Prendo spunto dal commento di Secondo Giacobbi al caso clinico di Gerardo (entrambi gli scritti sono comparsi nel numero scorso), per riflettere su una modalità diffusa di leggere il materiale clinico, che risente a mio avviso di un pregiudizio che vorrei sfatare. Per evitare di collocare questa mia breve nota nel materiale protetto, e permetterne a tutti quanti la comprensione, riporto l’elemento essenziale che offre lo spunto: Gerardo è un musicista autodidatta, che da un po’ di tempo, anche a causa di una malattia progressivamente invalidante, ha fatto della musica la sua unica attività, sia a livello esecutivo che compositivo. Mi comunica di aver iniziato a comporre una sinfonia per un’orchestra di molti elementi, e Giacobbi così commenta la cosa: “Fino a che punto la sinfonia per un’orchestra di 80 elementi è progetto e sublimazione e fino a che punto è nell’ordine della fantasia onnipotente e, poi, scompensante?”
Essendo io stesso musicista di buon livello, ed essendo la musica un canale comunicativo che ha permesso, con Gerardo e con altri pazienti, riflessioni ricche e articolate in modo costruttivo, ritengo di poter dire in modo fondato che Gerardo è un musicista di tutto rispetto, e che la sua intenzione di comporre una sinfonia di questo tipo non ha nulla di velleitario. Qualcuno potrà dire che Giacobbi pone la questione proprio in questi termini, e che dunque la mia affermazione risponde semplicemente alla sua domanda, ma io penso che non sia così. La mia competenza in campo musicale mi permette di valutare in modo specifico quanto il paziente propone, ma la stessa cosa non mi sarebbe possibile con un paziente pittore (oltretutto sono anche daltonico) o ingegnere spaziale, per fare un esempio riferito al campo scientifico e non necessariamente a quello artistico. Cosa sarebbe successo a Beethoven se, caduto in depressione per la sua sordità, fosse andato da un analista e gli avesse parlato della propria intenzione di scrivere la sua nona sinfonia introducendo anche un coro polifonico di moltissimi elementi, intitolando per di più un movimento “Inno alla gioia”? Come minimo, l’analista avrebbe pensato a una reazione maniacale alla sopraggiunta sordità, con conseguente “fantasia onnipotente e, poi, scompensante” come dice Giacobbi; soprattutto in un periodo in cui l’assenza di mass media avrebbe potuto, se Beethoven fosse andato a curarsi da un analista, ad esempio, statunitense, far sì che la sua fama di musicista fosse all’analista del tutto sconosciuta, e che dunque quest’ultimo lo valutasse “soltanto” come un paziente. Anche se, nella migliore delle ipotesi, l’analista avesse optato per l’altro versante, quello di “progetto e sublimazione”, questi due termini avrebbero reso in modo efficace quello che accadeva nel mondo interno di Beethoven che si accingeva a comporre la nona sinfonia?
E se Einstein, impiegato dell’ufficio brevetti e violinista dilettante, avendo dei problemi relazionali rilevanti, in particolare nel suo rapporto di coppia, fosse andato da un analista e gli avesse raccontato di aver elaborato una teoria che stravolgeva completamente i fondamenti della fisica newtoniana? Sarebbe stato interpretato in termini di “progetto e sublimazione” o di “fantasia onnipotente e, poi, scompensante”? E l’una o l’altra interpretazione gli avrebbero dato un qualche vantaggio nella comprensione di sé?
Io credo che, parafrasando Bion, l’analista, più ancora che “senza memoria e senza desiderio” debba essere “senza pregiudizio”, e debba saper accogliere le comunicazioni del paziente per quello che possono rappresentare nell’universo di risorse che il paziente può avere, con l’umiltà di chi non giudica ciò che non conosce e non circoscrive nei parametri, spesso riduttivi, della clinica psicoanalitica, i fenomeni costitutivi dell’essere umano, in particolare per ciò che riguarda la sua creatività. Ciò che vedo più di tutto nell’ordine della fantasia onnipotente è proprio la pretesa dell’analista di capire in modo predittivo, e di modulare i propri interventi cercando di non essere in alcun modo collusivo, diventando, così, sicuramente manipolatorio.
Concludo proponendo una sorta di gioco linguistico a cui attribuisco un significato reale.
“Colludere” deriva dal latino “cum-ludere”, dove “cum” corrisponde all’italiano “con”, e “ludere” è un verbo che ha principalmente due significati: “giocare” e “suonare”, allo stesso modo dell’inglese “to play”. Il mio rapporto con Gerardo è un continuo “cum-ludere”, “to play with”, e ritengo che in questo risieda la nostra alleanza terapeutica, e che questa modalità sia la base per i progressi trasformativi che ci sono stati nel nostro suonare insieme e nel nostro comporre. E questa è, a mio avviso, l’essenza del lavoro analitico.