Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 9
2 - 2013 mese di Dicembre
IL CONTESTO SOCIOCULTURALE
CREMERIUS E GLI ANNI SETTANTA
di Guido Medri
Cremerius formatore

 

Quando ho conosciuto Cremerius alla fine degli anni sessanta era già un analista di fama internazionale, didatta dell’I.P.A. e cattedratico. L’immagine che offriva, a mio parere del tutto in accordo con le sue convinzioni di allora, era quella tanto rassicurante quanto invidiabile di essere arrivato alla conclusione del suo iter formativo così da avere elaborato e poter offrire una visione di insieme compiuta e convincente della teoria e della tecnica. “Una specie di palla”, come lui diceva. Non era affatto così, lo si vede chiaramente nei suoi scritto successivi. Io l’ho avuto come docente per oltre 20 anni e posso testimoniare direttamente quanto sia cambiato nel corso degli anni. Ho avuto poi modo di conoscerlo abbastanza bene anche al di fuori dell’ambito strettamente professionale. Dopo il seminario del Giovedì che teneva ogni mese presso di noi ci recavamo tutti insieme a cena al ristorante o a casa dell’uno o dell’altro e si continuava a discutere in maniera informale ; il gruppo, coniugi compresi, era stato a trovarlo a Friburgo per diversi giorni, spesso durante il Natale andavo a trovarlo nel suo maso in Val di Non e d’estate in Toscana. Era un brillante conversatore e parlavamo di tante cose, ma soprattutto di lavoro perché era questo che ci interessava. A mio parere la psicoanalisi per Cremerius era una fede, ma anche un tormento,una specie di rompicapo che non si esauriva mai e che lo costringeva sempre a tentativi di innovazione e di approfondimento. Il risultato nei suoi scritti del continuo interrogarsi e cercare di dare risposta alle sue domande fa si che ci troviamo di fronte ad un lascito culturale complesso, da esaminare in senso longitudinale, fra progressioni e ritorni indietro. Il modo migliore quindi per capire Cremerius e apprenderne la lezione attraverso il confronto con l’attualità sta nell’intenderlo come un pensatore in evoluzione, in movimento. La mia relazione però sta insieme a molte altre che presumibilmente mostreranno tante sfaccettature nel corso degli anni della sua figura. Per parte mia quindi, poiché sono uno dei suoi primi allievi, dedicherò buona parte del mio scritto a come appariva agli inizi delle sue venute da noi, a descrivere il biglietto da visita con cui si è presentato sulla scena psicoanalitica di Milano. La prima volta che l’ho visto è stata in occasione della discussione di un caso clinico. Eravamo un gruppo di una dozzina di persone e facevamo parte del Centro di psicoterapia e scienze umane di Piazza Sant’Ambrogio diretto da Pier Francesco Galli. Mi fece una grande impressione. Il caso lo ricordo benissimo. Si trattava di una paziente che mentre era molto esigente e lamentosa veniva in ritardo, saltava le sedute e cercava di non pagare. Il professore ci tenne una vera e propria lezione sull’atteggiamento analitico. Uscii dal seminario con al convinzione di essermi chiarito un aspetto fondamentale della teoria della tecnica, ossia l’importanza del setting per la terapia e come l’analista sia tenuto a difenderlo a tutti i costi dalle intemperanze e dalla svalutazione del paziente. Lo sapevo già, ma la lucidità delle argomentazioni di Cremerius e la veemenza con cui le portava mi si erano stampate nella mente, creavano un confine per cui se si stava da una parte si lavorava, ciò che si faceva era chiaro e coerente sul piano tecnico e teorico, mentre se si stava dall’altra si lasciava che il paziente continuasse a gozzovigliare nella sua nevrosi. O di qua o di là, o psicoanalisi o psicoterapia allo stato brado, e per stare dalla parte della psicoanalisi bisognava avere decisione e chiarezza di idee. Era come se con la forza della sua personalità Cremerius ci avesse rappresentato, drammatizzato l’autorevolezza che l’analista doveva possedere. Per capire meglio cosa era successo in quella stanza e che si sarebbe poi riconfermato negli anni successivi bisogna tornare al clima culturale in cui in quegli anni eravamo immersi. Il centro del Galli era un’istituzione “contro”; contro in primo luogo la S.P.I. elitaria ed escludente, colpevole di atteggiamenti autoritaristici e di una lettura di Freud di stampo borghese (e Cremerius era un didatta dell’I.P.A.); contro l’università con tutte le sue cricche di potere (e Cremerius era un cattedratico) anche se il bersaglio era soprattutto la prima cattedra in Italia di psichiatria con sede a Milano che riduceva la psiche a puro biologismo e la cura del disturbo mentale alla farmacologia; e più in generale contro tutte le istituzioni emanazione del capitalismo. Il contesto quindi in cui Cremerius da noi si trovava a lavorare era attraversato da accese dispute e tensioni a carattere ideologico. Al punto che un paio di anni dopo esse finivano per sfociare in una contestazione di cui proprio io mi sono fatto promotore e che adesso svaluterei come pretestuosa e confusa, ma che aveva comunque un tale impatto da sfuggirci di mano e da portare all’auto dissoluzione del gruppo di docenti cui facevamo riferimento e alla chiusura del Centro stesso. Sull’altro versante, quello professionale, il gruppo si presentava come del tutto eterogeneo. Io ad esempio ero un medico specializzato in Malattie nervose e mentali e avevo, come era ovvio allora, una formazione di tipo neurologico anche se lavoravo presso la Clinica Psichiatrica dell’università (basti dire che avevo fatto una tesi sperimentale sulla sclerosi a placche); avevo per la verità incominciato la mia analisi personale, ma da solo qualche mese e il mio analista era kleiniano e quindi di tutt’altra estrazione. Altri erano psicologi di formazione filosofica e alcuni avevano fatto o stavano facendo una analisi junghiana. C’era chi aveva già una florida clientela privata e chi, come me, lavorava nell’istituzione e solo con gli psicotici. La prima cosa da fare quindi, se mi metto nei panni di Cremerius, era quella di formare un gruppo di lavoro e questo non poteva passare che attraverso l’affermazione della sua leadership. Dal punto di vista dei contenuti da trasmettere, dell’insegnamento, il compito non si presentava per nulla difficile poiché eravamo del tutto inesperti e senza preparazione a livello teorico. Ma da quello affettivo, anche se sentivamo la necessità e addirittura l’urgenza di una formazione, era un altro discorso. Ognuno di noi si era precostituito una sua idea della psicoanalisi o della psicoterapia; ricordo bene le continue divagazioni a carattere sociale e politico o gli individualismi esasperati di chi era a caccia di nuove teorie o di tecniche diverse che ci qualificassero ad esempio come analisti di sinistra. Insomma da buoni neofiti già credevamo di sapere e per giunta eravamo imbottiti dell’ideologia rivoluzionaria tipica di quegli anni che intendeva dare la giusta risposta anche in ambiti assolutamente specialistici. Posizioni così velleitarie e, diciamolo pure, presuntuose, anche se nascondevano ovviamente un grande bisogno di dipendenza andavano comunque battute sul campo, frustrate con grande fermezza. Perché però questo accadesse, affinché in fondo lo subissimo, dovevamo avere un forte ritorno non solo sul piano dell’apprendimento, ma anche in termini narcisistici, lo si poteva accettare solo da una figura fortemente idealizzata, un leader carismatico secondo un’espressione allora molto in voga. A mio parere la straordinaria incisività dell’insegnamento di Cremerius su di noi,riposa proprio su questi elementi, nel senso che era la persona giusta per stare in questo crocevia fra bisogno dell’autorità e ribellione contro di essa, fra l’auto-esaltazione di un gruppo che intendeva creare qualcosa di nuovo e l’esigenza di crescere alla luce di un sapere già costituito che ci legittimasse; insomma per metterci in riga anche ponendosi in conflitto con noi e nel contempo per sedurci. Cremerius era un uomo forte, sicuro, in quello che sapeva non c’era nulla di imparaticcio o di scontato, ma il risultato di decenni di lavoro clinico e di una continua messa in discussione attraverso le letture e la frequentazione dei più famosi analisti del mondo ; non avrebbe avuto paura di difendere le sue idee neanche davanti al diavolo in persona. Aveva conosciuto bene Alexander e lo descriveva come una persona “grande nella mente e nel cuore”. Io direi lo stesso di lui. La mente stava, come è ovvio, nella sua più che evidente superiorità culturale, ma soprattutto nell’esercizio del pensiero. Ci chiedeva di ragionare, di parlare e che vedessimo lui farlo. Uno portava il caso e tutti si discuteva e così si poteva verificare chi aveva più acqua da portare al suo mulino.Ognuno di noi coglieva qualcosa e offriva la sua ipotesi; poi interveniva lui, toccava il punto, ristabiliva i nessi e le cose andavano nel posto giusto. Era stimolante, vivificante, per lui quasi una sfida a cui amava sottoporsi e per il gruppo una specie di test che gli portavamo per verificare quanto fosse bravo. Il cuore stava nella generosità con cui offriva se stesso. Cremerius aveva preso seriamente il compito che gli avevamo affidato, voleva che noi imparassimo, ci ha guidato e sostenuto quando abbiamo fondato la Scuola, è stato il presidente onorario della Scuola di Specializzazione, ha continuato la sua opera di formatore con quelli che sono venuti dopo di noi. Esattamente come fa un buon maestro capace di prendersi a cuore i suoi allievi. Non aveva mire di potere perché abitava altrove né tanto meno di prestigio perché era già famoso (anzi la S.P.I. si risentiva e lo attaccava più volte per la sua presenza a Milano fuori dal suo controllo). Veniva perché gli piaceva l’Italia, ma anche e soprattutto perché gli piacevamo noi. Per dare un’idea del legame di solidarietà che ci univa vorrei ricordare un episodio. In occasione di un convegno a Roma dei capi scuola europei Cremerius era stato chiamato a rappresentare la Germania insieme a Betty Joseph per l’Inghilterra, Gaddini per l’Italia e un altro importane analista di cui non ricordo il nome per la Francia. Io e Cantoni, attirati dal livello del dibattito, avevamo espresso il desiderio di partecipare e lui aveva chiesto alla S.P.I. che ci invitasse. Ne riceveva una risposta decisamente negativa e allora… annunciava che non avrebbe tenuto la sua relazione! Alla fine la S.P.I. immagino in seria difficoltà per il suo rifiuto e per le conseguenze che ne potevano derivare, faceva marcia indietro e così ricevevamo l’invito e andavamo tranquillamente al congresso. (Ora viviamo in un clima diverso, molto più collaborativo fra le varie scuole, ma a quei tempi fatti del genere erano frequenti e avevano una grande risonanza politica).

Quando lo abbiamo festeggiato per il suo ottantesimo compleanno a Milano, ho voluto ringraziarlo pubblicamente per la continuità nel suo impegno verso di noi e dirgli della nostra riconoscenza e gratitudine perché è per merito del suo incoraggiamento che siamo diventati quello che siamo. Dicendo che Cremerius offriva se stesso pensavo però anche ad un’altra cosa. La psicoanalisi per lui non era solo una pratica e una teoria, ma qualcosa di veramente importante, un modo di essere, di pensare, di leggere il mondo. Ci metteva un entusiasmo e un interesse incredibili, travolgenti. Io ero un fanatico della psicoanalisi (adesso molto meno), ma lui lo era decisamente più di me. In una delle mie visite al suo maso arrivavo senza preavviso intorno alle dieci del mattino e lo trovavo nello studio a leggere il caso dell’uomo dei topi (l’uomo dei ratti come ci teneva a puntualizzare). Si era alzato alle cinque del mattino e studiava da allora! C’era qualcosa di ingenuo, di adolescenziale in questa passione che commuoveva, trascinava. Si è scritto molto di come la psicoanalisi affascini e conquisti i suoi adepti, di come le polemiche in suo nome si trasformino in guerre di religione. Cremerius era profondamente identificato con la professione e la dottrina. Lottava per il pt, perché lo si capisse e non tradissimo la sua domanda di aiuto, e poi, ma direi ancora di più, per la psicoanalisi come attribuzione di senso, come ricerca senza pregiudizi, come metodo, come pratica di libertà, come visione del mondo. Comunicava una forte tensione ideale, si sentiva parte attiva di un grande progetto umanistico e scientifico. In realtà noi tardo sessantottini avevamo a che fare con un pensatore più intransigente e più radicale di noi. Questa visione utopistica della analisi si sarebbe mostrata in tutta la sua evidenza qualche anno dopo con la sua insofferenza e la durissima critica alle istituzioni psicoanalitiche ufficiali; anche se già nel venire a Milano si intravedeva un movimento di distacco dall’I.P.A. perché “la sua teoria Freud non l’aveva costruita per farla rimanere nel chiuso di un ghetto” .Quando parlava di psicoanalisi sembrava davvero che parlasse anche di se stesso, del suo bisogno di verità e di autenticità.

Occorre poi aggiungere che Cremerius teneva tantissimo al riconoscimento e all’ammirazione e da buon narciso dava il meglio di sé per ottenerli. Parlava un italiano un po’ sgrammaticato, ma era dotato di un’oratoria efficacissima; aveva poi il gusto della performance, gli piaceva esibirsi e sapeva scegliere il modo ed i tempi, insomma era anche un ottimo attore e catturava l’attenzione. Io credo di non avere mai saltato un seminario e mai di essermi annoiato. Stare con lui e vederci lavorare con lui era un vero divertimento. Sembrava di essere a teatro, ogni volta si rappresentava una variante dell’essere uomo, ora l’isteria, ora l’ossessività o la grandiosità del narcisismo o la severità del Super Io e via di questo passo.

Ricordando il Cremerius di allora mi sembra di tornare ad un tempo mitico popolato di eroi, i grandi pensatori che hanno sfidato le paure del loro tempo per portare la luce dove prima c’era il mistero. Era lui a rievocarli, i suoi padri e i suoi fratelli, non aveva alcun pudore nell’idealizzarli e con loro se stesso. Che grande lezione! Per prima cosa bisogna credere nell’analisi, crederci veramente al di là di tante belle parole o di professione di fede. “È cosi difficile sentirsi sicuri e lavorare con qualcosa che non si vede”, quante volte me lo diceva! Gia questo è un compito di immane portata, ci si arriva solo sperimentando la dottrina sulla propria pelle; ma non basta ancora. Come si resiste nel corso degli anni allo scetticismo, al dubbio corrosivo che ci viene da ogni dove, dal paziente, dalla violenta piattezza della cosiddetta realtà e che sempre si fa vivo anche dentro di noi? Occorre avere il gusto della scoperta, la curiosità del ricercatore, il coraggio di sperimentarsi; e ancora, sentirsi portatori di un valore decisivo, avere la forza di porci più in alto, lassù dove stanno i nostri maestri. Era questo l’invito di Cremerius, seguire il suo percorso e diventare grande come era lui. Sta qui il senso della sua testimonianza, il dono che ci ha portato: il porsi come esempio, l’offrirci, il farci toccare con mano il valore che gli derivava dall’amore e dalla fede nella psicoanalisi. Un simile guadagno in termini di autostima lo si doveva però guadagnare. Questa era l’altra faccia della medaglia. È chiaro infatti che chi aveva un concetto tanto elevato della professione non poteva che essere una guida esigente se non scomoda. In effetti Cremerius era un supervisore severo e spesso piuttosto duro nei suoi giudizi. Naturalmente eravamo noi stessi a chiedergli di parlare chiaro, di farci capire se eravamo fuori strada o meno, insomma di fare il suo mestiere. È certo però che lui non si tirava indietro, anzi. Va rilevato che se Cremerius nei suoi slanci era per tanti versi più mediterraneo di noi, proveniva comunque da un’altra cultura. È rimasta famosa la sua osservazione a proposito dei treni che in Germania portano la scritta “è vietato sporgersi”, e in Italia “è pericoloso sporgersi”. La voce del padre nel primo caso, non devi, che al passaggio di frontiera diventa quella carezzevole della madre: attento a non farti male. Lui per l’appunto era tedesco con le inevitabili durezza e rigidità, per lo meno ai nostri occhi, che questo comporta. Insomma quando era il caso di farci vedere quello che secondo lui non andava, ci metteva il massimo impegno. Basti dire che io nel mio linguaggio privato non lo chiamavo con il suo nome, ma con la sigla K. K. Non so se mi spiego. Una volta avevo portato il caso e per mia sfortuna gli sedevo accanto.

Sembrava proprio che avessi sbagliato e potevo anche essere d’accordo, però mi sembrava che alcune critiche fossero eccessive. Ne nasceva una discussione in cui io cercavo disperatamente di difendermi finchè lui mi puntava minacciosamente il dito a pochi centimetri dal viso ad ammonirmi di piantarla di blaterare perché avevo torto marcio. Non sono stato il solo però, molti altri se la sono vista brutta. C’è chi si è sentito dire di cambiare mestiere, chi di fare altri cinque anni di analisi personale, chi neppure si è sentito criticare (perché tanto non ne valeva la pena). Di tanto in tanto qualcuno si lamentava (a me ad esempio pareva proprio che lui fosse molto più critico con gli uomini che non con le donne). Comunque nel corso del tempo si è verificata una selezione e qualcuno se ne è andato. Ribadisco che io sto descrivendo il primo Cremerius, quello che poi nel corso degli anni doveva cambiare e diventare “più mamma” come diceva scherzando È quindi molto probabile che i suoi allievi di più recente data possano trovare che io drammatizzi i suoi atteggiamenti di intransigenza. Già allora va detto come nelle supervisioni individuali avesse un atteggiamento senz’altro diverso; era molto più accettante e sapeva scusare ed incoraggiare.Ma in gruppo c’era davvero poco da scherzare. A quei tempi il controtransfert come strumento di diagnosi e indicatore delle tematiche profonde del paziente non andava certo di moda. Se accadeva che qualcuno accennasse a ciò che sentiva subito il professore mostrava dei moti di impazienza. Non voleva emozioni (del tipo, sento che…), non tollerava fantasie, che si descrivesse invece cosa succedeva con la massima accuratezza possibile e che poi si ragionasse su ciò che si vedeva. Prestava la massima attenzione al testo, ossia a quanto accadeva in seduta e solo dopo ci si poteva permettere delle divagazioni.Ero e sono rimasto d’accordo con questa impostazione, assolutamente necessaria quando si lavora con colleghi alle loro prime esperienze; non è affatto in contraddizione con il coinvolgimento emotivo del terapeuta, anzi alla lunga lo sostiene. È chiaro però che purtroppo per noi ci veniva a mancare un’importante scappatoia perché se ci si rifugia nella soggettività del terapeuta si può sempre trovare una giustificazione, mentre in caso contrario si sbaglia e basta. Dunque dovevamo dare atto della nostra competenza e spesso il nostro narcisismo di terapeuti era messo a dura prova. In compenso abbiamo fatto nostro un metodo, abbiamo imparato una tecnica; direi proprio che andava bene così, in molte occasioni una certa rigidità è la migliore compagna della chiarezza.

 

 

Cremerius psicoanalista

 

Cremerius era un’analista che seguiva la cosiddetta tecnica classica così come lui stesso la descrive in vari articoli. I presupposti teorici sono un campo di applicazione che non va al di là delle cosiddette nevrosi di traslazione, un concetto di malattia basato sul conflitto, un concetto di regressione che in terapia non arriva mai alla fase del periodo preverbale e un concetto di guarigione che vede l’Io dove era l’Es. Ne consegue che il mezzo tecnico sarà l’interpretazione ovviamente preceduta dalla confrontazione e seguita dalla ricostruzione, mentre le regole, dal setting alle associazioni libere sono in funzione di essa. Il setting era fisso, molto rigido e prevedeva quattro sedute la settimana. Ricorreva al paragone della sala operatoria perfettamente sterilizzata per farci capire con quanto rigore andasse preservato il contesto all’interno del quale si svolgeva il lavoro analitico. Le radici della nevrosi stavano nel complesso edipico. Ovviamente il bambino vi accedeva alla luce di quanto gli era accaduto negli anni precedenti come d’altronde il concetto di fissazione non faceva che confermare. Ma solo dopo si tiravano le somme e tutto quanto era accaduto prima andava letto a posteriori secondo la griglia della situazione triadica.

Se si volesse caratterizzare più da vicino la sua posizione di allora io lo avrei definito uno psicoanalista che si muoveva nell’area della psicologia dell’Io. Questa affermazione può sembrare irriguardosa se ci rifacciamo ad uno dei suoi ultimi scritti in cui definisce questa corrente di pensiero in senso dispregiativo, come “ un prodotto importato dall’America “.

Si tratterebbe di una psicoanalisi “danneggiata, riduzionista, estraniata a se stessa “. La colpa di Hartman sta nelle nozioni di adattamento, autonomia dell’Io e ambiente sociale a partire da un punto di vista che porta ad un “biologismo eccessivo che pone l’Io al di fuori del conflitto fra pulsioni e società”. Riconosco nella perentorietà del suo commento tutta la spigolosità, da me peraltro tanto apprezzata, del professore. La sua critica però è eccessiva e unilaterale. La psicologia dell’Io è anche altro e l’attenzione alle funzioni innate dell’Io come gli apparati della motilità, della percezione o della memoria e più in generale a ciò che è l’Io al di fuori del conflitto non esclude per nulla la forza delle pulsioni libidiche e aggressive e neppure mi sembra venga negato il drammatico scontro fra la spinta all’emancipazione e il condizionamento sociale. D’altro canto a quei tempi la psicoanalisi subiva la suggestione o della teorizzazione kleiniana o della psicologia dell’Io e lui era ferocemente antikleiniano. Odiava la modalità tecnica delle interpretazioni profonde e precoci e dissentiva decisamente da teorie sullo sviluppo a suo parere irrintracciabili sul piano clinico e fonte solo di confusione.Un’altra opzione che si dichiarava porsi come la più fedele a Freud era la corrente che si rifaceva alla psicoanalisi francese, ma era in buona parte fortemente impegnata in un continuo contraddittorio con Lacan e comunque Cremerius, al di là di Bouvet (va citato perché spesso il professore si rifaceva ai suoi scritti sul transfert), la frequentava poco. Aveva fatto buona parte del suo training in nord America ed era sempre in contatto con quello ambiente notoriamente imbevuto delle idee di Hartman, Arlow, Brenner e Rapaport. Lo stesso Benedetti diceva (comunicazione personale) che Rapaport era da considerare il più grande dei teorici da Freud in poi. Secondo Cremerius l’analisi era in primo luogo la messa in luce e la elaborazione dell’apparato difensivo. Si partiva dalla superficie per arrivare in profondità secondo una linea strategica il più coerente possibile. Traspare già da questi cenni in modo evidente la lezione di Wilhelm Reich e Anna Freud, i primi autori che si sono applicati a tradurre in termini clinici la grande innovazione freudiana introdotta con “L’Io e l’Es”. La psiche si divideva in tre poli come asseriva il modello strutturale e l’Io doveva prendere spazio rispetto agli altri due. Le difese si palesavano anzitutto nelle resistenze di transfert ed andavano analizzate nell’hic et nunc della relazione. Il loro insieme era il carattere della persona.Uno dei capisaldi dell’insegnamento di Cremerius stava nel rifiuto sistematico di lavorare sui contenuti anzitempo. Ci si potevano fare delle riflessioni, ma avendo ben chiaro che si trattava di fantasie, nostre e del paziente. Occorreva invece badare a quello che succedeva in seduta. Era ovviamente importante ad esempio quello che il paziente ci aveva detto dei genitori, di come si erano comportati con lui e della sofferenza che aveva provato, ma la prima cosa su cui riflettere era, semmai, perchè si mostrasse così ossequioso nei nostri confronti; ci interessavano il litigi con la moglie e l’ipotesi che quest’ultima avesse in qualche modo a che fare con sua madre, ma molto di più che il paziente fosse sempre in ritardo; notavamo come fosse stato messo il collegio e che tendesse a mettersi da parte come forse gli era successo allora, ma il dato davvero saliente su cui riflettere, o per lo meno da cui partire, era che all’inizio della seduta parlasse tanto e si zittisse prima della fine o il contrario.

L’attenzione insomma era tutta centrata su come il paziente trattava sé stesso e si muoveva nella relazione, su quella zona grigia al confine fra il conscio e l’inconscio dove i comportamenti incominciano a delinearsi nel loro significato dinamico. Era importante che l’analista avesse in funzione i suoi canali di ricezione. Non si trattava solo di ascoltare e di guardar, ma di qualcosa di più, direi di fiutare, di sentire l’altro sulla pelle o dentro la pancia. L’analista era all’opera con i sensi oltre che con il pensiero, impegnato insomma in una continua identificazione di prova. Contavano i dettagli, erano le inflessioni della voce, i piccoli gesti, le smagliature del discorso a premettere l’accesso al non conosciuto, non tanto il racconto del paziente. In definitiva l’interesse era tutto portato sull’Io inconscio, su come stava nel conflitto, sui pericoli che correva e sugli espedienti che aveva provato e continuava a mettere in opera per porre un rimedio all’angoscia e alla colpa.

 

Le pagine più belle secondo me Cremerius le ha scritte sul rapporto tra Io e Super-io. D’altra pare sempre dichiarava che non c’è analisi compiuta se manca l’analisi del Super-io. Èaffascinante la sensibilità, la cautela, la pazienza con cui si muove affinché l’Io capisca la pressione cui è sottoposto dall’interno, come essa si esercita, il tipo di attacco che gli viene portato e quali sono i suoi bersagli. La strategia si basa nel non dare interpretazioni, ma che sia l’Io a guardare il suo nemico, a resistere alle sue minacce, a conquistarsi spazio. Bisogna dunque creare le condizioni affinché l’Io lavori e così facendo si espanda, facendo appello alla sua parte più razionale e matura, un’operazione che mentre si avvale della più sofisticata fra le indagini psiconalitiche addirittura sconfina nella pedagogia., È attraverso lo studio e i tentativi di applicazione di questo approccio che ho davvero capito che cosa significa operare affinché l’io del paziente diventi più forte; mentre appare davvero interessante a posteriori riflettere come il Super io sotto la penna di Cremerius diventi vivo, abbia obbiettivi, ricorra a dei trucchi, goda del suo sadismo, insomma si faccia persona senza che chi lo descrive avverta l’esigenza di concettualizzare i suoi rapporti con l’Io come una relazione oggettuale interiorizzata. Comunque tutti i procedimenti tecnici che ho descritto fanno parte del tipico repertorio della psicologia dell’Io e si rifanno alle sue premesse teoriche. Quando leggo Gray o Busch il pensiero va continuamente al professore.

D’altro canto questa è forse la parte più sostanziosa dell’eredità che mi ha lasciato, quella che più mi qualifica come suo allievo.Ciò che conta è metter l’Io in stato di attività,chiamarlo ad operare. Al limite è meglio non capire che capire al posto dell’altro (“Al paziente piace lavorare”, oppure “il paziente preferisce masticare il pane duro”, erano altre delle sue espressioni più ricorrenti). L’intervento per essere efficace deve prima indurre lo splitting dell’Io, promuovere le facoltà di auto osservazione, mentre l’insight è importante non tanto per quanto riguarda i suoi contenuti, ma soprattutto per il cammino fatto per arrivarci. Insomma deve essere una conquista dell’Io. Come dice Friedman (citato da Busch) “il trattamento psicoanalitico fa ciò che fa l’Io. Va notato, a posteriori, al di là delle differenze di linguaggio, come questi precetti di teoria della tecnica siano vicini al pensiero di Bion e Fonagy.

Questa impostazione mi ha permesso di vedere sotto una nuova luce il procedere analitico: si arriva all’inconscio attraverso il rafforzamento dell’istanza destinata a conoscerlo. L’interpretazione è corretta non in astratto, ma in quanto “buona”, utile all’Io. Insisto su questo punto così come ha tanto insistito lui perché per me si è trattato di un’acquisizione davvero fondamentale. Terapia e analisi vanno a braccetto, non sono mai in contraddizione fra loro (questo adesso appare ovvio, ma allora mancavano gli strumenti teorici per mettere a fuoco il potenziale positivo implicito nella relazione terapeutica).

A questo punto però le cose si complicano; dobbiamo sapere a chi ci rivolgiamo (a quale parte del paziente), di che cosa parliamo ponendoci però dal punto di vista di chi ci ascolta e anche quale è il guadagno che ci proponiamo. Non è più la teoria, ma la clinica a farla da padrona. Un psicoanalista degno di questo nome quindi deve essere in primo luogo un bravo clinico. Cremerius metteva a fuoco i punti di forza e di debolezza del paziente, ipotizzava strategie di intervento (“forse si potrebbe fare così), portava continue esemplificazioni, provava ad affidarsi alle sue fantasie, formulava dubbi , inventava correzioni di rotta, rimandava a successive supervisioni Insomma ci offriva il suo sapere clinico, ci mostrava come lui lavorava affinché anche noi avessimo “le mani in pasta”, sempre stimolando la nostra intelligenza a questo livello. Sul piano tecnico da sviluppare era la capacità diagnostica e l’attenzione agli obiettivi a medio e a lungo termine, mentre il faro che indica la rotta è la misura della forza dell’Io così che svolga il suo compito e non si senta minacciato inutilmente da pericoli eccessivi.

Va rilevato che su temi del genere aveva in me un ascoltatore particolarmente attento. Essendo di formazione medica non potevo che intendere nel paziente una malattia cui porre rimedio ed ero recalcitrante di fronte a formulazioni che davano la priorità alla conoscenza e la guarigione come un prodotto auspicabile, ma secondario. Nel corso del tempo mi è venuto di accentuare tale atteggiamento. Mentre Cremerius era molto preso dal bisogno di riformulare sul piano teorico quello che sperimentava sul piano clinico, io mi faccio il vezzo di chiamarmi psicoterapeuta piuttosto che psicoanalista e di rappresentarmi nel mio lavoro avendo a modello quei tanti bravi artigiani che stanno ormai scomparendo i quali conoscevano a fondo il materiale che impiegavano e sapevano come trattarlo.

Ho parlato finora di un analista che si muove con i piedi di piombo, preso da ciò che si percepisce e che si può descrivere, refrattario a risposte controtransferali che possono solo confondere, che insomma pretende chiarezza e vuol dare il massimo di visibilità al suo intervento, che funziona sulla base di precise premesse di ordine teorico e all’interno di un insieme di regole che strutturano il suo operato. E ho descritto un atteggiamento che centra tutta l’attenzione sul paziente, mentre l’intervento dell’analista, per quanto lo metta in tensione e lo impegni sul piano emotivo, va fatto rientrare in una prestazione a carattere professionale. Questa presentazione rientra però nella necessità da lui fortemente sentita di dare forma a una modalità tecnica da trasmettere all’allievo. Adesso faccio un’operazione paradossale ed affermo che Cremerius tutto all’opposto di questa descrizione intendeva l’analisi come niente altro che lo svolgersi di una relazione all’insegna del libero dispiegarsi della fantasia, un viaggio nell’inconscio le cui premesse stanno nella partecipazione dell’analista. Avevamo partecipato a un lungo seminario in cui Rotshild ci aveva illustrato come nel corso dei primi colloqui, prima di un eventuale trattamento analitico, seguisse un iter prestabilito di interventi e di domande così da arrivare a chiarire la forza dell’Io, il livello delle fissazioni, il tipo e la qualità delle difese, la domanda del paziente, il grado di analizzabilità, ecc. Uno di noi presentò in un seminario il caso di un paziente testato con questa modalità, una specie di intervista guidata con una griglia e le caselle da riempire, felice di tutte le informazioni che era riuscito ad ottenere nel giro di pochi incontri e che già gli permettevano di stabilire una strategia di intervento, sicuro, come tutti noi del resto, che il professore che tanto teneva ad avere dati concreti lo avrebbe ampiamente approvato. Non dimenticherò mai la faccia disgustata di Cremerius, ed il suo commento sdegnato: il trattamento analitico è tutto tranne che una raccolta di dati da rilevare e poi da elaborare. Si capisce invece nel fare terapia e per converso si fa terapia capendo. I due momenti sono indissolubili. Ne consegue che si incomincia solo facendo, ossia mettendosi in relazione. Il collega aveva semplicemente mancato il bersaglio perché l’oggetto della ricerca non è il paziente, ma il paziente nella situazione, come all’interno di essa e con quell’analista egli si relaziona con le sue angosce, i suoi desideri e le sue difese; insomma è il transfert. Quello che avevamo sentito era psicoanalisi svalutata nel suo opposto, ridotta a psichiatria descrittiva , un modo per capire tutto con il risultato di non capire niente in senso dinamico. Credo sia difficile immaginare una posizione che caratterizza il momento analitico come un evento relazionale in maniera più rigorosa: non esiste il testo del paziente, se non in collegamento con la lettura che ne fa l’analista.

Il ritorno sul piano clinico ne faceva da testimonianza ed era imponente. Ad esempio il criterio della analizzabilità a suo dire era una questione della coppia ossia della capacità dell’analista di stare in rapporto con quel paziente, il che suonava come un dissenso evidente con tutta la letteratura di stampo nord americano sull’argomento; oppure, l’approccio psicodiagnostico già in auge allora e così di moda oggi addirittura ormai con l’ausilio del computer, è fuori campo per definizione, è di disturbo invece che di aiuto. Un’altra davvero convincente esemplificazione dell’impossibilità per l’analista a non porsi come parte in causa nel processo di interazione si ritrova nella critica portata al Freud dei casi clinici. Avevamo letto accuratamente le modalità di presa in carico dell’uomo dei ratti e Cremerius ci mostrava come Freud, benchè gia un decennio prima avesse scritto del transfert, assumesse i panni del ricercatore che vuole capire la nevrosi ossessiva e rifiuta di vedere il movimento affettivo nei suoi confronti. Il risultato era che l’indagine analitica veniva intesa dal paziente come la realizzazione della sua terribile fantasia che un ratto entrasse nel suo ano. Insomma l’imprescindibilità della relazione faceva sì che Freud nel suo voler restare fuori ne venisse ricatturato fino ad essere vissuto come un corpo estraneo che entrava e divorava dal di dentro le viscere del paziente.

Questa impostazione ha avuto forti ripercussioni anche sul percorso formativo che proponiamo nella nostra Scuola. Ad esempio ben prima di discorrere di teoria, incominciamo fin dal primo incontro a parlare del paziente e del rapporto con lui, nella convinzione che, per quanto possa essere scomodo e difficile, questo è l’unico ambito in cui si situa il nostro intervento (e tutto il resto in fondo si riduce a delle chiacchiere perché manca dell’aggancio con la clinica). Non è un caso poi se lo studio dei test viene relegato nell’ambito delle materie di psicologia generale secondo le indicazioni del Ministero, ossia non specialistiche (mentre in altre Scuole è considerato la materia fondamentale del primo biennio). Oppure che ben pochi di noi si dedichino ai tentativi di verifica dei risultati della cura, vale a dire a uno dei principali temi di ricerca degli ultimi decenni, malgrado tante dichiarazioni di interesse e tanti propositi e la grande quantità di materiale e di forze a disposizione. Il principio è che modalità che abbiano una funzione oggettivante si pongono per ciò stesso fuori dall’ambito analitico.

Si poteva però andare anche ben oltre. Se non deve esserci un presapere, teoria e tecnica al limite creano una distanza nell’analista nei confronti del paziente e si possono leggere come dei preconcetti che fanno da ostacolo al dispiegarsi dell’incontro in tutte le sue potenzialità; siamo vicini al pensiero insaturo o all’ascolto senza memoria e senza desiderio di Bion e su questa strada si potrebbe giungere a discutere tutto l’impianto concettuale che serve ai fini dell’indagine descritto prima, o per lo meno lo si potrebbe mantenere in uno stato di sospensione. Se poi è vero che esiste un paziente solo in funzione di un analista e viceversa siamo a un passo addirittura dalle attuali concezioni costruttivistiche. È chiaro che commentare Cremerius alla luce delle teorizzazioni di adesso non può che risolversi in una bizzarria. Sarebbe bastato però ritornare al primo Freud quando il nostro grande maestro ci diceva che ciò che conta è l’attenzione fluttuante dell’ analista al servizio del filo nascosto che lega le associazioni libere del paziente; cioè a quella che per me rimane la più lineare e convincente descrizione del rapporto analista paziente. In questo modo si sarebbe consegnato semplicemente quello che accadeva in seduta allo svolgersi della relazione. Cremerius però non voleva o non poteva osare tanto e anzi avrebbe avuto buon giuoco nel sostenere che, al contrario, l’accadimento emotivo necessita di un momento di distacco in chiave razionale ed è allora che l’analista, forte del fatto di avere già fatto l’analisi e di conoscere le regole del giuoco, è tenuto a dire la sua; senza accorgersi che il giusto richiamo alla teoria finiva per prevalere così che di nuovo si tornava a puntare l’attenzione sul paziente con l’analista in veste di una funzione indipendente. Rimane tuttavia l’affermazione davvero perentoria che tutto rientra nella relazione. Chi era allora il vero Cremerius, quale delle due rappresentazioni è corretta o come si ricompongono fra di loro? Da una parte ci sta l’uomo di scienza, il ricercatore, l’illuminista alla ricerca della verità al di fuori di lui, dall’altra l’umanista romantico che subisce l’attrazione dell’inconscio e si arrende alla suggestione dell’incontro.

Torno a ripetere che sto cercando di descriverlo come lo ricordo negli anni settanta. Ebbene sosterrei che molto semplicemente Cremerius era contraddittorio, che cavalcava con grande sicurezza manovrando con le due redini senza accorgersi del bisticcio che si creava fra di loro. Aveva una teoria che intendeva coprire tutto l’arco dell’intervento dell’analista sul paziente, mentre la clinica gli suggeriva che la stessa era incompleta. Quante volte ci diceva che non si dice nei congressi e non compare mai negli scritti quello che si fa “veramente” in analisi! La risposta allora finiva paradossalmente per spostarsi in modo eccessivo sul versante relazionale priva però delle necessarie mediazioni. Questa comunque era la mia impressione; quando diceva che l’analisi incomincia prima che ci si incontri ed è fatta delle aspettative del paziente (fin qui mi andava bene) e dell’analista, ripeto, dell’analista, si veniva a creare un salto di prospettiva senz’altro affascinante, ma decisamente privo di supporto teorico.

A distanza di tanto tempo comprendiamo benissimo il compito che aveva davanti: come tanti analisti della sua generazione, si trattava di traghettare l’analisi dal paziente alla coppia paziente-analista e lui si trovava in mezzo al guado. Negli anni successivi la questione si sarebbe ripresentata come cruciale, non poteva più essere elusa.

Come ho detto lascio ad altri il compito di approfondire la sua opera in questo periodo e mi limiterò a qualche considerazione. Gli anni ’80 sono stati contrassegnati da imponenti novità. In primo luogo la critica alla metapsicologia freudiana e al perno che la sostiene, ossia la teoria delle pulsioni. Inoltre la sfida che le patologie più gravi da quella borderline e narcisistica fino alle varie forme di perversione ponevano alla tecnica classica. E per finire l’affermarsi di nuove teorie come quella delle relazioni oggettuali e la psicologia del Sé. Già prima Cremerius in verità poteva usufruire di una concettualizzazione davvero fondamentale per comprendere più in dettaglio e in profondità la dinamica della relazione come quella della identificazione proiettiva, e anche quella, altrettanto importante, di campo dei Baranger che risaliva ai primi anni 60. Tuttavia la sua ostilità nei confronti della Klein non gli permetteva di accedere ad alcune intuizioni davvero feconde del pensiero di questa autrice e dei suoi epigoni.

Va anche notato che per Cremerius si dava un altro motivo di cambiamento poiché si trovava ad aggiustare il tiro soprattutto in casa sua, dopo che, come per altro egli aveva fortemente voluto, il trattamento analitico si doveva ridimensionare per adeguarsi alle richieste dello Stato che se ne faceva carico attraverso il Servizio Sanitario Nazionale.

Il modo migliore per illustrare le sue nuove posizioni credo sia quello di lasciar parlare lui stesso riportando alcune frasi tratte dalla premessa al suo libro Il mestiere dell’analista del 1985.

 

La mia posizione si ricollega ai fondamenti della teoria freudiana; ma sono stato influenzato in modo sostanziale dalle idee di Ferenczi e Balint, vale a dire nel senso di uno spostamento di accento dal lavoro oggettivante sul materiale allo studio dell’interazione […] Per usare i termini di Balint, da una psicologia “unipersonale” a una psicologia “bipersonale”. […] La traslazione perde una parte della sua qualità endopsichica, autonoma, indipendente dall’analista e dal suo comportamento e viene a comprendere, in compenso, le esperienze che l’analizzato fa, nell’analisi, sul suo analista e con lui. Lo stesso vale per il concetto di controtraslazione […] L’associazione libera del paziente e l’attenzione fluttuante dell’analista non possono più riconoscersi come metodi di indagine scientifici e obiettivi, ma diventano parte del processo analitico con le angosce e i desideri di entrambi i protagonisti […] È superato anche l’atteggiamento passivo dell’analista […] Quanto più esce dall’anonimato e dalla neutralità e si pone di fronte al paziente come persona, tanto più egli entra però nel processo di interazione, e tanto più intensamente quanto più l’“atteggiamento analitico” diventa qualcosa di “soggettivo” […] Freud non riuscì ad inquadrare in una teoria ciò che realmente accade fra i due autori del processo terapeutico.”

 

Come è evidente il clima culturale non era più lo stesso e Cremerius anche. Il cambiamento però, almeno per me che gli lavoravo assieme, stava anche altrove e riguardava lui personalmente nel senso che, mentre prima si sentiva all’avanguardia di un modo di pensare nuovo e vincente, ora più che altro si adeguava; pur credendoci veramente non era più però a cavallo della tigre, ma a rimorchio di idee altrui. Qualcosa non funzionava. Prendiamo ad esempio il suo scritto per altro brillantissimo e giustamente famoso sulle due tecniche, quella classica della comprensione profonda o paterna e quella dell’esperienza emotiva correttiva. La risposta che egli finisce per dare è che non è umanamente possibile per l’analista seguire completamente sia l’una che l’altra: “nessuno può , per otto ore al giorno, mettere a disposizione le sue funzioni dell’Io intatte e nessuno può per otto ore al giorno tenere a disposizione le sue parti psicotiche fino alla disintegrazione”. Siamo tutti senz’altro d’accordo, ma questa non è una risposta, come giustamente commentava Lai su uno dei numeri immediatamente successivi di Psicoterapia e Scienze Umane. Il problema era a carattere teorico clinico e la conclusione doveva cercare delle soluzioni sullo stesso livello. Si trattava di dare il giusto rilievo, prendendo in questo caso le distanze da Freud , all’importanza dell’oggetto e contemporaneamente di salvare l’asse della metapsicologia freudiana fondata sul concetto di pulsione (che mai lui, come d’altronde il sottoscritto, avrebbe ripudiato), ossia di promuovere un avvicinamento della psicologia dell’Io alla teoria delle relazioni oggettuali. Un compito immane perché comportava una riconcettualizzazione del transfert e del controtransfert anche attraverso i diversi contesti clinici in cui ci si trova ad operare (l’unico teorico che è riuscito a darci una visione d’insieme credo sia Sandler e comunque a tutt’oggi resta un gran lavoro da fare) . Forse avrebbe fatto meglio, l’argomentazione sarebbe stata più convincente, se avesse ammesso che la difficoltà in cui si trovava la psicoanalisi riguardava anche lui stesso dando così il via a delle domande che avrebbero potuto dare un contributo ben più sostanzioso al tema in discussione.

Anche lo scritto su Ferenczi non convince. Nasce dalla esigenza di accostare la sua “tecnica dell’amore” alla “tecnica classica della ragione” di Freud dalla quale era stata esclusa con conseguenze rovinose per l’intero movimento psicoanalitico, ma non ci riesce affatto e i due autori rimangono come e più di prima distanti l’uno dall’altro. Per finire, ci diceva quanto fosse vicino a Balint con cui per altro aveva molto lavorato e quanto fosse stato influenzato da lui; ebbene non mi pare proprio, almeno per quanto mi riguarda non mi è mai riuscito di trovare dei punti di contatto davvero significativi fra di loro.

A lato di questi temi data in quel periodo la sua rielaborazione a proposito del famoso scritto di Eissler sui parametri (non so se ne abbiamo una testimonianza scritta, mi rifaccio alle nostre discussioni in gruppo).

Secondo Cremerius non si tratta di rientrare nei parametri perché ogni analisi segue il suo corso e il confine dei parametri è molto semplicemente dettato dal paziente stesso. Qui il suo pensiero tocca uno dei suoi vertici: non ci sono regole, ciò che conta è il metodo ed esso lavora secondo la rappresentazione scopo-mezzi. Va però notato che questo spunto assolutamente originale consiste di una critica rivolta ad un analista che pratica la tecnica classica e se allarga gli orizzonti di quest’ultima rimane però all’interno dei suoi confini, nel senso che l’argomentazione non approfondisce il ruolo dell’analista di fronte alla domanda eterodossa del paziente (come peraltro anche Stone negli stessi anni non riesce a fare) .Per quanto riguarda l’insegnamento questo secondo periodo è stato per noi fruttuoso come e più del primo. Ci aveva formato come analisti e ora rivedeva criticamente i punti di forza che ormai condividevamo, ci stimolava, ci dava spunti per lavorare con lui non più come allievi quanto in qualità di colleghi. Sentivamo di avere del filo da torcere e, anche se mancavano le conclusioni, ci offriva gli strumenti per continuare la ricerca.

 

 

Cremerius e Kohut

 

Vorrei ora discutere di un passaggio critico del mio rapporto con Cremerius. Avevo letto il primo testo di Kohut “Narcisismo e analisi del Sé” e ne ero rimasto affascinato. Si trattava di un modo di pensare diverso dal solito, che si avvaleva di esemplificazioni cliniche molto convincenti e di una teorizzazione assai sofisticata; ma che soprattutto partiva da un punto di vista profondamente introspettivo, che stava dalla parte del vissuto del paziente così da descriverlo con un linguaggio del tutto particolare, molto calzante. Mi era sembrato insomma di essere di fronte ad una svolta nella teoria e nella tecnica, a qualcosa di nuovo e di importante di cui però non sapevo cogliere fino in fondo il senso. La domanda riguardava essenzialmente l’articolazione in termini tecnico clinici della psicologia del sé. Abituato a lavorare con l’Io e per l’Io come struttura intermedia fra le varie istanze, tanto mi convinceva l’idea di una istanza sopra ordinata che operasse una sintesi e facesse da interlocutore rispetto all’oggetto (idea peraltro gia sviluppata da George Klein) , quanto non potevo fare a meno di pensare ad un soggetto diviso che andava letto nel contrasto fra le sue parti. Lo stesso problema si poneva per Cremerius (comunicazione personale in risposta ai miei quesiti) nel senso che molto semplicemente non ci era chiaro cosa altro fare rispetto a ciò che già si faceva. Ho quindi accolto con grande interesse (e anche con una certa sorpresa, perché non me ne aveva proprio parlato) l’articolo di commento del professore sul famoso caso clinico del signor Zeta. Sostanzialmente a parte alcuni accenni aspramente polemici, la tesi di Cremerius ruota attorno al concetto che la seconda analisi aveva funzionato perché il controtransfert di Kohut era cambiato rispetto alla prima . Era questo il motivo per cui egli aveva potuto corrispondere al desiderio transferale del paziente di incontrare il padre da idealizzare che gli era tanto mancato. Kohut riferiva la diversa conduzione del caso al fatto di avere mutato l’assetto teorico di riferimento, dall’analisi classica alla psicologia del Sé. Secondo Cremerius invece il caso era semplicemente un pretesto per giustificare, motivandola sul piano clinico, la nuova teoria, perché il cambio di rotta si poteva con la più assoluta aderenza ai fatti spiegare rimanendo all’interno della vecchia teoria. Non era questa che andava cambiata, era Kohut che doveva cambiare e che aveva poi fatto una buona analisi appunto perché era cambiato. La descrizione della tecnica classica come fondata sul distacco dell’analista e sull’interpretazione del complesso edipico secondo la forzatura obbligata del desiderio incestuoso e della competizione con il rivale era un artefatto kohutiano dovuto ad una cattiva lettura di Freud sull’argomento, laddove un altro analista con gli stessi strumenti teorici avrebbe svolto l’ ottimo lavoro di sempre.

Insomma “vino vecchio in botte nuova”. Nel frattempo disgraziatamente, a testimonianza del mio interesse per l’argomento, stavo leggendo nel corso di un seminario da me tenuto sul tema del narcisismo i casi clinici trattati da altrettanti analisti kohutiani nella raccolta di Goldberg (un testo che non è mai comparso in versione italiana). Ne avevo tratto dei grossi dubbi e la netta impressione che si forzassero tutte le tematiche in una nuova patologia, quella narcisistica, alla quale si chiedeva di fare da contenitore a tutti i problemi del paziente; mentre la tanto raccomandata empatia dell’analista troppo spesso si traduceva in interventi al di là delle difese che finivano per portare il paziente ad una regressione indesiderata al punto di avere il fondato sospetto che servissero ad evitare la presa in considerazione delle resistenze di transfert e delle tematiche conflittuali in atto. Dunque Cremerius aveva senz’altro ragione. Il risultato, e si è trattato di una scelta compiuta in modo molto consapevole, è stato che sono giunto a un rifiuto in blocco della psicologia del Sé. Credo che questa presa di posizione abbia comportato un ritardo di anni nello sviluppo dell’assetto teorico che più calzava con il mio operare clinico. Ho più volte scritto, in accordo con Sandler, che ogni analista elabora a livello preconscio un proprio personale modello teorico insieme o meglio in seguito ad una pratica clinica che per così dire “gli viene”; questo succede al di là dei presupposti teorico clinici ai quali fa fede e dai quali è partito e quindi nel corso del tempo si ritrova a modificarli. A mio parere il punto di vista di Cremerius cui ho aderito piuttosto acriticamente ha il torto di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Attenzione, io non mi reputo affatto uno psicologo del Sé; trovo ridondante e confusivo il concetti di empatia, sono ben lontano dall’intendere la nevrosi, sia pure quella narcisistica, in termini di deficit, do un ben diverso rilievo alle tematiche aggressive, mi sembra che certe ricostruzioni biografiche siano stucchevoli, stereotipate e di maniera (come quella del bambino che non si sente rispecchiato negli occhi della madre). Ma Kohut ha ragione quando afferma che il paziente colloca l’analista al centro di un profondo bisogno di integrazione e che l’oggetto analista si fa riassorbire nella rappresentazione del sè. La seconda analisi del signor Zeta è senz’altro all’insegna di un diverso controtransfert, ma il mutamento risale anche ad un altro orientamento teorico che pone nelle sue premesse un momento di sofferenza che viene, per così dire, prima della teoria del conflitto e a cui si risponde più sul piano relazionale, proprio in termini di empatia, che su quello interpretativo. Secondo la terminologia che io uso , ai confini fra teoria delle pulsioni,delle relazioni oggettuali e della psicologia del sè, l’analista è tenuto a porsi come l’oggetto prefigurato dal desiderio transferale così che il paziente si ingaggi in una nuova relazione con l’oggetto ritrovato.

Ci si muove quindi ben al di là della concezione classica, cara a Cremerius, che intende l’analista come una funzione. Certo se si fa da sponda al paziente, se si capisce con lui e per lui, oltre a offrirgli le coordinate per comprendersi, gli si presta un atteggiamento riflessivo con cui egli nel tempo giunge ad identificarsi, come ci dicono Sterba e Strachey; si rimane però nell’ambito di un potenziamento a livello cognitivo, assolutamente fondamentale, ma lontano dalla straordinaria pacificazione che si ricava nel vedersi legittimati in quella specifica relazione che un tempo è mancata.Naturalmente tutto questo comporta una rivisitazione della complessualità edipica, oggi d’altronde quanto mai necessaria alla luce della “mancanza del padre” alla base di tanta patologia attuale. Ancora una volta temo di essere frainteso e ci tengo a sottolineare che non mi sfugge affatto quanto il confronto edipico lasci una traccia indelebile in termini di insicurezza nevrotica. “Arrivato in questa fase non c’è scampo, il bambino si nevrotizza”, ripeteva il professore , peraltro in perfette sintonia con Freud. Certamente, anzi sono sempre più colpito di quanto la clinica evidenzi come l’emergere della sessualità si segnali secondo le dimensioni della colpa e della vergogna. Èproprio per questo motivo tuttavia che è così importante il consolidarsi di una relazione positiva con la figura idealizzata del padre. Sono assolutamente sicuro che si facesse della buonissima psicoanalisi anche prima di Kohut; anzi, che si fa tuttora, senza Kohut. Non sto quindi affatto affermando che Cremerius avesse torto; sapeva fare ciò che faceva Kohut senza sentire il bisogno di un cambiamento nella teoria. D’altra parte basta leggere Loewald o Klauber o anche Grunberger o, per citare un altro dei nostri maestri, Morgenthaler, per rendersi conto di quanto l’analista classico possa essere vicino ai bisogni narcisistici e sensibile alla fragilità del suo paziente. Con tutto questo rimane il fatto che per me l’oggetto sé kohutiano è una di quelle grandi intuizioni senza la quale il clinico non può lavorare o per lo meno che mi ha permesso di capire meglio e più a fondo il modo in cui mi trovo ad interagirecon la domanda del paziente.

 

Direi dunque che chi ha sbagliato sono stato io nell’affidare a Cremerius quella funzione di guida cui avevo sempre fatto affidamento laddove la mia inclinazione personale quella volta tendeva a prendere altre strade. Tutto questo mi sembra rientri nella fisiologia del rapporto maestro – allievo. Penso che risulti evidente dal mio scritto non solo la mia ammirazione, ma anche il grande affetto e la gratitudine che ho provato per lui. Sul piano intellettuale aderivo così bene al suo punto di vista che spesso mi stupivo di quanto mancassi di una presa di posizione a carattere personale, che fosse proprio mia, tanto da temere per un lungo periodo di tempo di essermi addirittura troppo identificato con lui. È una buona cosa quindi, sta dalla parte della mia maturazione che si sia verificato un momento di distacco. Sono certo che mi avrebbe capito ed approvato, lo avrebbe preso come un dono che gli portavo in risposta a tutti quelli che lui aveva fatto a me.

 

BIBLIOGRAFIA

 

Arlow J.A., Brenner C. (1964), Psychoanalitic concepts and structural theory, New York: International University Press..

Baranger, W. e M. (1961 – 1962), La situacion analitica como campo dinamico, Revista Uruguaya de Psicoanalisis, IV, 1.

Bouvet (1968), Resistences, Transfert, Payot, Paris.

Bush F. (1999), Rethinking clinical tecnique, New Jersey – London. Northvale. Jason Aronson.

Cremerius J. (1985), Il mestiere dell’analista, Torino, Boringhieri.

Cremerius J. (1991), Limiti e possibilità della tecnica psicoanalitica, Torino, Bollati Boringhieri.

Freud A. (1936), The Ego and the Mechanisms of Defence, New York: International University Press.

Freud S. (1909), Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva (caso clinico dell’uomo dei topi), Volume VI, Boringhieri

Friedman L. (1989), “Hartman’s Ego Psychology and the problem of adaptation”, Psychoanalytic Quaterly, 56: 130-154.

Goldberg A. editor (1978), The Psychology of the Self. A case book, International Universities Press,Inc.

Gray P. (1994), The Ego and analysis Defense, Northvale, NJ: Jason Aronson.

Loewald H. W. (1971), “Some considerations on repetition and repetition compulsion”, International Journal of Psycho-analysis, 52: 59-66

Hartmann H. (1939), Ego Psychology and the problem of adaptation, New York: International University Press, 1958.

Klein G. (1976), Psychoanalytic Theory, International University Press.

Kohut H. (1971), The Analysis of the Self, Londra, Hogarth Press.

Kohut H. (1978), The search of the Self, International University Press.

Rapaport D. (1967), The collected papers of David Rapaport, ed. M. M. Gill, New York: Basic Books.

Reich W., Analisi del carattere. Milano Sugar Editore, 1973.

Sandler J. A. M. (2002), Gli oggetti interni. Una rivisitazione, Milano, Franco Angeli.

Stone L. (1961), The psychoanalytic situation, New York. International University Press.


Scarica il documento
Torna al sommario