Questo lavoro ha dato luogo a una revisione critica
da parte dell’autore, contenuta in “Postilla
a ‘Narcisismo sano?’ e ad ‘Amae nella clinica’”, Pratica Psicoterapeutica n. 11 - 2/2014.
Poiché il tema del narcisismo ha sollecitato alcuni contributi in questa rivista, mi sembra doveroso, oltre che utile, offrire qualche spunto di riflessione su un’affermazione che ho proposto in un mio lavoro precedentemente comparso su questa rivista (“Scuola, lettino e contratto narcisistico: io la penso così”, Pratica Psicoterapeutica n.3 - 2/2010). Riporto il passo in questione:
È vero che
ormai da parecchio tempo è in auge in ambito psicoanalitico il concetto di “narcisismo
sano”, ma devo dire che personalmente quest’idea non mi ha mai convinto. Se
risaliamo al mito di Narciso, sfido chiunque a trovare qualcosa di sano
nell’innamorarsi della propria immagine fino a morirne. Non amo molto usare il
termine “patologia”, ma se c’è qualcosa a cui sento di attribuire questa
caratteristica è proprio il narcisismo (e dunque dissento da Kernberg, che ha
intitolato un suo libro “Sindromi marginali e narcisismo patologico”,
sottintendendo che se c’è un narcisismo patologico deve esserci anche un
narcisismo sano; io ritengo che il narcisismo sia patologico in quanto tale, e
dunque è sufficiente dire narcisismo, senza aggettivi). Non è solo una
questione terminologica: considerare “sana” una certa modalità, o addirittura
una certa dose, di narcisismo, significa partire dal presupposto (molto
berlusconiano) che il movente dell’agire di ciascuno sia l’interesse
individuale del singolo, e che ogni manifestazione di socialità sia una
forzatura che richiede comunque una motivazione relativa per l’appunto
all’interesse del singolo per essere posta in essere.
Alcuni, anche all’interno della
redazione, mi hanno fatto notare che la mia posizione è troppo radicale, e
sembra voler cancellare tutte le complesse disamine fatte sul concetto di narcisismo,
con una sorta di appiattimento di tutto l’arricchimento che attraverso tali
riflessioni si è avuto nell’ambito del pensiero psicoanalitico.
Credo che il mio discorso risulti più
chiaro se esplicito fino in fondo il mio punto di partenza.
Alcune discipline, e la psicoanalisi in
modo particolare, fanno uso del mito per offrire, come base delle proprie
concettualizzazioni, un riferimento radicato nella storia dell’umanità. Se
parliamo di Edipo, andiamo a prendere la sua storia, ne evidenziamo le caratteristiche
e poi troviamo un aggancio alla storia individuale di ciascuno che permette di
parlare di “complesso di Edipo”, di triangolo edipico, di leggere un momento
storico interrogandosi sull’eventuale “tramonto” dell’Edipo, e così via. Questo
perché abbiamo individuato alcune caratteristiche di questo mito e le
consideriamo l’asse portante di alcuni eventi che riguardano la vita di
ciascuno in relazione alla sua storia familiare e al suo contesto
socioculturale. Se vogliamo confrontarci sull’Edipo io credo che dobbiamo tener
conto della complessità degli elementi che lo compongono, senza tralasciarne
alcuno, almeno di quelli che concordemente possiamo considerare significativi e
che configurano la struttura portante del mito stesso. Prendere solo un aspetto
del mito e svilupparci sopra un discorso che porta lontano risulta a mio avviso
confusivo, perché porta a dimenticare il senso profondo della complessità del
mito stesso, e introduce una concettualizzazione che, allontanandosi dalla
radice, si disperde in rivoli dall’interno dei quali risulta poi difficile, e a
volte impossibile, intendersi.
Spesso si sono creati fraintendimenti di
questo genere intorno ad alcune concettualizzazioni e, se la radice è
linguistica o relativa alla formalizzazione dei concetti, il fraintendimento
può procedere in forma esponenziale creando discorsi su termini coincidenti che
si sviluppano in modo divergente in contesti diversi. Cito brevemente il
concetto di “Sé” come si è sviluppato nel pensiero di Jung e in quello di Winnicott,
e credo che sia difficile per chiunque provare a parlare di “vero sé” e “falso
sé” facendo uso del sé junghiano, senza cadere in contraddizioni insormontabili
dovute all’impossibilità di trovare una visione univoca del termine partendo da
questi due orizzonti così lontani. Oppure il concetto di “simbolo”, il cui
etimo è dalla maggioranza riferito al verbo greco “sun-bàllein” (=gettare
insieme), ma dagli junghiani è invece riferito all’espressione araba
“sinn-bild” (=forma dell’immagine), con evidenti fraintendimenti rispetto ad
esempio alla possibilità di una simbologia convenzionalmente concordata
all’interno di un gruppo messa a confronto con una simbologia che può invece
essere tale solo se universale.
Attraverso quest’ultimo esempio voglio
sottolineare che il mito, in quanto universale, o almeno condiviso all’interno
di una comunità molto vasta, dovrebbe avere almeno una base comune sulla quale
non ci possano essere fraintendimenti, e quindi permettere di evitare quello
che è accaduto rispetto ad esempio al concetto di simbolo.
Invece, benché il mito di Narciso abbia
due caratteristiche imprescindibili, e cioè l’innamorarsi della propria
immagine e il
morire a causa di questo,
gli sviluppi successivi del pensiero psicoanalitico hanno portato molti a poter
parlare di “narcisismo sano”, come se Narciso avesse potuto innamorarsi di sé e
fare di questo uno strumento sano per lo sviluppo della sua personalità.
La mia proposta è quella di un ritorno
alle origini, senza voler nulla togliere agli interessantissimi discorsi che,
anche all’interno della nostra rivista, si sono sviluppati intorno al
narcisismo, perché quando un discorso ben articolato prende le mosse da certi
presupposti e viene sviluppato costruttivamente può risultare fecondo per chi
si colloca nella sfera di questi stessi presupposti. Dal canto mio, ritengo
però preferibile, almeno per quanto mi riguarda, non fare uso di una
terminologia che, fondata su un mito che si esprime attraverso certe
caratteristiche, imbocca poi strade che si discostano da quello che ritengo
essere il senso profondo del mito stesso.
Per ciò che concerne Narciso, dunque,
ribadisco che l’innamoramento della propria immagine e il morire a causa di
questo sono due elementi che caratterizzano in modo equipollente il mito, e che
questo ha senso solo tenendo conto di entrambi. Questo discorso fonda il mio
approccio radicalmente relazionale e interpersonale, nel quale rivolgere
l’attenzione alla propria immagine distoglie dal percepire il mondo circostante
e le ricchezze che lo contraddistinguono, attivando meccanismi difensivi che,
nel tentativo di preservarci dal contatto con gli altri, ci danno un’illusione
di rapporto con noi stessi che innesca un processo di autodistruzione, che può
fermarsi solo rivolgendo lo sguardo e la progettualità alla complessità del
mondo che ci circonda. Dal mio punto di vista, dunque, il narcisismo è solo
patologico, e ritengo che il mito sia stato così concepito come stimolo a
confrontarsi con la paura dell’incontro con l’altro.
Dopo aver letto, su questo stesso numero
della rivista, il saggio di Marcantonio Di Palma “Narcisismo come ferita
relazionale”, aggiungo una breve considerazione.
Questo saggio è un esempio di come si
possa argomentare in modo ricco e costruttivo e al tempo stesso perdere di
vista, almeno per come la penso io, l’essenza del mito. Mi riferisco in modo
particolare a ciò che viene detto come premessa:
In questo ambito di
esasperato individualismo (di narcisismo, appunto) nel quale ognuno si crede
portatore di verità incontestabili, si avverte lo smarrimento per la
relativizzazione di ogni norma: la perdita di punti di vista oggettivi.
Oggi il termine
“narcisismo”, quando non è salvato dall’aggettivo ”sano”, viene identificato
con egoismo o egocentrismo, e viene percepito come l’ostacolo primario alla
convivenza. In effetti, il termine “narcisista” raramente è usato come un
complimento nei confronti di qualcuno con una sana stima di sé.
Ma forse la situazione è
un po’ più complessa.
In realtà, il termine
“narcisista” indica una condizione sia individuale-psicologica, che culturale.
e anche, poco più avanti, al discorso relativo al rapporto tra Narciso e la ninfa Eco:
È interessante notare che Narciso si innamori della sua immagine solo dopo aver respinto Eco. Quindi sembra che l’innamoramento della propria immagine sia interpretato nel mito come conseguenza o punizione per l’incapacità di amare. Seguendo l’interpretazione del mito che ne dà Lowen (1985), Eco potrebbe essere la nostra stessa voce che ritorna a noi. Così, se Narciso avesse potuto dire “ti amo”, Eco avrebbe ripetuto queste parole e il giovane si sarebbe sentito amato. L’incapacità di dire queste parole identifica il soggetto narcisista. Un’altra interpretazione interessante viene avanzata da Lowen: respingendo Eco, Narciso respinge la propria voce. Ma la voce è espressione dell’essere interiore, del sé corporeo contrapposto all’apparenza superficiale. Nel termine “persona” è implicita l’idea che sia possibile conoscere un individuo dal suono della voce. Secondo quindi questa interpretazione Narciso negò il suo essere interiore in favore dell’apparenza: manovra questa tipica dei soggetti narcisistici [corsivo mio].
In un argomentare che interpreta il mito
sviscerandolo e prendendo spunto dai mille rivoli in cui può diramarsi il
discorso, si può arrivare a considerare come un’ipotesi plausibile ("Quindi
sembra che l’innamoramento della propria immagine sia interpretato nel mito
come conseguenza o punizione per l’incapacità di amare") ciò che cogliendo
l’essenza del mito si evidenzia con immediatezza e senza bisogno di azzardare
ipotesi (Narciso muore perché s’innamora della propria immagine, dunque è
chiaro che è incapace di amare e che questo lo porta all’autodistruzione); e
poi, innestando ipotesi su ipotesi e correndo per la via, si può arrivare a
dire che Narciso si comporta come un narcisista, affermazione che appare
tautologica, per non dire scontata. Con questo non voglio dire che lo scritto
di Di Palma non sia ricco di spunti di riflessione, e che non ci siano molti
punti che ritengo non solo interessanti ma condivisibili. Solo non mi sento di
condividere l’uso che Di Palma fa del mito, preferendo pensare che esista
qualche universale di cui il mito è un punto di convergenza, e che coglierne
l’essenza possa aiutare a risalire alle radici dell’umano, pur con tutti i
processi di relativizzazione che da questo lavoro di ricerca possono scaturire.
A seguito di un confronto con alcuni membri della redazione,
aggiungo al mio discorso ulteriori argomentazioni a scopo chiarificante, prendendo spunto da un altro termine, che ha seguìto
a mio avviso una sorte analoga a quella di “Narcisismo”.
Il termine è “Onanismo”, che tutti nel parlare comune
intendono come definitorio della pratica della masturbazione. Il termine deriva
da un personaggio della Bibbia, Onan, che peraltro non praticava la
masturbazione, ma il “coitus interruptus”. Dunque una pratica è stata
sovrapposta all’altra, cancellando un elemento fondamentale, la presenza di una
persona con cui si è in un rapporto di accoppiamento, seppure interrompendolo
al momento culminante. Come ha potuto accadere questo fatto? Per la mentalità
cattolica, l’elemento essenziale dell’accoppiamento è l’evitare la dispersione
del seme. Come Fabrizio De André ci dice in Il testamento di Tito
Non commettere atti che non siano puri
cioè non disperdere il seme.
Feconda una donna ogni volta che l’ami,
così sarai uomo di fede.
Dunque, per il buon cattolico, chi si masturba e chi pratica
il coitus interruptus fanno sostanzialmente la stessa cosa, commettono lo
stesso peccato di dispersione del seme, e sono accomunabili in una stessa
categoria. La presenza o meno di una persona reale come oggetto d’amore è un
accessorio irrilevante, perché manca l’elemento essenziale: la fecondazione.
Se mi occupassi seriamente di teologia e di sociologia delle
religioni, cercherei di sollevare un problema, segnalando che, anche se non di
molto, oggi la mentalità cattolica è cambiata, e che forse anche per un
sacerdote la masturbazione e il coitus interruptus non sono proprio la stessa
cosa, e dunque il termine “Onanismo” non è più adatto a definire la
masturbazione.
Visto che faccio lo psicoanalista, segnalo che nella
psicoanalisi è successo un fatto del tutto analogo con il termine “Narcisismo”.
Quando è stato coniato, e quando sono stati fatti i primi studi di
approfondimento, evidentemente si dava per scontata la pulsione di morte come elemento essenziale
della visione psicoanalitica, e dunque il fatto che Narciso arrivasse a morire
a causa dell’amore per la propria immagine è stato considerato un fatto non
particolarmente degno di nota, e si è pensato che il concetto andasse
approfondito solo per la sua caratteristica di rapporto del soggetto con la
propria immagine, arrivando a pensare a un rapporto buono o cattivo, sano o
patologico, primitivo o maturo.
Visto che, pur continuando a considerarmi uno psicoanalista,
mi muovo in una prospettiva totalmente fondata su una base esperienziale e
relazionale, e dunque la pulsione di morte è al di fuori delle mie categorie
(non sono comunque l’unico, pensiamo ad esempio a Fromm e a Sullivan), trovo
improprio l’uso del termine Narcisismo per definire una caratteristica della
persona che può avere degli aspetti maturi o sani, perché il concetto ha in sé
la componente autodistruttiva, che lo colloca in una dimensione che, se non si tiene in considerazione
la pulsione di morte, non può essere né sana né matura.
Non ritengo che questo discorso sia relativo soltanto a una
questione terminologica ma, per evitare di appesantire troppo questo scritto,
per ora mi fermo qui, intendendo sviluppare l’argomento, in un altro
momento, in uno scritto di più ampio respiro.