Il grande punto di forza del pensare mafioso – come è ampiamente noto – è dato dall’incredibile coesione tra i membri interni dell’organizzazione, tale da rendere i loro “affari” realmente “Cosa Nostra”. Questa coesione, che nel tempo si è incrinata grazie al fenomeno del pentitismo, è stata costruita facendo coincidere ampiamente la famiglia biologica con quella sociale ed affettiva, tramite i diffusi matrimoni all’interno della famiglia stessa di appartenenza degli uomini di onore, seguendo il millenario esempio occidentale dell’aristocrazia, facendo cioè coincidere la famiglia d’origine con la famiglia dell’organizzazione. Si crea così una coesione “fondamentalista” cioè basata su rigide fondamenta affettive dell’individualità. Nella psicologia fondamentalista, laddove non vi sia la coincidenza tra famiglia biologica e famiglia di nuova appartenenza (dell’organizzazione), è quest’ultima a divenire più importante della famiglia biologica. Per la mafia si può uccidere il proprio congiunto che ha “sgarrato”. La famiglia mafiosa risponde principalmente al bisogno estremo del soggetto di identità e di appartenenza. Il mafioso, prima di diventare tale, era nuddu ammiscatu cu nenti, e quindi per mezzo della sua identificazione totalizzante con i valori della famiglia mafiosa, divenuta più importante e vitale della famiglia originaria, raggiunge una propria dimensione identitaria accompagnata da un forte senso di protezione, tanto agognati per muoversi e orientarsi nel mondo e per costruire un proprio progetto di vita. Il familista amorale – sia mafioso che non - concepisce come vantaggioso soltanto quello che può rinforzare l’organizzazione familiare. La famiglia è vista e vissuta come unico rimedio all’insicurezza del singolo; essa offre protezione all’individuo e, di conseguenza, più ognuno dei suoi componenti contribuisce all’arricchimento della famiglia e maggiormente si sente da essa protetto (Banfield, 1958).
“Nuddu ammiscatu cu nenti” è un’espressione tipica del dialetto siciliano che, nel rafforzativo delle due negazioni – nessuno e niente – viene utilizzata per indicare colui che non conta nulla, che esiste come realtà fisica, come corpo, ma che non conta nulla come soggetto. Colui che non ha visibilità sociale perché privo di un’identità. Tuttavia, l’identità così ottenuta è un’identità priva di autonomia di pensiero, di individualità, di diversità e di soggettività autentici.
Non è un’identità personale in senso proprio, con un pensiero autonomo e con conflitti propri, ma un’identità “robotizzata”, da replicante. Non a caso il pensiero e il sentire mafioso sono stati definiti dai più autorevoli studiosi del campo come un non pensiero, così come testimonia anche lo slogan cinematografico ricorrente all’interno dei film di mafia “mamma comanda picciotto va e fa”. Alla radice di questo bisogno estremo di identità e di appartenenza viene suggerita un’impossibilità da parte di larghe fasce della popolazione di identificarsi con lo Stato, inteso come potere razionale ed impersonale. Per molti secoli il potere statale in Sicilia è stato incarnato da dominatori stranieri, quindi da un’aristocrazia terriera parassitaria e sfruttatrice con la quale era impossibile un’identificazione da parte del popolo, e poi ancora da una borghesia agraria che ha “replicato i vizi dell’aristocrazia”. Il vissuto antropologico e culturale del siciliano, derivato da questi avvenimenti storici e tramandatosi da generazione in generazione, si presenta come un vissuto depressivo di espropriazione e di sfiducia, di attesa passiva e di impotenza, di incertezza ma anche di minaccia, insicurezza e rassegnazione. L’insicurezza atavica e storica del popolo siciliano che impedirebbe ai siciliani, nell’espressione del loro pensiero, una costruzione sintattica rivolta al futuro: infatti, correntemente in Sicilia si dice “domani vado, domani faccio”, non esistendo nella lingua dialettale la coniugazione dei verbi al futuro.
Vissuto quello appena descritto nel quale la mafia ha trovato terreno fertile per potersi radicare e diffondersi. A questo si aggiunge la collusione tra Stato e mafia per mezzo dei politici locali, che rende quindi ancora difficile la possibilità di un’identificazione forte con esso. Queste considerazioni sul contesto antropo-culturale siciliano risultano oggi quanto mai necessarie per comprendere il fenomeno “mafia”. Risultano necessarie per non ripetere quell’antico errore epistemologico legato al voler comprendere la mafia e la psiche mafiosa adottando ora questo ora quel paradigma (freudiano, junghiano ecc., ecc.) in maniera del tutto avulsa dal contesto di riferimento in cui il fenomeno si radica e cresce, con pesanti ricadute nella lettura del fenomeno stesso. In linea con le più recenti analisi del fenomeno ritengo che esso possa essere tematizzato solo nella sua continuità strumentale e/o discontinuità con la cultura di origine. Come scrive Fallowell: « In Sicilia la mafia cresce non a forza, ma in maniera naturale, come il fico d’India…prospera in modo insidioso più che in maniera rumorosa».
Tuttavia, confondere la cultura siciliana e la cultura mafiosa è stato uno degli errori teorici ed operativi più perniciosi così come lo è confondere il ricchissimo dialetto siciliano con la lingua mafiosa. La cultura siciliana ha anche prodotto centinaia di persone che hanno pagato con la vita la loro opposizione alla mafia e le altre che continuano, oggi, a rischiare la vita e le carriere professionali, mentre lo Stato italiano ed i poteri siciliani, in buona parte, colludevano con il fenomeno, lo sottovalutavano, ne condividevano alcuni aspetti di fondo. Sono chiare le parole di Falcone (1991): «Per lungo tempo si sono confuse la mafia e la mentalità mafiosa, la mafia come organizzazione illegale e la mafia come semplice modo di essere. Quale errore! Si può benissimo avere una mentalità mafiosa senza essere un criminale».
Ma il sentire mafioso non può essere inteso moralisticamente come struttura psicologica negativa, nel senso che il soggetto che ne è attraversato non lo sente come tale, al contrario per lui rappresenta un tema antropo-culturale che, attraverso la famiglia e i suoi miti, fonda ampie quote di identità personale, bisognosa di certezze istituite, certezze che assumono valore positivo proprio perché rappresentano una continuità con il codice di tipo materno-dipendente ed assistenziale. In questo senso si può parlare di disturbo psicopatologico dell’individuo, che però a ben riflettere è prima di tutto un disturbo ambientale.
Per comprendere il fenomeno è stato anche ipotizzato un atteggiamento di adorcismo della realtà mafiosa, piuttosto che di esorcismo della stessa, intendendo fare riferimento a quel pensare mafioso che si presenta come salvifico in un sistema sociale in cui lo Stato viene percepito come incapace di tutelare i cittadini ed in cui le leggi sono avvertite come sostanzialmente ingiuste. Ciò genera anche quel diffuso sentimento di adesione ai comportamenti illegali pure da parte di chi, nella propria vita, nulla ha a che vedere con le attività criminali.
Nell’attuale società segnata dal deserto dei valori collettivi e dalla legge di violenza, Cosa Nostra ha riempito difatti molti vuoti, dando risposta in modo deviato ed abnorme ad un bisogno profondo e inappagato di identità e di appartenenza, donando l’opportunità a molti di entrare da protagonisti nella complessità del reale, trasformando (magicamente) l’impotenza e la rassegnazione in potere che ordina e dona senso al mondo. Il cursus honorem offerto dall’organizzazione – soldato, capo decina, consigliere, tesoriere, ambasciatore, capofamiglia, capo mandamento, componente della commissione provinciale, componente della commissione regionale – copre l’arco di un’esistenza, trasformando il vuoto in pieno, il nulla in senso, l’”assenza di storia” in storia.
Come afferma Marino Mannoia - un importante collaboratore di giustizia, killer pluriomicida e trafficante di droga - al giudice Scarpinato in un interrogatorio risalente al 1989: “Sa perché sono diventato uomo d’onore? Perché prima ero nuddu ammiscatu cu nenti e poi, invece, dovunque arrivavo le teste si abbassavano e questo per me non aveva prezzo; valeva molto di più di tutti i soldi che avevo fatto e avevo speso”. Un altro collaboratore, Giovanni Drago - ex appartenente alla famiglia palermitana di Corso dei Mille componente del gruppo di fuoco agli ordini della Commissione, partecipante attivo all’uccisione dei famigliari di Mannoia - disse allo stesso giudice: «Sa, signor giudice, a volte mi accade di pensare che se non fossi nato a Palermo e se non fossi cresciuto in una famiglia mafiosa, se fossi nato a Milano, avrei fatto il carabiniere». Il giudice allora gli chiese: «Perché proprio il carabiniere?»; e lui rispose: «Perché non mi sarei mai rassegnato ad essere nuddu ammiscatu cu nenti». Ecco le riflessioni del giudice Scarpinato: «Compresi che il carabiniere era per Drago il simbolo di un’identità forte, un’identità necessaria per sfuggire ad una sorta di male oscuro e quasi assoluto: l’assenza di un punto di riferimento interno e la dispersione del Sé. E mi colpì che Drago avesse usato la stessa espressione di Mannoia: “nuddu ammiscatu cu nenti.” Pensai che si trattasse di un caso; la sorte aveva voluto che mi imbattessi in due uomini che forse avevano tratti di personalità comuni. Ma presto mi resi conto che non si trattava di un caso. Quell’espressione “nuddu ammiscatu cu nenti” era una sorta di filo rosso che attraversava il vissuto di tanti uomini d’onore». Il giudice giunge a queste nuove conclusioni chiedendo provocatoriamente a Cancemi, collaboratore ex componente della Commissione di Cosa Nostra: «Mi spiega perché mai Bernardo Provenzano, che ha un’età avanzata che ha accumulato un patrimonio illecito di centinaia di miliardi, invece di scappare all’estero, all’altro capo del mondo con una nuova identità e di godersi il resto della vita vivendo da nababbo, resta a Palermo correndo il rischio di essere catturato da un momento ad un altro o di essere ucciso dai suoi antagonisti all’interno di Cosa Nostra?» E Cancemi, quasi sorpreso dalla domanda, rispose: «E chi sarebbe Bernardo Provenzano con tutti i suoi miliardi all’ altro capo del mondo? Nuddu ammiscatu cu nenti. Avrebbe lavorato una vita per niente».
Ma ecco il fatto storicamente eccezionale: dall’interno delle istituzioni emergono man mano personalità a tal punto forti da inclinare il “comune sentire” e capaci di fornire quei modelli di identificazione con lo Stato fino ad allora mancanti. Falcone e Borsellino riescono, grazie ad un uso “chirurgico” dello strumento della relazione interpersonale, ad assecondare quell’anomalia emergente da “Cosa Nostra” rappresentata dai primi pentiti come Buscetta. Primi pentiti che riescono a rompere il cordone ombelicale che li legava alla mafia. Ad eccezione del primo vero pentito, Vitale, che ricevette dalla neuro-psichiatria, invece che protezione e comprensione, un annullamento di Sé, perpetrato a forza di farmaci ed elettroshock a seguito di diverse perizie psichiatriche che lo etichettarono prima come un paranoide-depressivo, poi psicotico, quindi gravemente depresso con stati confusionali (escludendo la schizofrenia) e per finire come depresso-ansioso. Inascoltato sul piano psicologico e legale, venne assassinato nell’84 dopo aver scontato una pena di cinque anni presso il manicomio criminale di Reggio Emilia. Da poche settimane Buscetta aveva terminato le sue prime confessioni che ripetevano sostanzialmente quanto detto da Vitale dieci anni prima.
Ma come è stato a ragione notato, il vero eroe non è tanto Buscetta, quanto appunto Falcone. È verosimile infatti pensare che senza Falcone, Buscetta avrebbe avuto ben altro destino.
Se tutto ciò è vero, non mancano ancora oggi forti motivi di preoccupazione. Infatti, quando ad un certo momento della storia del mondo, come scriveva Falcone (1991), anche la mafia, al pari di tutti i fenomeni umani, vedrà la propria fine, questa sua scomparsa potrebbe non coincidere con la soluzione dei gravi problemi di illegalità diffusa che affliggono la Sicilia, se prima non si sarà riusciti a capire e risolvere i problemi, anche culturali, che hanno generato la mafia stessa.
- Lo Verso G. (a cura di), La mafia dentro: psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo, Franco Angeli, Milano, 1998.
- Lo Coco G., Lo Verso G. (a cura di), La psiche mafiosa: storie di casi clinici e collaboratori di giustizia, Franco Angeli, Milano, 2005.