Durante l’estate appena trascorsa, un tema ampiamente trattato dai mass media è stato quello della violenza alle donne. Tra i vari interventi che ci sono stati, voglio proporre alcune considerazioni riferendomi a un’affermazione sull’argomento fatta da Giulia Buongiorno, avvocato ed ex parlamentare, molto impegnata in questo campo, anche attraverso l’aver fondato, insiema all’attrice Michelle Hunziker, un’Associazione che si occupa di questo problema.
L’affermazione è relativa al fatto che gli uomini responsabili di atti di violenza sulle donne spesso si esprimono usando il possessivo: “la mia donna”, e la Buongiorno rileva in questo l’espressione di una violenza già implicita nell’espressione usata; nessuno, a suo dire “è di qualcun altro”, e il senso di possesso fa sentire l’uomo che vive in questa dimensione autorizzato a praticare violenza su colei che viene fatta oggetto di questo possesso.
Il mio primo pensiero corre a una vignetta di molti anni fa, intorno alla fine degli anni sessanta, dove Mafalda, una bambina creata dal fumettista Quino, diceva a tutti “Io sono mia!”. Per un po’ di tempo questa vignetta venne presa ad emblema dal femminismo di allora, che rivendicava per la donna una totale indipendenza dall’uomo, anche sul piano della sessualità. Uno slogan faceva addirittura riferimento alla possibilità per la donna di darsi il piacere da sola, attribuendo a questo fatto l’espressione di una sorta di salutare autonomia dall’uomo, e di garanzia del raggiungimento dell’orgasmo.
Al giorno d’oggi poche sono ancora le femministe “arrabbiate” che vedono nel sottrarsi all’incontro con l’uomo un’espressione di libertà, ma ancora permane il convincimento di doversi svincolare dall’idea di un possesso dell’uno sull’altra.
Ciò che permette di superare questa visione individualista e separatista è, a mio avviso, l’idea di “reciprocità”. Certamente l’uomo che vede la donna come “sua” e che le impone la propria presenza in nome del possesso è già in sé un violentatore, ma il discorso decade se a suo volta l’uomo si sente “possesso” della donna. Se sono disposto ad essere “tuo” posso dire che tu sei “mia”, o almeno proporlo come base del rapporto.
Questo discorso diventa più comprensibile se si riprende il concetto di “libertà”. Giorgio Gaber cantava:
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone.
La libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Concordo pienamente con questa prospettiva, nella quale la presenza dell’altro non è qualcosa che limita la libertà della persona, ma al contrario la amplifica. Molte cose della nostra vita sono possibili solo in una dimensione di condivisione, e dunque l’idea di due persone che sono l’uno dell’altra e l’altra dell’uno può creare uno spazio di condivisione in cui la libertà di ciascuno si amplifica attraverso l’altro. L’incontro sessuale fecondo che “fa nascere” un figlio è già in sé un esempio di ciò che intendo, tanto più se viene preso anche come metafora di tutto ciò che può nascere dall’incontro di due persone che si uniscono in un vincolo, sentendo di possedersi reciprocamente.
Dalla reciprocità del possesso possono nascere idee, pensieri, produzioni artistiche, e anche, più semplicemente ma non per questo con minor valore, momenti di vita condivisa in cui lo scambio di due modi di essere che si fondono porta ciascuno a percorrere orizzonti che in solitudine non potrebbe mai raggiungere.
In un volumetto uscito in questi giorni edito da Arpanet, e che raccoglie le mie lezioni di “Psicologia sociale e dei gruppi” tenute presso la scuola di psicoterapia dell’Istituto Erich Fromm di Bologna, propongo come conclusione un discorso sulla dipendenza che qui voglio riportare.
...non possiamo non dipendere, e quanto di meglio ci può accadere è “scegliere da chi dipendere”, costruendo delle alleanze. [...]
L’affermazione “Per poter voler bene agli altri bisogna prima voler bene a sé stessi” va a mio avviso capovolta: “È impossibile realizzare qualcosa di buono per sé stessi se non si vuole bene agli altri”; e non “altri” generici, ma qualcuno con cui, aprendomi al mondo, posso scegliere di costituire un rapporto di alleanza fondato sul “noi”.
Il lavoro terapeutico va dunque a mio avviso concepito [...] come un lavoro sulla relazione teso a favorire il riconoscimento delle proiezioni che ci rendono diffidenti nei confronti del mondo, vivendo nel “qui e ora” le possibilità di alleanza e di scelta di dipendenza che le persone che (ri)conosco mi offrono. La terapia aiuta a fare delle scelte di dipendenza che permettano il costituirsi di alleanze che aprono al rischio del “nuovo”, nella condivisione data dal costituirsi di un “noi” che si è svincolato dai legami proiettivi con un passato pre-scritto. [1]
Dalla coppia uomo-donna a quella terapeutica, abbiamo dunque la possibilità di costituire un’alleanza nella quale possiamo dire non solo “il mio uomo” e “la mia donna”, ma anche “il mio paziente” e “il mio terapeuta”, col piacere e l’orgoglio di condividere un’esperienza nella quale le parti in causa si confrontano e sono di continuo stimolo reciproco, in un legame che, anziché limitare la libertà, la amplifica.
[1] Carnevali R. (2013), Scegliere la dipendenza. Compendio di Psicologia Sociale e dei Gruppi per Psicoterapeuti, Arpanet, Milano.