipe” e “recorder”. Tali funzioni possono essere svolte entrambe (e in questo caso in due gruppi diversi) oppure può esserne svolta una sola. Essendo chiara la provenienza dei tirocinanti, ed essendo chiaro altresì il fatto che l’“osservatore partecipe” non è un “co-terapeuta”, ho ritenuto opportuno non essere troppo rigido nell’attribuzione dell’una o dell’altra funzione (l’osservatore partecipe può intervenire mentre il recorder no) in corrispondenza al tipo di figura professionale a cui i tirocinanti sono candidati, e quindi ci sono stati anche osservatori partecipi che non si stavano formando alla psicoterapia, ma che comunque avevano tra gli obiettivi specifici della loro formazione la conduzione di gruppi, anche se non terapeutici. In funzione di una ricerca in corso con il Centro Studi e Ricerche della COIRAG, ho chiesto a tutti i tirocinanti di redigere, dopo un tempo di almeno alcuni mesi di partecipazione a un gruppo da me condotto, una relazione nella quale fossero contenuti i rilievi da loro fatti, mettendo a confronto le basi teoriche e operative della loro formazione con il mio stile di conduzione, improntato alla gruppoanalisi secondo il modello di Foulkes. Prevedevo un confronto orientato in molte direzioni, perché nessuno dei miei tirocinanti proviene dalla scuola della COIRAG, e dunque ognuno ha un punto di vista con qualche aspetto non coincidente con la modalità di conduzione a cui assiste. Coloro che provengono da scuole di specializzazione ad orientamento psicoanalitico non hanno un taglio gruppale, coloro che provengono da scuole ad orientamento non psicoanalitico (cognitivo o sistemico) possono avere un taglio di tipo relazionale, e quindi avere delle affinità su questo versante ma non su quello dello sfondo teorico (la psicoanalisi) da cui si prendono le mosse. Gli allievi di scuole non di psicoterapia (tecnico della riabilitazione psichiatrica, counseling) avevano l’opportunità di vedere, dalla prospettiva del tipo di formazione che viene loro proposto, la conduzione di un gruppo, e di operare delle distinzioni rispetto ai gruppi che andranno a condurre, estrapolando gli aspetti che possono comunque risultarne un valido completamento, riassumibili nell’idea di “capire cosastiamo facendo e perché lo stiamo facendo”.Quest’idea può essere presa come base per qualunque tipo di formazione, ed è, a mio avviso, il contributo fondamentale che l’approccio psicoanalitico può offrire agli altri, centrando il lavoro riflessivo per l’appunto sulla consapevolezza delle proprie azioni. In questa prospettiva, ho ritenuto non solo sensato, ma particolarmente opportuno, inserire anche nel percorso formativo di figure non propriamente terapeutiche un lavoro di osservazione di una pratica psicoterapeutica in cui in modo specifico si cerca di portare a consapevolezza i propri vissuti; e questo da un punto di vista, come quello gruppoanalitico, in cui il fulcro dell’osservazione è la relazione, e dunque un aspetto basilare di qualunque lavoro che intenda valersi operativamente del gruppo.A quanto pare però quest’idea non è condivisa nell’ambito di scuole di formazione nelle quali l’obiettivo è la riabilitazione o la consultazione psicologica. Se infatti non ci sono state particolari resistenze da parte di allievi di scuole non psicoanalitiche, o di scuole psicoanalitiche non specificamente incentrate sulla relazione, a inserirsi con partecipazione e curiosità in una pratica terapeutica diversa da quella che stanno apprendendo, con il beneplacito di docenti che a volte li hanno addirittura stimolati a questo, altrettanto non si può dire rispetto a ciò che è avvenuto con gli allievi di scuole non psicoterapeutiche. Inizialmente, e per un certo tempo fino al momento delle prime verifiche, i candidati riabilitatori partecipavano con curiosità e interesse alle sedute terapeutiche di gruppo. Poi, con i primi confronti con i docenti, e dopo aver ricevuto da loro contenuti e obiettivi formativi, si è avuto un progressivo disingaggio che ha portato i futuri tecnici della riabilitazione psichiatrica a non produrre una sola riga di commento al lavoro terapeutico di gruppo e a non considerarlo nemmeno come elemento significativo del tirocinio svolto durante l’anno in cui ero io a svolgere la funzione di tutor. Un discorso diverso, ma sostanzialmente analogo, va fatto per la persona che proveniva dalla scuola di counseling. Per lei non c’è stato un intervento diretto da parte dei docenti, ma l’influenza di una formazione che riteneva di fornire elementi “forti” e pressoché esaustivi era evidentemente dominante, e ha indirizzato la funzione critica della persona in questione a descrivere la situazione alla quale assisteva come un’occasione per fare interventi di tutt’altro tipo, immaginati come efficaci in alternativa a quelli da me messi in atto, visti come inarrivabili e frutto di una formazione troppo diversa per poter essere messa a confronto con la propria. L’entusiasmo con il quale avevo inizialmente pensato di poter promuovere un confronto veramente polifonico, superando, attraverso il criterio della consapevolezza come obiettivo fondamentalmente condivisibile, il discrimine fra ciò che è terapeutico e ciò che è “di sostegno” o “riabilitativo”, ha dovuto scontrarsi con la rigidità dei criteri di chi antepone l’identità di ruolo all’efficacia del lavoro clinico (intendendo con questo termine tutto ciò che riguarda la relazione di un operatore con un paziente, nella fattispecie psichiatrico). La considerazione che mi viene più immediata è che nel contesto lavorativo di oggi non solo l’idea dell’“operatore unico” (in auge in modo particolare nel periodo “basagliano”) è completamente tramontata, ma si ha un rigurgito di “difesa dell’identità” che porta ciascuna figura professionale a rivendicare una propria specificità (e questo in sé potrebbe anche andare bene) in modo così acceso da vedere con diffidenza ciò che proviene chiaramente da un tipo di professionalità e di formazione diverse. Siamo dunque arrivati all’assurdo di un terapeuta della riabilitazione che, essendo stato reso partecipe della lettura psicologica di un evento, si sente invitato dai propri docenti a trovare una “lettura riabilitativa” nella quale poter applicare le proprie tecniche, guardando alla psicologia (e tanto più alla psicoanalisi) con una sorta di deferente diffidenza che porta a una sostanziale lontananza dalla quale nulla risulta più fruibile in alcun modo. E per di più arrogandosi la funzione di conduttore di gruppo senza la preoccupazione di dedicare uno spazio alla consapevolezza delle dinamiche che lo contraddistinguono. E rispetto al counselor il discorso è del tutto analogo, con la differenza che anziché indirizzarsi alla conduzione di gruppi questa figura professionale predilige il rapporto duale, nel quale comunque il riscontro dell’efficacia deve essere pressoché immediato e il paziente deve essere tutelato dall’eventuale sofferenza che un intervento troppo “di profondità” potrebbe produrre. Altrove ho affermato, e lo ribadisco anche qui, di ritenere che la psicoanalisi non debba collocarsi a un livello di lettura superiore rispetto ad altre discipline, e debba anzi mettersi al servizio di queste, offrendo ciò che ha da dare, e il domandarsi “cosa sto facendo e perché lo sto facendo” è un aspetto basilare. Mi rincresce constatare che in alcuni ambiti formativi l’atteggiamento difensivo prevale su quello costruttivo, creando una mentalità, che gli “innocenti” allievi in formazione purtroppo assorbono a mo’ di spugna, che colloca al primo posto un malinteso senso della professionalità e della competenza, che rende a volte ciechi nei confronti della possibilità di un articolato confronto multidisciplinare. Non vorrei però che questo mio scritto apparisse come un’accusa nei confronti di scuole che formano altre figure rispetto agli psicoterapeuti. Credo anzi che da noi i pregiudizi si sprechino, e che uno dei motivi per i quali un tutor psicologo-psicoterapeuta viene guardato con diffidenza dal vertice di altre scuole di formazione sia proprio l’atteggiamento separatista e direi presuntuoso con cui in genere gli psicologi si pongono nei confronti delle altre discipline, rivendicando un ruolo predominante che li isola, facilmente interpretabile, oltretutto, come una gigantesca “coda di paglia” relativamente all’identità di ruolo, che più si teme sia esile e più si tende ad enfatizzare in modo settario e rivendicativo. Cito per tutte la diatriba nata tra psicologi e counselor che ha visto Altrapsicologia in primo piano e che si è espressa in lettere e riferimenti a leggi di cui riporto un esempio, sul quale dissento completamente, che mi sembra rappresentare l’emblema della mentalità separatista e settaria che a mio avviso paralizza la crescita professionale di tutti, incistando ciascuna figura in una “parrocchietta” da difendere.
Pubblicata l’attesa sentenza del Tribunale di Milano che afferma:
INSEGNARE AI COUNSELOR EQUIVALE A FAVORIRE UN REATO
Insegnare gli strumenti della Psicologia ai non Psicologi vuol dire favorire l'esercizio abusivo. Finalmente sancito da un Tribunale un concetto che AltraPsicologia afferma da sempre: formare psicoterapeuti e allo stesso tempo i loro pseudoconcorrenti è scorretto deontologicamente e legalmente, oltre che commercialmente.
Leggi l’articolo del presidente di AltraPsicologia, i primi commenti e l’intera sentenza !
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Buona lettura
AltraPsicologia
http://altrapsicologia.com
Concludo evidenziando che, alla luce di questo discorso, insegnando ad una conselor (anche se con scarsa efficacia a causa delle sue, a questo punto provvidenziali, resistenze) avrei contravvenuto a una legge. Me ne assumo la responsabilità.