Voglio iniziare questo commento al bel libro curato da Roberto Carnevali e Nadia Tagliaferri con un riferimento personale. Nonostante, e forse proprio, perché ho smesso di lavorare come “Psi” nell’istituzione da ormai 15 anni, la lettura di questo libro è stata per me emozionante. Scritto da operatori, sotto l’egida di Sassolas, mi ha ripetutamente acceso sequenze di immagini, ricordi, stati d’animo ed emozioni, riportandomi là ed allora, in quel periodo lungo 15 anni, faticoso e durissimo da molti punti di vista, ma straordinario sul piano umano e professionale, di un pezzo della mia vita lavorativa. Tutto ciò probabilmente perché, in questo libro, la vita lavorativa dei colleghi, cosi difficilmente dissociabile dalla vita umana personale, sembra quasi evaporare dagli scritti facendosi respirare continuamente nelle proposizioni tecniche, teoriche e concettuali, condivisibili o meno che siano (per me condivisibili quasi nella totalità). Gli autori dimostrano, nelle debite differenze, (che sono meno di quanto i riferimenti ai dialetti personali “Psi”sembrerebbero suggerire), di “sapere” davvero cosa significhi “la psicosi”, per quanto sia possibile saperne. In questo senso la lettura ha ri-animato il mio interno personale personaggio “Psi” che, come ho appena detto, da tempo in me, almeno consciamente, non aveva trovato più spazio per sé e gli ha permesso di re-incontrare i ricordi di colleghi medici ed infermieri del tempo e sopratutto una schiera di pazienti. Fatta questa premessa ora proseguirò abbastanza didascalicamente con l’intento naturalmente di invogliare alla lettura del libro, cosa che faccio e consiglio volentieri, un libro utile, al tempo stesso pratico e intenso teoricamente a ben leggere. Per prima cosa devo dire che ho apprezzato molto l’assunto di base del libro ed ovvero l’offerta di un luogo di integrazione e non di divisione e cioe la capacità di considerare il diverso, dal paziente al collega, come potenziale di arricchimento e di fecondità, non cedendo all’accattivante idea di avere la proprietà della verità assoluta, derivato questo di una dialettica filosofica ed epistemologica che ha fondato la psichiatria (e quella particolare dottrina psicoanalitica) negli stessi termini delle religioni. Come dicevo prima sono passati molti anni dai momenti in cui ho “cambiato lavoro” e gli unici contatti con la psichiatria che ho avuto sono stati per via indiretta attraverso i pazienti transitati attraverso i servizi o i colleghi che ancora li vi lavorano e soprattutto attraverso la fotografia desolante dei servizi che, fatte tutte le tare dovute, emerge dalle descrizioni degli allievi specializzandi in psicoterapia durante il tirocinio.
Ebbene il libro curato da Carnevali mi ha rincuorato non poco nonchè quasi “medicato” un giudizio, certamente presuntuoso, ma significativamente negativo e critico rispetto alla psichiatria (e alle sue agenzie), che mi sembra essere diventata sempre piu “Psichiatrica e Aziendale”, per me faccende antieraputiche iatrogene ed eticamente dubbiose.
Nel libro,con grande chiarezza, un esplicito dichiarato all’inizio, sgombra il campo da ogni perplessità possibile.
Si tratta della consapevolezza degli autori che l’angoscia psicotica possa essere non solo non curata ma addirittura accresciuta dallo stesso trattamento e dalle sue tecniche,e per questa ragione, che il momento dell’esordio diventa centrale.
Si sostiene che poiché nell’angoscia psicotica possono essere ritracciabili due componenti, quella dell’esperienza psicotica in sé e quella del soggetto che assiste all’accadere della prima entrando in un contesto di terrore catastrofico, il primo ed irrinunciabile atto terapeutico consiste nel creare le condizioni affinchè il paziente, sin da subito, possa intraprendere un sentiero di rassicurazione di base e di fiducia. Ciò non sempre può avvenire in un contesto ospedaliero, un SPDC, dove ogni eventuale atto di “rassicurazione protettiva” si fonda in realtà su di una desoggettivazione radicale del paziente che gli impedisce qualsiasi esperienza o rappresentazione vitale di sé. Si produrrebbe altresì una dimensione iatrogena di esclusione e non riconoscimento. In questo senso, tra le tante, ho trovato profonda ed intensa l’indicazione preziosa di Fasolo, di trasformare ciò che vien normalmente definito e affrontato come “Urgenza” in “Emergenza”, il che significa, al di là del gioco linguistico, aprirsi allo spazio-tempo del saper so-stare, e cioè il fermarsi ed astenersi dall’agire e quindi il saper effettivamente stare nel momento interessante del hic et nunc. Va da sé che assumere una dis-posizione tale implichi, da parte dell’operatore, il reclutamento di alcuni condizioni come l’attesa, l’empatia, l’attenzione a ciò che accade dentro e fuori se stessi, la tolleranza dell’incertezza, l’evitamento di eccessi difensivi. Inoltre va anche da se come il processo gruppale, attivatore di reti cenestesiche, sia un perfetto rappresentante della complessità della cura della psicosi. Il gruppo, nel libro, naturalmente è individuato spesso come l’elemento principale della cura (si tratta del gruppo “grande”, quello che intreccia tutti i contraenti le relazioni, che è terapeutico sia perché meno assomiglia alla famiglia sia perché il gruppo è di per sé “grande” abbracciando ed includendo chiunque sia in relazione con il paziente).Tuttavia, lungo tutto il libro, spuntano i pensieri e le considerazioni che non escludono affatto l’osservazione delle interazioni più profonde ed articolate che si costruiscono tra due persone, avvertendoci solo di essere attenti a non attuare un meccanismo di scissione e di dissociazione nel considerarle le uniche valide ai fini terapeutici.
In questo senso trova collocazione la sottolineatura che Barbara Pinciara fa del meccanismo di scissione e proiezione di parti nell’esperienza psicotica da parte degli operatori e dei servizi quando, come lei bene precisa, oscillando tra i territori della paura e del bisogno e tra lo stop-and-go, trovano il contenitore ricettacolo solo nell’insieme del gruppo di lavoro.
Ed ecco nel libro la splendida metafora della “Credenza”, il mobile/contenitore fatto delle materia profonda della fiducia, un piano/contenitore di tutto ciò che si può finalmente “esporre” e, successivamente, “assimilare” perché certamente meno avvelenato e quindi meno velenoso: attenzione in ogni momento dell’operare con la psicosi, al non sottrarre, al far sparire qualcosa di importante che c’è, soprattutto quando, nell’ideologie “Tecniche” del rinforzo dell’io residuale, negli stessi tecnici si nascondono forti tratti difensivi e di evitamento del contatto con la pura follia che deve essere disponibile nella “Credenza”.
Quando si parla di contatto con la follia si deve naturalmente prestare attenzione ad indicare con moderazione quella strada suggestivamente e politicamente stimolante, assai difficile da percorre che porta verso le teorie cliniche che “prescrivono” la necessità di farsi quasi contaminare dalla pazzia al fine di poterla superare nel paziente stesso.
Ma un certo grado di contaminazione forse risulta davvero inevitabile. Si tratta soprattutto di individuare creativamente il modo “equilibrato, con cui aprirsi come terapeuti a questo territorio e precorrerlo.
Ma a questo punto gli autori suggeriscono uno straordinario dispositivo che ci viene in soccorso. Quale può essere il luogo protetto di incontro in cui fattori psicologici personali umani liberi si intrecciano con griglie di comportamento relazionale ordinate, aprendo ad esperienze modulate di contatto, avversione, successo, delusione, condivisione e così via tra pazienti e operatori?
Quale quello in cui l’essere esseri umani tesi a raggiungere una qualche forma di prestazione si intreccia con la sana stimolazione?
Carnevali lo indica e lo “centra” del “Gioco”, del “Giocare”.
Non sarà possibile entrare in profondità su questo argomento ma mi preme ricordare come l’area transizionale del gioco, naturalmente di winnicottiana memoria, davvero rappresenta il territorio in cui fiorisce l’essere un soggetto in prima persona, libero di esprimere le proprie risorse senza sottoporsi alle estenuanti pressioni del reale.
Essere con l’altro nel tentativo di pensare ed esperimentare, essere come l’altro nell’atto del giocare, riporta all’esperienza della relazione fondata su di un flusso di contatto assai piu vasto di ciò che superficialmente il gioco potrebbe indicare: non solo il fattore “ludico” ma bensi quello dell’inplicito relazionale emotivo co-condiviso.
Ed è su questo tipo di concettualizzazione che si armonizza il punto di vista espresso da Riccardo Canova ovvero la teoria sistemica.
La dove c’è relazione, contatto, contiguità, interazione, rapporto, è necessario superare l’idea dell’esistenza di qualità intrinseche collocate in una sola delle due componenti del sistema (paziente e terapeuta?) indirizzandoci verso la visione contemplativa dell’insieme della stessa interazione.
Il superamento della posizione oggettivante, di cui è cosi intrisa la psichiatria dei DSM sta ed inizia nel semplice fatto, disconosciuto, che “la stessa anamnesi è un processo attivo facente parte del trattamento” e che, come atto creativo e non semplicemente descrittivo, introduce inevitabilmente un moto di ridefinizione continua del problema psicopatologico di un paziente
Come dice Antonino Ferro nel suo ultimo libro, forse non si può parlare di un paziente ma di un paziente con il suo analista e del dialetto teorico di questo. Ed ecco apparire all’orizzonte concetti come costruttivismo, creatività, narrazioni che oserei dire propongono di abbattere la vecchia e maleodorante postura della psichiatria figlia di un positivismo occidentalista che schiaccia l’altro riducendolo all'essere paziente. Può essere importante sapere come è fatto un aquilone e quindi lo si può smontare ma attenzione c’è il rischio che così non voli, si può coglire un fiore staccarne i petali vederne le piu muniziose componenti ma cosi presto appassisce, si può rompere un uovo per analizzarne le componenti ma cosi il pulcino non nascerà più.
Un’ultima veloce osservazione sui due contributi finali del libro di due colleghi appartenenti all’area teorico-clinica del cognitivismo. E qui si rivela una certa, non nuova, “Novita”. L’impressione, infatti, è che esattamente come succede nel modo della psicoanalisi, ormai non si possa se non declinare al plurale le definizioni di base del cognitivismo. Voglio dire che, oltre a “due, e aggiungo io, molte psicoanalisi”, parafrasasndo Cremerius, assistiamo a come esistano più cognitivsmi.
Se da un lato infatti le dottrine appartenenti ad una medesima area condividono un “Common ground”, dall’altro si verificano oramai dei fenomeni di crossing-over per cui non saremmo stupiti di ritrovare contiguità teorico-cliniche tra un modello cognitivo ed uno psicoanalitico piuttosto che tra due stessi modelli psicoanalitici o due modelli cognitivi.
Sembra quasi che i principi che definiscono o meno un “Common gruond” di un modello di pensiero clinico, che risponde per esempio alla domanda che cos’è la psicanalisi oggi, siano collocati ad un diverso livello da quello normalmente e tradizionalmente pensato come modello teorico di riferimento di base.
Per esempio si potrebbero vedere sottolineature differenti tra modelli a prevalente impronta connessionistica (diremmo come psicoanalisti, quelli che centrano la relazione come strumento terapeutico) o modelli a forte impronta strutturalistica (diremmo che centrano sopratutto l’interpretazione come strumento terapentico).
Ora seppur in modo non del tutto delineabile chiaramente, i due modelli di cognitivismo che vengono presentati in questo libro, a mio parere fanno l’occhiolino l’uno alla relazione e l’altro ad una forte impronta a caratteristica educazionale_ccomportamentistica.
Senza naturalmente far velo alle mie posizioni voglio rilevare che l’insieme delle teorizzazioni svolta da Ruberti a mio parere mostrano un cognitivismo che soprattutto al di là dell’oceano in molte circostanze ha trovato stretti punto di contatto con la psicoanalisi giungendo a condividere alcuni punti del concetto stesso di inconscio.
Non sempre ho però avuto la possibilità di riconoscere lo stesso spazio di condivisione con l’insieme delle affemazioni di Mastrangelo e probabilemte ciò e dovuto a pregiudizi ideologici e residuali, come dice lui stesso, in me mescolati all’ignoranza circa una gran parti delle fonti e di modelli citati.
E su un punto voglio soffermarmi e polemizzare brevemente e porlo in termini di domanda. Mi rimane irrisolto totalmente il modo in cui si giunge a pensare di utilizzare il cosidetto modello psicoeducazionale e comportamentista per la cura della follia (e non solo) e cioè quello che, sostenuto come modello di base, volente o nolente, identifica e monotematizza l’apprendimento come una via terapeutica, escludendo o minimizzando il fattore soggettivo, stressando l’equazione mente/comportamento, rendendo la psichiatria e la psicologia più etologiche della stessa etologia. È indiscutibilmente vero che in ogni atto terapeutico implicitamente esiste sempre un fattore educativo, il che tra l’altro rappresenta spesso nella psicoanalisi il fattore iatrogeno principale, ma farlo diventare il modello di base…