Mi sembra particolarmente importante quanto Sassolas scrive a p. 25: “L’avvenire psichico di una persona che presenta una prima crisi psicotica è condizionato da tre fattori: il suo stato psichico precedente; la qualità del suo ambiente affettivo prossimo, e, in particolare, come questo reagisce alla sua crisi; la risposta di cura che gli viene data nel momento in cui per la prima volta va incontro a un cedimento del proprio psichismo”. Va da sé che tutti e tre i fattori sono fondamentali. Vorrei però spendere due parole sull’importanza, a mio parere decisiva, del secondo fattore: la qualità dell’ambiente affettivo e il modo in cui l’ambiente reagisce alla crisi. Includerei nel secondo fattore, o forse nel primo, un altro elemento di grande rilevanza: le risorse cognitive e la situazione sociale e professionale del paziente. Se la qualità dell’ambiente è favorevole, se il paziente ha buone risorse cognitive o una soddisfacente posizione professionale o di studio, tutto questo renderà più efficace il trattamento psichiatrico; e mi riferisco anche e forse soprattutto ai farmaci, che, come è noto, possono essere usati bene, per il proprio benessere, oppure male, magari in senso autolesionista.
Ma vorrei ora prendere spunto da questo libro per ragionare su una domanda che, credo, costituisca un cruccio per ogni psicoterapeuta, medico e o psicologo che sia: è possibile prevedere o addirittura prevenire un cedimento psicotico? Esistono segni premonitori?
Distinguerei anzitutto due tipologie di crisi: la crisi depressiva acuta, e la crisi psicotica in senso stretto, con allucinazioni, delirio, bizzarrie. Nella mia pratica privata ho avuto esperienza soprattutto di crisi depressive, anche altamente profonde. Nei pazienti con un puro disturbo bipolare direi che la crisi è imprevedibile. Se però il paziente bipolare presenta anche tratti narcisistici, non necessariamente primitivi, la crisi è sovente invece prevedibile. Una ferita narcisistica è, a mio parere, un predittore inequivocabile di un cedimento depressivo. Riporto ora due brevi esemplificazioni cliniche.
Il primo esempio riguarda un manager quarantacinquenne di alto livello, che si rivolge a me perché, mi ricordo bene, sentiva bisogno di un aiuto, qualcosa non stava funzionando nella sua mente. Dopo qualche seduta, la profezia s’avvera: l’azienda dove lavorava lo vuole mettere da parte, conferendogli un incarico, sempre ben pagato, ma quasi da travet, o peggio ancora, va in azienda e non gli danno nulla da fare: da manager super impegnato e gratificato, vive adesso il vuoto, l’abisso del nulla da fare. Dopo qualche giorno esplode un intenso episodio depressivo. Insieme agli psicofarmaci, ho aiutato il paziente a uscire dalla depressione. A questo punto la psicoterapia s’interruppe – e proprio in questo averlo lasciato andare riconosco ora il mio errore, se di errore si può parlare, visto che il paziente era virato verso una condizione ipomaniacale. Forse avrei dovuto fare di tutto per rendere edotto il paziente della sua vulnerabilità alla frustrazione. E in effetti dopo qualche anno, non ricordo più, il paziente che era riuscito a riaffermarsi assai bene sul piano professionale, si rivolge di nuovo a me in piena crisi depressiva: la ferita questa volta fu il pensionamento. Riuscimmo anche in questo caso a superare l’acuzia depressiva, e da allora non ho più avuto notizie.
La morale che si può derivare da questo esempio è tanto semplice da esprimere quanto difficile da realizzare: con pazienti bipolari e con tratti narcisistici è fondamentale non interrompere il trattamento, quando il paziente sta meglio, facendogli capire, in qualche modo, la vulnerabilità a cui gli eventi della vita lo espongono.
Il secondo caso riguarda la psicoterapia più strana, più misteriosa che abbia mai condotto. Questo paziente presentava le seguenti caratteristiche: è molto più giovane, una trentina d’anni, svolge con successo un lavoro creativo, compone musiche per le discoteche, anche lui è narcisista evoluto, ma pur sempre inequivocabilmente narcisista. Nel corso della terapia apparve chiaro che anche lui, come il primo paziente, soffriva di disturbo bipolare.
Spiego subito perché ho definito strana e misteriosa questa terapia. Il paziente si rivolge a me già in piena crisi depressiva. Ecco cosa scatenò la depressione: era di sera al pub con i suoi amici, e a un certo punto un amico gli chiede: come va? Questa domanda innocente lo mise di fronte alla verità: non va bene proprio niente, non sto combinando nulla, nulla di importante, s’intende. Da qui la depressione alquanto intensa, vi fu anche bisogno di un ricovero, con cui si presentò da me. Non aveva più voglia di lavorare, di vedere gli amici, alzarsi dal letto la mattina era una fatica estenuante, per andare dove poi, non certo al lavorare alle sue musiche; cosa fa un terapeuta in questi casi: ascolta, contiene la sofferenza, e ogni tanto dice qualcosa tanto per dire. Ma il mistero sta nel modo in cui guarì dalla depressione – francamente non saprei dire se il mio lavoro abbia in qualche modo giovato a questa incredibile guarigione. Guarì in questo modo: era per strada di notte, ci fu una rissa, e si prese un pugno nello stomaco. E il pugno nello stomaco magicamente lo guarì. Anche di questo paziente non ho avuto più notizie [1].
Quanto a vere e proprie crisi psicotiche mi limiterò, per mancanza di esperienza, a un unico esempio. Una paziente, di una trentina d’anni, soffriva, per usare il gergo del DSM, di un significativo disturbo paranoide della personalità. Ho seguito quasi per dieci anni questa paziente, prima nel pubblico poi privatamente. La paziente ha resistito per dieci lungi anni perché, dopo alcuni sbagli iniziali, per esempio fornivo inutili interpretazioni, mi sono reso conto che l’unico obiettivo che dovevo perseguire era di non diventare io stesso un persecutore – a fronte di un mondo intero popolato a vario titolo da nemici. Ebbene il disturbo di personalità progressivamente si è trasformato in un disturbo delirante a sfondo paranoide.
Nel succedersi delle sedute mi ero accorto senza ombra di dubbio che era in corso questa evoluzione. La inviai da uno psichiatra, il quale grazie alla somministrazione di Risperdal, riuscì a cancellare o diminuire lo stato delirante. Ma la paranoia, perché di questo si trattava, emerse di nuovo e questa volta in modo repentino. E il delirio persecutorio coinvolse adesso, per la prima volta, anche me. La terapia pertanto s’interruppe. Credo, per concludere, che in casi complessi come questo, lo psicoterapeuta medico abbia un netto vantaggio verso lo psicoterapeuta psicologo, quale sono io. Se invece di inviarlo da uno psichiatra, avessi potuto gestire da me la cura farmacologia le cose probabilmente potevano andar meglio. Ma io appunto non sono un medico.
[1] Che i pazienti narcisisti, terminata la terapia, quasi sempre non si facciano più vedere, dipende, a mio parere, dal dover essere stati costretti a chiedere e ricevere un aiuto, dipende insomma precisamente dai tratti narcisistici della loro personalità.