Itinerario storico-semantico
Come aveva già profetizzato F. Nietzsche all’inizio del Novecento, la nostra è un’epoca di “caduta degli dei” (“Dio è morto” dichiara nel celebre aforisma 125 de La Gaia Scienza dal titolo l’Uomo folle). Caduti i grandi sistemi filosofici e religiosi che per lungo tempo avevano costituito dei fondamentali punti di riferimento, e allo stesso tempo, di coesione sociale e di verità inconfutabili per ogni individuo, il modo di entrare in rapporto con la realtà delle cose e con il mondo delle persone è divenuto infinitamente più difficile e problematico.
Sul piano storico, un’altra “caduta”, quella del muro di Berlino, ha segnato profondamente le modalità di esperienza del vivere insieme e ribaltato le categorie di giudizio e di valutazione del reale. La fine del bipolarismo esprime e provoca a livello sociale la frantumazione delle coesioni a qualsiasi livello. L’assenza di appartenenza conduce però, terminata l’iniziale euforia per la liberazione da ogni controllo, ad una grande confusione, e a vissuti di profondo spaesamento ed incertezza. Allora, nessuno si prende più cura di nessuno, nessuno educa più nessuno; se nessuno controlla, nessuno può dare conferma, se nessuno proibisce non esiste un “punto fermo” a cui contrapporsi per sperimentare la mia forza e la mia identità. È la definitiva morte dei “padri” e dei valori che, da sempre, si erano tramandati da generazione in generazione.
In questo ambito di esasperato individualismo (di narcisismo, appunto) nel quale ognuno si crede portatore di verità incontestabili, si avverte lo smarrimento per la relativizzazione di ogni norma: la perdita di punti di vista oggettivi.
Oggi il termine “narcisismo”, quando non è salvato dall’aggettivo ”sano”, viene identificato con egoismo o egocentrismo, e viene percepito come l’ostacolo primario alla convivenza. In effetti, il termine “narcisista” raramente è usato come un complimento nei confronti di qualcuno con una sana stima di sé.
Ma forse la situazione è un po’ più complessa.
In realtà, il termine “narcisista” indica una condizione sia individuale-psicologica, che culturale.
Come è noto, l’uso di questo termine affonda le sue radici nel mito greco di Narciso (del quale esistono diverse versioni): gli déi puniscono il giovane di Tespi, che rifiuta di aprirsi all’amore rappresentato dalla giovane ninfa, chiamata Eco. Eco era stata privata della voce da Era, la moglie di Zeus, e poteva solo ripetere le ultime sillabe della parole altrui. Per l’incapacità di esprimere il suo amore, viene respinta da Narciso e morì di crepacuore. Gli dei punirono Narciso, per la durezza con cui aveva trattato Eco, facendolo innamorare della propria immagine. L’indovino Tiresia aveva predetto il destino di Narciso. Un giorno questi, chinandosi sulle acque limpide di una fonte, vide la sua immagine riflessa. Egli si innamorò appassionatamente di quell’immagine e non volle più abbandonare quel luogo. A causa dell’amore di sé, o meglio lo stupore (“narké”) di fronte alla propria immagine riflessa, Narciso morì.
Morto così di languore, si trasformò in un narciso, il fiore che cresce ai bordi delle fonti. In un’altra versione Narciso morì annegato per unirsi alla sua immagine proiettata sull’acqua.
È interessante notare che Narciso si innamori della sua immagine solo dopo aver respinto Eco. Quindi sembra che l’innamoramento della propria immagine sia interpretato nel mito come conseguenza o punizione per l’incapacità di amare. Seguendo l’interpretazione del mito che ne dà Lowen (1985), Eco potrebbe essere la nostra stessa voce che ritorna a noi. Così, se Narciso avesse potuto dire “ti amo”, Eco avrebbe ripetuto queste parole e il giovane si sarebbe sentito amato. L’incapacità di dire queste parole identifica il soggetto narcisista. Un’altra interpretazione interessante viene avanzata da Lowen: respingendo Eco, Narciso respinge la propria voce. Ma la voce è espressione dell’essere interiore, del sé corporeo contrapposto all’apparenza superficiale. Nel termine “persona” è implicita l’idea che sia possibile conoscere un individuo dal suono della voce. Secondo quindi questa interpretazione Narciso negò il suo essere interiore in favore dell’apparenza: manovra questa tipica dei soggetti narcisistici.
Sulla morte a seguito del digiuno per lo stupore di fronte alla propria immagine riflessa, ci viene in mente una breve riflessione. L’essere umano alla nascita si nutre dell’altro. Questo nutrirsi dell’altro, è naturalmente da intendersi sia in senso letterale dell’allattamento, che in senso metaforico della centralità delle relazione interpersonale ai fini della crescita e dello sviluppo. Ciò detto, l
Su cosa si basa invece la profezia di Tiresia? È possibile che si fondi sulla bellezza eccezionale di Narciso. Una tale bellezza spesso si rivela più una sventura che non una fortuna. La consapevolezza di possederla può dare alla testa e rendere egocentrici. Un’altra possibile spiegazione è che questa bellezza susciti passioni violente di desiderio e invidia negli altri, passioni che possono portare alla tragedia.
Sia nella storia che nella letteratura esistono vicende di persone belle finite tragicamente. Una delle più note è quella di Cleopatra. Un indovino, in quanto saggio conosce questi pericoli.
Nel 1898 due studiosi, P. Nacke e H. Ellis, applicano il logos di tale mito a quelle perversioni sessuale nelle quali l’oggetto preferito dal soggetto è il proprio corpo.
Nel 1914 S. Freud renderà celebre questo mito collegandolo ad una patologia specifica e ad una fase dello sviluppo infantile. Come sappiamo Freud introdusse questo concetto per dare conto a quella condizione relativa alla mancanza di transfert nei pazienti affetti da psicosi o narcisismo secondario[1].
Il fatto che noi viviamo in una cultura narcisistica (Lasch, 1979; Rinsley, 1986; Stone, 1998) non fa che complicare ulteriormente le cose.
Vissuti e caratteristiche “narcisistiche” sociali
I più recenti studi nel campo della psicologia sociale pongono l’accento su come dal contesto storico-culturale dell’epoca freudiana, ove la fame e la guerra favorivano la spinta all’appartenenza sacrificando il singolo per il bene comune, siamo passati adesso ad un contesto in cui, attenuatesi quelle spinte aggreganti, il rapporto tra l’individuo e la società è profondamente mutato, e valore decisivo è divenuto l’autorealizzazione. La personalità narcisistica ha così sostituito l’isteria, divenendo quindi la personalità di base del nuovo contesto sociale, nel quale si è ormai passati – così come nota Kohut – dal “Guilty Man” (“Uomo Colpevole”) del tempo di Freud al “Tragic Man” (“Uomo Tragico”).
Riguardo al contesto sociale contemporaneo, Cristopher Lasch parla di “cultura del narcisismo”. L’eccessiva importanza attribuita all’immagine è un indizio della tendenza narcisistica della nostra cultura.
L’attuale preoccupazione per il corpo riflette in parte questo atteggiamento narcisistico. In una società narcisistica - una società che mette in crescente risalto e incoraggia le caratteristiche narcisistiche - la svalutazione culturale del passato non riflette soltanto la miseria delle ideologie prevalenti, che hanno perso il controllo della realtà e abbandonato il tentativo di dominarla, ma anche la miseria della vita interiore del narcisista. Una società che ha fatto della "nostalgia" un prodotto commerciale del mercato culturale, rifiuta immediatamente l'idea che in passato la vita fosse, per certi aspetti rilevanti, migliore di quella d'oggi. Avendo banalizzato il passato identificandolo con modelli di consumo superati, con mode e atteggiamenti antiquati, la gente oggi guarda con insofferenza chi si richiama al passato per discutere seriamente sulla situazione attuale, o tenta di usarlo come metro di giudizio del presente.
Lo sfruttamento interpersonale, indicante uno dei criteri diagnostici del disturbo di personalità narcisistica, è fortemente adattivo nella nostra società. La struttura del nostro sistema economico, è fondato sulla ricompensa di chi è capace di convincere gli altri ad acquistare un prodotto (Maccoby, 1976; Person, 1986). L’“avere successo” è diventato sicuramente più importante rispetto a valori come l’impegno, la lealtà, l’integrità, l’onesta, la sincerità e il calore interpersonale. In questa situazione culturale diviene ancora più difficile determinare quali tratti diferenzino un disturbo della personalità da semplici adattamenti culturali.
Mantenendo un focus allargato sulla prospettiva sociale e comunitaria, il narcisismo implica una perdita di valori umani, di mancanza di interesse per l’ambiente, per la qualità della vita, per i propri simili. È chiara l’assurdità intrinseca ad una tale condizione, che produce una totale assenza di scrupoli soprattutto appunto nei confronti dell’ambiente, dello spazio vissuto, che si concretizza nell’inquinamento dell’acqua, dell’aria, della terra, nella cementificazione delle aree verdi, nella distruzione degli ambienti una volta incontaminati. Una società che sacrifica l’ambiente naturale al profitto e al potere rivela una profonda insensibilità per quelle che sono le più reali e autentiche esigenze umane.
L’ambiente intorno a noi, lo spazio delle nostre città, diviene allora intriso di morte, diviene tomba! Il senso di oppressione derivante dalla mancanza degli spazi aperti, non fa che alimentare la nostra ansia e la nostra rabbia.
Crescono così inevitabilmente i segni della sofferenza umana e dello smarrimento, legati alla trasformazione radicale dello spazio vissuto in un ambiente sempre meno accogliente e sempre più ambiguo, ostile, oscuro e malintenzionato; amplificando quel bisogno nostalgico di spazi rispettosi dell’umana presenza, che sappiano offrire cioè un maggiore e più adeguato contenimento alla nostra angoscia. Dicendo queste cose ci stiamo riferendo al modo in cui ciascuno di noi vive soggettivamente lo spazio che lo circonda e lo sommerge, spazio che contribuisce alla metamorfosi dei nostri stati d’animo e delle nostre emozioni.
Non c’è da meravigliarsi che un contesto culturale che coltiva ambizioni smisurate, che esalta l’esigenza di un impegno totale dell’individuo nella coppia, nella famiglia, nelle istituzioni sociali, che incoraggia passivamente l’abolizione di ogni senso del limite nelle estasi artificiali delle droghe, che espone il bambino, sempre più spesso figlio unico, all’inconscio dei genitori nel contesto di un focolare domestico sempre più ristretto per numero e sempre più instabile, non c’è da meravigliarsi che una tale cultura favorisca l’immaturità e susciti una proliferazione di disturbi psichici limite (o border-line). A questo si aggiunge anche l’impressione pessimistica che la mancanza di limiti e di confini stia traghettando il genere umano verso la catastrofe che da più parti ci viene presentata orami come inevitabile. Ci sembra dunque che un compito urgente, psicologico e sociale, riguardi la ricostruzione di limiti, il ristabilimento delle frontiere, il riconoscimento di territori abitabili e vivibili; frontiere e limiti che istituiscono lo scambio tra le regioni (della psiche, del sapere, della società, dell’umanità) così delimitate, nonostante l’era del “villaggio globale”. È necessario che ciascuno, nella propria sfera di competenza cominci a muoversi in questa direzione; e c’è chi ha già cominciato, sebbene a volte non si abbiano ben chiare in testa gli scopi e le mete comuni a cui tendere.
Dal focus ampio sulla prospettiva sociale, passiamo ora ad alcune annotazioni riguardo all’individuo narcisista, provando a comprenderne i vissuti relativi.
Vissuti e caratteristiche “narcisistiche” individuali
È nota la controversia Kohut-Kernberg, con difensori da una parte e dall’altra che sostengono che l’esperienza clinica conferma le prospettive teoriche da loro preferite.
Kernberg (1970, 1974, 1998) considera i pazienti narcisisti (ambulatoriali e ricoverati) come soggetti difficili da trattare, poiché gran parte dei loro sforzi mirano a far fallire gli sforzi del terapeuta. Il paziente narcisista di Kernberg è sostanzialmente più primitivo nella sua invidia e avidità e con un’aggressività primaria (ad eziologia costituzionale e/o ambientale, ma che in ogni caso origina dall’interno e non reattivamente per le altrui insufficienze), arrogante e grandioso (simile nel suo funzionamento alla personalità border-line). I tratti costanti qui osservati e sottolineati sono il sabotaggio, la svalutazione e il controllo onnipotente: difese queste messe in atto nel contesto della terapia, per mantenere il terapeuta a distanza. Difese primitive che, insieme alla sindrome della diffusione d’identità e al generale mantenimento dell’esame di realtà formano i tre criteri alla base della diagnosi per il disturbo di personalità narcisistica secondo il modello strutturale di Kernberg.
I pazienti narcisistici (ambulatoriali) descritti da Kohut (1971, 1977, 1984) hanno un funzionamento relativamente buono, (differenti e quindi separati dalla personalità border-line), con un Sé arcaico bloccato nel suo sviluppo, che necessita quindi di specifiche risposte ambientali per mantenere un Sé coeso. Kohut spiega questo stato di cose come il risultato di fallimenti empatici dei genitori. In particolare i genitori non hanno risposto all’esibizionismo del bambino, normali rispetto alla sua fase di sviluppo, con validazione e ammirazione, e senza offrirgli modelli degni di idealizzazione. Kohut concettualizza il Sé narcisistico come un “normale “ Sé arcaico congelato nel suo sviluppo: “come un bambino in un corpo di adulto”. L’aggressività è nella teoria di Kohut un fenomeno più secondario, come reazioni alle mancanze altrui e come prodotto della disintegrazione del Sé. Posizione quella di Kohut aspramente criticata come semplicisticamente “colpevolizzante verso i genitori”.
Kernberg invece vedeva il Sé di questi pazienti come una struttura altamente patologica e senza somiglianza con lo sviluppo normale del Sé del bambino. Kernberg ha sottolineato che l’esibizionismo del bambino è affascinante e tenera, e non ha nulla a che fare con le pretese del Sé patologico della persona narcisista.
Inoltre, Gabbard (2000) descrive due estremi di un continuum dove posiziona un “narcisista inconsapevole” e un “narcisista ipervigile”. Il primo non si rende conto dell’impatto che ha sugli altri: è arrogante, invadente, autocentrato, aggressivo, vuole sempre stare al centro dell’attenzione, manca di empatia e sembra impermeabile alle critiche altrui. Corrisponde al quadro descritto nel DSM- IV-TR. Il secondo è invece fortemente inibito, schivo, sensibile alle critiche e alle reazioni altrui, evita di essere al centro dell’attenzione, ascolta gli altri con precisione, come fa il paranoide, per scorgere se gli viene rivolta una critica. Si sente ferito con facilità, provando sentimenti di vergogna e umiliazione. Nonostante questa forma sia ignorata del DSM IV-TR, esiste tuttavia un supporto empirico per la distinzione inconsapevole-ipervigile (Wink, 1991; Hibbard, 1992, Dikinson & Pincus, 2003).
Sebbene questi due tipologie possano presentarsi in forma pura, molti pazienti mostrano una miscela di caratteristiche fenomenologiche di entrambi i tipi. Alla luce delle descrizioni delle divergenze tra Kohut e Kernberg, sembra che questi si riferisca a pazienti più assimilabili al tipo inconsapevole, mentre quegli tratta pazienti più simile al tipo ipervigile.
Vediamo altri attributi tipici dell’individuo “speciale”? Facciamone un semplice elenco: 1) “Posso fare tutto” (onnipotenza), 2) “Sono visibile dovunque” (onnipresenza), 3) “So tutto” (onniscienza) e 4) “Devo essere adorato”. Questi, naturalmente sono gli attributi di un dio. A livello individuale-psicologico, la fondamentale preoccupazione per l’individuo narcisista, risiede nella propria immagine a discapito dei sentimenti, del bisogno primario di essere amati e di amare, dell’integrità e della dignità, perseguendo come massima aspirazione il potere, il successo, l’accumulo di ricchezza, il controllo e la manipolazione degli altri.
Non solo. Il sadismo, l’adozione di una politica di attacco preventivo, il bisogno di vendetta insieme al desiderio di trasformare un’esperienza passiva in attiva sono altri utili elementi per la comprensione della caratteristica rabbia narcisistica. Nelle sue forme più tipiche essa comporta un rifiuto totale delle limitazioni ragionevoli e un desiderio illimitato di riparare il torto subito e ottenere vendetta.
Sadismo e desiderio di vendetta che saranno tanto più forti e intensi quanto più marcata ed evidente sarà l’assenza di un dialogo interiore. Il dialogo interiore (o voce interiore) – come ha mostrato lo psicologo sovietico A. R. Lurija (1973) – svolge un ruolo fondamentale e cruciale nello sviluppo e nel funzionamento della coscienza morale e quindi nella regolazione del comportamento. Si tratta di pensieri, immagini e dialoghi interiori emotivamente carichi che rappresentano i “morsi” della coscienza.
Essi sono responsabili del potente controllo della coscienza sul comportamento, e generano i rimorsi e i sensi di colpa per le trasgressioni. I soggetti narcisistici non sono in grado di capire tutto questo. Per molti di loro la coscienza morale è poco più di una consapevolezza intellettuale delle regole che altri individui hanno posto: parole vuote.
I sentimenti necessari per dare un valore a queste regole sono perlopiù assenti. Le idee di reciprocità e di comprensione non vengono concepite in senso emotivo.
Insomma, è come se il soggetto narcisista “conosca le parole ma non la musica”; avendo una scarsa attitudine a sperimentare le reazioni emotive di paura e di ansia che sono caratteristiche della coscienza morale. (Ritorna – ma è questa solo una suggestione personale di chi scrive – il tema di Eco, seppure in senso lato, come espressione dell’essere interiore. La voce di Eco oltre a rappresentare la voce dell’altro, voce inascoltata dal soggetto narcisista, potrebbe anche rappresentare la propria voce interiore, derivante dalle interiorizzazioni nei rapporti educativi con gli altri significativi).
La persona narcisista non ha interesse per il futuro, in parte perché il passato lo interessa pochissimo. Incontra grosse difficoltà a interiorizzare le esperienze felici o a crearsi un patrimonio di ricordi cari a cui attingere negli ultimi anni della sua vita, che anche nelle migliori condizioni portano tristezza e dolore. Diventa a questo punto particolarmente illuminante guardare al narcisismo come sofferenza o come “ferita” relazionale. Questa ferita narcisistica fa la differenza tra chi nonostante la vulnerabilità ai torti al rifiuto e all’umiliazione non nega i propri sentimenti e chi invece li nega proiettando un’immagine di sé di invulnerabilità e di superiorità, in una lotta centrata essenzialmente per il potere e per il controllo. Da bambino l’individuo narcisista han subìto un grave colpo alla stima di sé, che lascia il segno e modella la sua personalità. Questa ferita implica un’umiliazione in particolare implica l’esperienza di essere impotenti mentre un’altra persona prova piacere nell’esercitare su di lui il suo potere. Quando il bambino è costantemente esposto ad umiliazioni, la paura di essere umiliato finisce per essere strutturata nel corpo e nella mente.
Ad Alice Miller, ex psicoanalista svizzera, dobbiamo una delle recenti, appassionanti riletture della storia familiare nella quale si pongono le premesse della modalità relazionale narcisistica. Una madre “piccola” (tra l’altro, non sostenuta nel qui-e-adesso dal proprio partner), in alcuni momenti del rapporto con il figlio, si fa guidare dai propri bisogni “irrisolti” piuttosto che da quelli del bambino. Questi, se vuole conservare il sorriso della madre e quegli occhi che lo guardano con la luce dell’amore e dell’ammirazione, dovrà rispondere ad sogno della madre, comportarsi come lei desidera e negare progressivamente i propri bisogni di bambino in crescita.
Il piccolo Jaromil di La vita è altrove (M. Kundera) non può parlare spontaneamente dal momento in cui si rende conto che ogni sua frase, anche la più banale viene valutata dalla madre (che lo vuole poeta) in termini di “poesia” (sorriso materno) e “non-poesia” (volto materno depresso).
Ma in evidente contrasto con i genitori privi di empatia, alcuni genitori di pazienti narcisisti tendono ad essere palesemente indulgenti, e sembrano incoraggiare la grandiosità attraverso un modello di eccessivo rispecchiamento. Ricoprono i loro figli di ammirazione e approvazione, facendoli sentire realmente speciali e particolarmente dotati: è così che nasce un principe azzurro. Spesso una situazione di questo tipo si sviluppa quando il rapporto tra genitori è insoddisfacente, e la madre si rivolge al figlio per avere soddisfazione. Allora l’intimità proposta dal genitore può acquistare una sfumatura sessuale. Quando però i figli crescono, sono ripetutamente sconvolti dal fatto che gli altri non sempre reagiscono come i loro genitori.
Per comprendere la persona con vissuti narcisistici è importante tener presente un paradosso: nella genesi relazionale di quella che sarà poi la persona “centrata sulla propria immagine” c’è stata una scelta di grande altruismo e generosità (il sacrificio di parti di sé alle attese della madre). Da questa storia di amore sacrificato rimarrà nel cuore del bambino, anche quando è cresciuto, un’ossessiva ricerca di quello sguardo, o meglio della propria immagine impressa in quegli occhi stupiti. Solo quando si vedrà riflesso negli altri, sia nel campo del lavoro che dell’affetto, si sentirà confermato, placato e rassicurato.
Per questo sarà portato a confondere ammirazione con amore, rifiuto e critica con svalutazione e disconferma. Ricercherà applausi e consensi con la sensazione di essere “speciale” (così l’ha fatto sentire la madre anteponendolo al partner), d’essere onnipresente (esiste solo lo spazio occupato da lui e dai suoi: le altre realtà, gli altri spazi non meritano alcun interesse) d’essere onnisciente (sa tutto quello che è veramente utile sapere; il resto ha poco valore). Sarà naturale per lui percepire come suo diritto ovvio occupare il centro ed essere oggetto continuo d’ammirazione: per ottenere questo nutrimento diventerà, anche in modi inconsapevoli e sottili, un seduttore. Un discorso a parte meriterebbe la figura paterna del bambino che ha una relazione narcisistica con la madre. Ci limitiamo ad un’annotazione di fondo: una figura paterna positiva, riuscita a livello sociale, abitualmente, dà sostegno e consistenza ai desideri e alle capacità di successo del “narcisista” mentre una figura di padre rassegnato o fallito lo renderà insicuro, incerto, per cui tenderà a vivere la propria “grandiosità” in modo nascosto o fallimentare.
A causa di queste ferite relazionali arcaiche, le persone con vissuti narcisistici avranno difficoltà notevoli ad essere in contatto pieno con glia altri, da loro percepiti come specchio per rimandare e confermare la propria immagine. Anche nei rapporti affettivi, dopo la fase dello stupore e della seduzione, la persona narcisista sentirà il peso del quotidiano (percepito come banale) e la paura di dover ancora una volta sacrificare sé stesso. Si sentirà così soffocato da ogni richiesta. Neppure nella relazione affettiva avrà fiducia nell’ambiente, lo percepirà come piccolo e incapace di contenerlo, perciò quando avverte il dissenso o non lo esprime (sottraendosi alla relazione: va “sott’acqua”) o lo esprime con disprezzo e rifiuto dell’altro. Spesso vive il contrasto drammatico tra grandi successi a livello professionale e grandi ferite nei rapporti affettivi.
Accompagnamenti terapeutici
Negli anni cinquanta la psicoanalisi registra fallimenti significativi nella cura dei pazienti narcisisti i quali, centrati su di sé, rifiutavano l’interpretazione-chiave della cura perché vissuta come squalificante e perché rimando a schemi di relazione infantili e immaturi[3].
Gli psicoterapeuti che affrontano il difficile compito di curare un paziente narcisista, dovrebbero evitare un approccio “aut-aut” rispetto alle teorie di Kernberg e di Kohut. Invece di arrovellarsi - afferma Gabbard - per decidere quale delle due sia “corretta”, i terapeuti dovrebbero concentrarsi ad ascoltare attentamente i loro pazienti, osservando le evoluzioni del transfert e del controtransfert, e rilevando in particolare le risposte dei pazienti agli interventi di prova. In questo modo arriveranno presto a decidere quale modello sia più utile per quel determinato paziente. Infatti, alcuni pazienti tollerano solo un approccio empatico vicino alla loro esperienza, secondo il modello di Kohut.; ed ogni deviazione darà origine a “chiusure” prolungate a causa di vissuti di non esser compreso. Altri pazienti possono sentirsi compresi grazie ad interpretazioni sull’invidia e il disprezzo secondo la tecnica di Kernberg. Mitchell (1988) ha rilevato che è erroneo considerare l’approccio di Kohut più empatico rispetto a quello di Kernberg: entrambi rispondono empaticamente ad aspetti diversi del paziente.
Non è mai facile per una persona con vissuti narcisistici mettersi in discussione su temi di cui, tra l’altro, egli non è molto consapevole; sono gli altri da lui che avvertono dei disagi: si sentono continuamente costretti a scegliere o con lui o contro di lui, si sentono “non-visti” o “sacrificati” anche in modo disinvolto, al suo bisogno di essere l’unico. Tuttavia, per le motivazioni sopra esposte, al professionista interpellato spetta il “dovere” di fare un tentativo rivolto alla sua crescita e al suo cambiamento. Il successo che spesso accompagna i “narcisisti”, in particolare quelli con molte capacità e con grande sicurezza affettiva, diventa alla fine l’ostacolo numero uno alla loro crescita umana perché li mantiene nella droga di un “sogno materno di gloria”, che potranno aver dimenticato ma che li dirige. Soltanto a seguito di fallimenti significativi, a livello professionale o affettivo, il soggetto narcisista si convincerà a chiedere aiuto. Sarà per lui una grande occasione per iniziare un cammino di maturazione e di rinascita, un cammino travagliato (come un lungo parto) nel quale lentamente uscirà dalla nuvola delle apparenze per scoprire, da una parte, il “vero sé”, e dall’altra, il territorio inesplorato dei genuini rapporti umani, nei quali è possibile sperimentare accettazione incondizionata e calore contrattato.
Imparerà ad esprimere quelle emozioni centrali e fondanti la sua esistenza come la rabbia e il dolore per non essersi sentito amato in modo incondizionato e per aver sacrificato troppo presto una parte di sé. Conoscerà lentamente una tristezza nuova accompagnata da un profondo senso d’integrità, di pace con se stesso: una tristezza molto diversa da quella depressiva che sperimentava alla chiusura dei sipari e al termine degli applausi.
Ritroverà – dice Lowen – la pienezza del corpo “vissuto” dopo essersi fissato per molto tempo sul corpo “immagine”. Sentirà la forza e la fecondità d’esperienze che ha sempre cercato di evitare: la fragilità, la tristezza, la ferialità, il non essere (né lui, né il suo gruppo, né la sua opera) migliori degli altri ma “come” gli altri, l’imbarazzo di entrare in contatto con parti infantili di sé, l’umile mettersi in discussione, il gusto del nascondimento, del ritirarsi, l’accogliere il rifiuto senza deprimersi e il consenso senza esaltarsi, il condividere le proprie difficoltà con gli altri, il fidarsi dell’ambiente. Conoscerà la tristezza e la paura negate ed imparerà ad esprimerle, nonostante la possibilità di essere perciò vulnerabile. L’espressione della tristezza lo condurrà alla consapevolezza della perdita che rievoca il desiderio e il bisogno di qualcuno, esponendosi alla possibilità del rifiuto e dell’umiliazione. I suoi occhi si apriranno e scoprirà la bellezza di coloro che, prima percepiva “brutti”: gli umili, i deboli, gli incapaci, i falliti, dei quali adesso noterà accanto ai loro difetti anche alcune caratteristiche positive. Il sarcasmo pungente muterà in umorismo benevolo, così come l’isolamento in socievolezza.
Solo così potrà abbandonare il sogno-a-due (o “per pochi”) del quale era prigioniero per costruire assieme agli altri il sogno della compagnia degli uomini accogliendo e condividendo limiti e grandezze dell’esistenza nella gratitudine e nel confronto, nella tenerezza e nell’umiltà.
Tuttavia, parimenti a quanto accade per il trattamento analitico in altri settori della personalità – afferma Kohut – anche qui non si devono porre richieste eccessive al pazienti e/o al terapeuta. Al contrario, il paziente dovrebbe affrontare apertamente il fatto – quando questo accade – che esista in lui una propensione residua a essere temporaneamente sotto il dominio della rabbia narcisistica, quando le attese narcisistiche arcaiche sono frustrate, e che deve stare all’erta di fronte alla possibilità di poter essere travolto dalla collera. Una tale consapevolezza, affrontata con semplicità, dell’esistenza di una psicopatologia residua sosterrà il paziente quando dopo la fine dell’analisi dovrà prendersi cura della propria casa psicologica senza l’aiuto dell’analista.
Interessante sarebbe una riflessione specifica sulla leadership della persona narcisista (tema questo – senza entrare nel merito – di grande attualità relativamente al contesto politico italiano): si tratta di uno stile attento solo a quelli che sono definiti i migliori, tendente a creare dicotomie tra “validi” e “non-validi” ed euforico per l’illusione di guidare un gruppo “speciale”, il migliore. Ad esempio: se sono pochi si dirà che non è il numero che conta, se sono molti, si dirà che questa è conferma del proprio valore.
Il cambiamento interiore e relazionale porterà il leader a vedere e includere nel gruppo anche coloro che prima aveva disprezzato o ignorato e a scoprire le loro potenzialità per la crescita del gruppo. Forse una vera comunione in un gruppo è favorita solo da un leader con il cuore ferito e guarito. A questo punto può essere utile condividere alcune riflessioni sul compito impegnativo di chi accompagna una persona nel cammino di purificazione e trasformazione dei vissuti narcisistici.
Un rischio iniziale per l’accompagnatore è quello di sentirsi speciale perché accompagna una persona “speciale”: in questo contagio “narcisistico” si confonde l’”essere unici” con “l’essere speciali”. Andando avanti nell’accompagnamento accade che il formando “retro-fletta/rivolga verso sé”: non esprime apertamente critiche e dissensi per paura che il formatore sia così “piccolo” da restarci male o da vendicarsi. I “non-detti” sono la mina vagante di tale relazione e spesso provocano interruzioni brusche e apparentemente immotivata dell’accompagnamento.
Il formatore deve invitare l’altro a manifestare le proprie obiezioni. Ovviamente, di fronte a critiche, anche spietate, il formatore invece di pensare a sé (“sentirsi offeso”) deve cogliere il significato, la parte di verità presente nella critica e valorizzare il fatto che il formando esprime, forse in modo maldestro, un’iniziale esperienza di apertura e fiducia nel formatore. Spesso, infatti, dopo tali critiche, rozze o pungenti, si registra un miglioramento nella relazione d’accompagnamento in termini di fiducia, chiarezza, docilità. Altro momento delicato è quello in cui il formatore deve “confrontare” il formando: è necessario evitare al massimo che egli si senta umiliato.
Percepirsi umiliato è una delle esperienze più distruttive per chi ha vissuti e modalità relazionali narcisistiche. Un accompagnatore accogliente, empatico, che vede e rispetta, con pazienza e fiducia, il dolore, la generosità, gli sforzi del formando facilita e permette il rifiorire della bellezza e del calore genuini, che abitano al di là delle apparenze.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
- ANZIEU D., L’io pelle, Bordas, Parigi 1985.
- GABBARD G.O., Pichiatria psicodinamica, Raffaello Cortina, Milano, 2007.
- KOHUT H., La ricerca del Sé, Bollati Boringheri, Torino1982.
- LASCH C., La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano 1981.
- LOWEN A., Il narcisismo. L’identità negata, Feltrinelli, Milano 1985.
- RACAMIER P.-C., Il genio delle origini, Raffaello Cortina, Milano, 1993.
- SALONIA G., Dialogare nel tempo della frammentazione, materiale didattico edito dall’Istituto HCC-human comunication center (per uso in interno), Siracusa 2005.
- SALONIA G., Il narcisismo come ferita relazionale, materiale didattico edito dall’Istituto Nino Trapani-Clinica e Formazione (per uso interno), Siracusa 2010.
[1] Questa posizione è stata smentita dai successivi sviluppi della psicoanalisi, grazie soprattutto all’impiego dei concetti di M. Klein nei lavori di W. Bion 1957, 1967; e di H. A. Rosenfeld 1965.
In estrema sintesi: il neonato è nella prospettiva freudiana, dal punto di vista pulsionale, “tutto chiuso in se stesso”.
Questa prospettiva è stata però ormai ampiamente superata grazie ai più recenti studi condotti nel contesto dell’infant research da D. Stern (1977, 1985, 1989, 1991, 1995, 1998); ma anche dagli esperimenti di imitazione intenzionale precoce nei neonati di 2-21 giorni (Maratos, 1982; Meltzoff, & Moore, 1977); e in relazione alla permanenza dell'oggetto nei neonati di 20 giorni (Bower, 1982).
Le ricerche di imitazione intenzionale hanno mostrato le capacità imitative di protusione della lingua e apertura della bocca in neonati di pochissimi giorni. Queste precoci capacità imitative sono state spiegate attraverso la teoria sopramodale della percezione: il neonato sovrappone percezione visive e propriocettive attraverso un’unica mappatura intermodale degli stimoli.
Bower (1982) ha invece mostrato che i neonati di venti giorni hanno già il concetto della permanenza dell’oggetto. In una serie di esperimenti un oggetto veniva lentamente nascosto dalla vista del bambino attraverso uno schermo. Dopo un breve intervallo durante il quale l’oggetto non era visibile, lo schermo veniva lentamente rimosso, ma l’oggetto era stato tolto; i bambini mostravano quindi una reazione di sorpresa.
[3] Da tale impasse e dall’inadeguatezza del modello strutturale classico sorgono nuovi modelli terapeutici per il trattamento del disturbo narcisistico, tra i quali la Psicologia del Sé ad opera di H. Kohut, certo, ma anche la Terapia Centrata sul Cliente (C. Rogers) e la Terapia della Gestalt (F. e L. Perls, Goodmann I. Fromm), nei quali viene dato un “potere” diverso al paziente. Tali nuovi approcci si diffondono ampiamente perché rispondono ai contesti socio-culturali differenti rispetto ai quelli in cui operava S. Freud.