Ci sono libri che, pur non essendo scritti da addetti ai lavori e nemmeno a loro diretti, riescono comunque a toccare aspetti dell’animo umano in un modo così pregnante da risultare, anche per chi fa il nostro mestiere, più fecondi di stimoli rispetto a tanti saggi di clinica o di teoria della clinica. Possiamo portare come esempio Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, di Mark Haddon, che introduce il lettore ai vissuti di un autistico, entrando dentro di lui e proponendoci un racconto dal suo punto di vista.
Anche il libro di cui voglio parlare ha un’intensa forza espressiva, e ci conduce in un viaggio dentro di noi attraverso la capacità introspettiva e identificatoria dell’autrice. Il mondo in cui ci porta Chiara Gamberale con Le luci nelle case degli altri è quello dell’adolescenza, e anche quello del gruppo, descrivendoci un intreccio di relazioni che, nato da una situazione molto particolare, si sviluppa in varie direzioni, tante quanti sono i personaggi, delineati in modo sottile e profondo.
La storia parte dalla morte per incidente dell’amministratrice di un condominio, che lascia sola la figlia, una ragazzina, di nome Mandorla, un po’ sperduta e immersa in un mondo pieno di rituali ossessivi attraverso i quali cerca di controllare la realtà, ma anche capace di osservare il mondo circostante e filtrarlo con le proprie risorse, riuscendo a conquistare l’affetto di chi la circonda. I condòmini si sentono responsabilizzati nei confronti di Mandorla, e decidono di occuparsene insieme, costituendo un gruppo di genitori adottivi che condivide, nel bene e nel male, l’educazione e la crescita della ragazzina. Ciò che rende particolarmente inquietanti i rapporti all’interno di questo gruppo è la scoperta di una lettera in cui la madre racconta a Mandorla che non è vero che suo padre è morto; la ragazza è frutto di un amore finito, consumatosi tra le mura del condominio. La storia procede tra sospetti e tradimenti, tra coppie che si lasciano e coppie che si rinsaldano, con Mandorla che periodicamente si trasferisce da un appartamento all’altro e diventa la testimone, spesso coinvolta in prima persona, degli intrecci relazionali che si articolano tra i personaggi, sia all’interno dei nuclei familiari che nel rapporto tra loro. Nessuno dei personaggi saprà mai chi è il padre di Mandorla, mentre il lettore lo scopre alla fine, e la rivelazione è sconcertante e ricca di significati simbolici.
L’autrice, trentacinquenne, è conosciuta sia come scrittrice che come conduttrice televisiva e soprattutto radiofonica. Ho cominciato a leggere i suoi libri dopo averla ascoltata in una trasmissione radiofonica che si chiamava “Trovati un bravo ragazzo”, che si proponeva, con rara efficacia, di affrontare argomenti di attualità in una prospettiva tesa a sfatare i luoghi comuni. Gli approfondimenti, spesso espressi in un linguaggio che dimostrava una notevole preparazione psicoanalitica, mi hanno a volte sollecitato a riflettere su aspetti apparentemente scontati dell’animo umano, che invece, attraverso il modo in cui venivano proposti, prendevano forma in modo originale e ricco di significati inusuali.
Anche nel libro accade questo. Lo stile è quasi cinematografico, con continui spostamenti di tempo, flashback in cui Mandorla e tutti gli altri personaggi ripescano episodi del proprio passato che danno un senso, a cui sempre solo si allude, agli eventi del presente. La Gamberale non fa mistero di avere un passato di anoressia, o comunque di problemi connessi all’alimentazione, e di aver fatto una lunga analisi, che le ha lasciato una traccia profonda. Il punto più rilevante di questa traccia è, a mio avviso, la capacità di stimolare a riflettere senza offrire soluzioni preconfezionate. L’autrice sfiora mondi interni delicati con corrispondente delicatezza, e a volte si insinua in profondità offrendo idee “forti” che esprimono convinzioni ben fondate, ma non pretende di “spiegare” le cose. Preferisce togliere sipari dietro ai quali si animano scene complesse, e invitare il suo pubblico ad assistere in modo partecipe, offrendo molti stimoli identificatori, espressione di una grandissima sensibilità, che potremmo, con Bion, chiamare “capacità negativa”. Senza mitizzazioni né idealizzazioni, la Gamberale si immerge, e ci immerge, in una sofferenza che amplifica la conoscenza, e che per questo diventa accettabile, in quanto comprensibile e portatrice di “verità”.
Un tema a lei caro, e già presente nel suo precedente romanzo lungo, La zona cieca, riguarda la possibilità di riconoscerci attraverso gli occhi degli altri, per la presenza di quella “zona cieca”, per l’appunto, che è visibile agli altri e non a noi. Le luci nelle case degli altri sono l’emblema di un “dentro” visto da un “fuori”, con occhi che, da una prospettiva comunque diversa, vedono ciò che dall’interno non può essere visto.
Prendo spunto da questo discorso per rilevare che perfino la copertina di questo libro esprime una cura particolare: lo sguardo della ragazza nella fotografia sul frontespizio riesce ad essere al tempo stesso lo specchio della sua anima e la finestra che si apre sui mondi che la circondano.
Tra le suggestioni evocate, portatrici di ulteriori sviluppi creativi, mi preme evidenziare la possibilità di avvicinarsi, attraverso questo romanzo, al senso più profondo dell’interpretazione, che non cerca di essere una spiegazione di ciò che si è capito e si vuol far capire, ma prova ad essere l’attribuzione di un senso a qualcosa che non può prescindere dalla soggettività di chi la vive, e dunque stimola alla conoscenza attraverso un riconoscimento, che apre, e non chiude, un discorso.