Credo che quando muore un Maestro, il modo migliore di ricordarlo sia rivisitarne criticamente l’opera e chiederci quali aspetti di essa rimangano attuali. Non mi riferisco qui alla “attualità” , equivoca e volatile, delle mode culturali attive anche nel nostro mondo di psicoanalisti e clinici, bensì ad una validità ancora vitale di teorie e pratiche, che mantengano una loro spendibilità sia nell’interpretare il mondo psichico e le sue fenomenologie, sia nella pratica clinica, che di quel mondo vuole curare le manifestazioni di sofferenza.
G. Benedetti non è certo stato un teorico aggiornato e permeabile alle novità, di fronte alle quali, pur senza iattanza, ha però mostrato una sorta di aristocratico distacco. C’era, in tale atteggiamento, un suo limite culturale, è indubbio; e tuttavia c’era in esso anche un implicita libertà di essere, e apparire, aggiornato e moderno.
Benedetti rimase sempre rigorosamente fedele alla teoria freudiana delle pulsione ed al modello tripartito, che integrò con un approccio fenomenologico-esistenziale (conobbe Binswanger, Jaspers, Medard Boss) vissuto con straordinaria intensità e trasfuso con radicalità nel rapporto terapeutico con i pazienti. È possibile cogliere più di una eco fenomenologica in alcuni concetti della sua elaborazione teorica particolarmente feconda nella clinica delle psicosi; ad esempio nel concetto di “personazione”, che implicava l’acquisizione da parte del paziente, attraverso l’intervento attivo e partecipe dello psicoterapeuta, dello statuto di “persona”, cioè di soggetto autonomo e di Sé individuato, tant’è che Benedetti definì anche significativamente la psicoterapia come “ricerca del Sé perduto” del paziente psicotico. Oppure si pensi alla distinzione benedettiana tra interpretazione “esterna al delirio” e interpretazione “interna al delirio”; quest’ultima implicante una partecipazione empatica, nell’ hic et nunc, del terapeuta al delirio del paziente e ai suoi vissuti emotivi ed esistenziali.
La sensibilità fenomenologica consentì a Benedetti, pur lontano dagli sviluppi della psicoanalisi contemporanea, di elaborare un approccio clinico-teorico fortemente interpersonale e, per certi versi, intersoggettivista, come si può cogliere anche in altri suoi concetti teorici, quali quello di “soggetto transizionale” o di “dualizzazione della psicopatologia”, concetti che, a loro volta, implicavano non solo una interazione viva tra psicoterapeuta e paziente, ma anche un coinvolgimento attivo del primo nella relazione e partecipe della vita interna del paziente. Di qui un’attenzione particolarmente concentrata, e persino sofferta, al proprio controtransfert, utilizzato non solo per penetrare nelle zone più oscure del mondo interno del paziente, ma anche per intercettarne le dinamiche inter-psichiche più sottili o più potenti.
Il contributo di Benedetti alla terapia delle nevrosi e delle psicopatologie gravi ma non psicotiche, non fu certo pari a quello nel campo delle psicosi. Ho già ricordato il suo rigoroso e classico “freudismo”, che però non mi appare un reperto archeologico, bensì un approccio che, se relativizzato e concepito in termini non omnicomprensivi, mantiene, a mio avviso, una sua indiscutibile utilità. Se, infatti, il modello pulsionale è ormai obiettivamente, da decenni, con buona pace di Benedetti, superato e palesemente inadeguato, il modello tripartito invece, con la tutt’altro che esaurita capacità di dare spiegazione delle dinamiche intrapsichiche e dei conflitti interpersonali nei quali tali dinamiche vengono proiettate, è tutt’ora un modello clinico utilissimo.
G. Benedetti si è trasferito dall’Italia (era nato a Catania nel 1920) nella Svizzera tedesca alla fine degli Anni Quaranta. Suo luogo elettivo di formazione fu la mitica clinica Burghozli, dove conobbe, oltre a Biswanger, Boss e Jaspers, il direttore M. Bleuler, M Sechehaye, C. G. Jung e Gustav Bally (che fu suo analista). Nel 1957 venne nominato professore all’Università di Basilea, dove diresse anche il servizio di Psicoterapia del dipartimento psichiatrico. E nel mondo della Svizzera Tedesca Benedetti si inserì profondamente e con tutto se stesso tanto che il suo elegante e un po’ arcaico italiano si colorò di una caratteristica patina teutonica. Arrivò anche a convertirsi al protestantesimo ed anche questo particolare della sua storia personale continuò a plasmarne il carattere, conferendogli tratti di austerità e di rigorosa eticità altrettanto caratteristici.
Cosa ricordo personalmente di lui? Arrivava alle supervisioni accompagnato da minuziosi appunti sul caso clinico, che consultava nel corso della supervisione stessa. I suoi interventi erano sempre calibratissimi, molto pertinenti, talora un po’ incalzanti, ma sempre accompagnati da garbo e cortesia (ci chiamava tutti “caro collega”, anche i più giovani). E le sue conclusioni alla discussione del caso erano sempre una piccola ed organica lezione di psicopatologia applicata. Ricordo infine il rispetto e, talora, la composta compassione con cui parlava, pur nella sua formalità apparentemente un po’ distante, dei pazienti e delle sofferenze che la loro psicopatologia gli imponeva loro.
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G. Benedetti non è certo stato un teorico aggiornato e permeabile alle novità, di fronte alle quali, pur senza iattanza, ha però mostrato una sorta di aristocratico distacco. C’era, in tale atteggiamento, un suo limite culturale, è indubbio; e tuttavia c’era in esso anche un implicita libertà di essere, e apparire, aggiornato e moderno.
Benedetti rimase sempre rigorosamente fedele alla teoria freudiana delle pulsione ed al modello tripartito, che integrò con un approccio fenomenologico-esistenziale (conobbe Binswanger, Jaspers, Medard Boss) vissuto con straordinaria intensità e trasfuso con radicalità nel rapporto terapeutico con i pazienti. E’ possibile cogliere più di una eco fenomenologica in alcuni concetti della sua elaborazione teorica particolarmente feconda nella clinica delle psicosi; ad esempio nel concetto di “personazione”, che implicava l’acquisizione da parte del paziente, attraverso l’intervento attivo e partecipe dello psicoterapeuta, dello statuto di “persona”, cioè di soggetto autonomo e di Sé individuato, tant’è che Benedetti definì anche significativamente la psicoterapia come “ricerca del Sé perduto” del paziente psicotico. Oppure si pensi alla distinzione benedettiana tra interpretazione “esterna al delirio” e interpretazione “interna al delirio”; quest’ultima implicante una partecipazione empatica, nell’ hic et nunc, del terapeuta al delirio del paziente e ai suoi vissuti emotivi ed esistenziali.
La sensibilità fenomenologica consentì a Benedetti, pur lontano dagli sviluppi della psicoanalisi contemporanea, di elaborare un approccio clinico-teorico fortemente interpersonale e, per certi versi, intersoggettivista, come si può cogliere anche in altri suoi concetti teorici, quali quello di “soggetto transizionale” o di “dualizzazione della psicopatologia”, concetti che, a loro volta, implicavano non solo una interazione viva tra psicoterapeuta e paziente, ma anche un coinvolgimento attivo del primo nella relazione e partecipe della vita interna del paziente. Di qui un’attenzione particolarmente concentrata, e persino sofferta, al proprio controtransfert, utilizzato non solo per penetrare nelle zone più oscure del mondo interno del paziente, ma anche per intercettarne le dinamiche inter-psichiche più sottili o più potenti.
Il contributo di Benedetti alla terapia delle nevrosi e delle psicopatologie gravi ma non psicotiche, non fu certo pari a quello nel campo delle psicosi. Ho già ricordato il suo rigoroso e classico “freudismo”, che però non mi appare un reperto archeologico, bensì un approccio che, se relativizzato e concepito in termini non omnicomprensivi, mantiene, a mio avviso, una sua indiscutibile utilità. Se, infatti, il modello pulsionale è ormai obiettivamente, da decenni, con buona pace di Benedetti, superato e palesemente inadeguato, il modello tripartito invece, con la tutt’altro che esaurita capacità di dare spiegazione delle dinamiche intrapsichiche e dei conflitti interpersonali nei quali tali dinamiche vengono proiettate, è tutt’ora un modello clinico utilissimo.
G. Benedetti si è trasferito dall’Italia (era nato a Catania nel 1920) nella Svizzera tedesca alla fine degli Anni Quaranta. Suo luogo elettivo di formazione fu la mitica clinica Burghozli, dove conobbe, oltre a Biswanger, Boss e Jaspers, il direttore M. Bleuler, M Sechehaye, C. G. Jung e Gustav Bally (che fu suo analista). Nel 1957 venne nominato professore all’Università di Basilea, dove diresse anche il servizio di Psicoterapia del dipartimento psichiatrico. E nel mondo della Svizzera Tedesca Benedetti si inserì profondamente e con tutto se stesso tanto che il suo elegante e un po’ arcaico italiano si colorò di una caratteristica patina teutonica. Arrivò anche a convertirsi al protestantesimo ed anche questo particolare della sua storia personale continuò a plasmarne il carattere, conferendogli tratti di austerità e di rigorosa eticità altrettanto caratteristici.
Cosa ricordo personalmente di lui? Arrivava alle supervisioni accompagnato da minuziosi appunti sul caso clinico, che consultava nel corso della supervisione stessa. I suoi interventi erano sempre calibratissimi, molto pertinenti, talora un po’ incalzanti, ma sempre accompagnati da garbo e cortesia (ci chiamava tutti “caro collega”, anche i più giovani). E le sue conclusioni alla discussione del caso erano sempre una piccola ed organica lezione di psicopatologia applicata. Ricordo infine il rispetto e, talora, la composta compassione con cui parlava, pur nella sua formalità apparentemente un po’ distante, dei pazienti e delle sofferenze che la loro psicopatologia gli imponeva loro.
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G. Benedetti non è certo stato un teorico aggiornato e permeabile alle novità, di fronte alle quali, pur senza iattanza, ha però mostrato una sorta di aristocratico distacco. C’era, in tale atteggiamento, un suo limite culturale, è indubbio; e tuttavia c’era in esso anche un implicita libertà di essere, e apparire, aggiornato e moderno.
Benedetti rimase sempre rigorosamente fedele alla teoria freudiana delle pulsione ed al modello tripartito, che integrò con un approccio fenomenologico-esistenziale (conobbe Binswanger, Jaspers, Medard Boss) vissuto con straordinaria intensità e trasfuso con radicalità nel rapporto terapeutico con i pazienti. E’ possibile cogliere più di una eco fenomenologica in alcuni concetti della sua elaborazione teorica particolarmente feconda nella clinica delle psicosi; ad esempio nel concetto di “personazione”, che implicava l’acquisizione da parte del paziente, attraverso l’intervento attivo e partecipe dello psicoterapeuta, dello statuto di “persona”, cioè di soggetto autonomo e di Sé individuato, tant’è che Benedetti definì anche significativamente la psicoterapia come “ricerca del Sé perduto” del paziente psicotico. Oppure si pensi alla distinzione benedettiana tra interpretazione “esterna al delirio” e interpretazione “interna al delirio”; quest’ultima implicante una partecipazione empatica, nell’ hic et nunc, del terapeuta al delirio del paziente e ai suoi vissuti emotivi ed esistenziali.
La sensibilità fenomenologica consentì a Benedetti, pur lontano dagli sviluppi della psicoanalisi contemporanea, di elaborare un approccio clinico-teorico fortemente interpersonale e, per certi versi, intersoggettivista, come si può cogliere anche in altri suoi concetti teorici, quali quello di “soggetto transizionale” o di “dualizzazione della psicopatologia”, concetti che, a loro volta, implicavano non solo una interazione viva tra psicoterapeuta e paziente, ma anche un coinvolgimento attivo del primo nella relazione e partecipe della vita interna del paziente. Di qui un’attenzione particolarmente concentrata, e persino sofferta, al proprio controtransfert, utilizzato non solo per penetrare nelle zone più oscure del mondo interno del paziente, ma anche per intercettarne le dinamiche inter-psichiche più sottili o più potenti.
Il contributo di Benedetti alla terapia delle nevrosi e delle psicopatologie gravi ma non psicotiche, non fu certo pari a quello nel campo delle psicosi. Ho già ricordato il suo rigoroso e classico “freudismo”, che però non mi appare un reperto archeologico, bensì un approccio che, se relativizzato e concepito in termini non omnicomprensivi, mantiene, a mio avviso, una sua indiscutibile utilità. Se, infatti, il modello pulsionale è ormai obiettivamente, da decenni, con buona pace di Benedetti, superato e palesemente inadeguato, il modello tripartito invece, con la tutt’altro che esaurita capacità di dare spiegazione delle dinamiche intrapsichiche e dei conflitti interpersonali nei quali tali dinamiche vengono proiettate, è tutt’ora un modello clinico utilissimo.
G. Benedetti si è trasferito dall’Italia (era nato a Catania nel 1920) nella Svizzera tedesca alla fine degli Anni Quaranta. Suo luogo elettivo di formazione fu la mitica clinica Burghozli, dove conobbe, oltre a Biswanger, Boss e Jaspers, il direttore M. Bleuler, M Sechehaye, C. G. Jung e Gustav Bally (che fu suo analista). Nel 1957 venne nominato professore all’Università di Basilea, dove diresse anche il servizio di Psicoterapia del dipartimento psichiatrico. E nel mondo della Svizzera Tedesca Benedetti si inserì profondamente e con tutto se stesso tanto che il suo elegante e un po’ arcaico italiano si colorò di una caratteristica patina teutonica. Arrivò anche a convertirsi al protestantesimo ed anche questo particolare della sua storia personale continuò a plasmarne il carattere, conferendogli tratti di austerità e di rigorosa eticità altrettanto caratteristici.
Cosa ricordo personalmente di lui? Arrivava alle supervisioni accompagnato da minuziosi appunti sul caso clinico, che consultava nel corso della supervisione stessa. I suoi interventi erano sempre calibratissimi, molto pertinenti, talora un po’ incalzanti, ma sempre accompagnati da garbo e cortesia (ci chiamava tutti “caro collega”, anche i più giovani). E le sue conclusioni alla discussione del caso erano sempre una piccola ed organica lezione di psicopatologia applicata. Ricordo infine il rispetto e, talora, la composta compassione con cui parlava, pur nella sua formalità apparentemente un po’ distante, dei pazienti e delle sofferenze che la loro psicopatologia gli imponeva loro.