La ripropongo poiché per ragioni di tempo non c’è stato un dibattito e soprattutto in quanto nessuno degli allievi della scuola è potuto intervenire. La speranza è che arrivino i loro commenti così da avere il riscontro del loro punto di vista.
Ho riletto con piacere l’articolo di Cremerius che peraltro già conoscevo bene. Sono d’accordo con lui come lo ero già allora, ma l’ho trovato davvero datato, come se appartenesse ad un passato molto, molto lontano. Veniamo quindi all’attualità. Io limiterei l’ambito della mia attenzione alla formazione per quello che si fa nell’ambito della Scuola, della SPP. Ho con me alcune tesine che gli allievi ci presentano per l’esame del secondo anno e le ho passate in rassegna proprio per l’occasione della relazione di oggi. Si tratta di 8 psicoterapie. Va rilevato che sono i casi migliori, vale a dire i più supervisionati e seguiti per più lungo tempo. Allora: I pt sono tutti seguiti a una seduta vis a vis, e tutti nel corso del tirocinio presso un’istituzione pubblica. Il n delle sedute varia da un max di 38 a un min di 12. Due psicoterapie sono durate meno di 20 sedute. Tutte le terapie si svolgono in contesti piuttosto improbabili: si incomincia insieme al tutor, c’è lo psichiatra per i farmaci, di tre già si sa la data della fine, spesso si cambia lo studio ecc. Le supervisioni individuali variano da 2 a 5 per ogni pt. 5 casi sono stati portati nel gruppo clinico. I pt sono nevrotici o border line di livello superiore, solo un paio sono più gravi anzi 1 è psicotico.
Dunque nessun pt è in analisi. Gill insiste che non è il setting a definire il trattamento come analitico,ma lo diceva per trattamenti a tre invece che a 4 sedute la settimana. Non credo neppure che si possa parlare di psicoterapie espressive o esplorative per come le intendono Kemberg o Menninger (il n delle sedute è di 2 alla settimana e il n complessivo va oltre i 100 incontri. Come si possono chiamare queste esperienze terapeutiche?
Forse si potrebbero definire terapie di sostegno a impronta psicodinamica anche se mi sembra che così si dia troppa enfasi al versante del sostegno . Il linguaggio usato comunque è quello trasmesso da noi: le difese, il transfert, il conflitto,mentre si porta l’attenzione sulla famiglia, l’infanzia, si valorizzano i sogni, sull’interazione ecc..
Però viene a mancare la regressione che permette l’emergere di quei vissuti transferali che sono lo spunto per l’elaborazione analitica in senso specifico; anche se questo non significa ovviamente che non si evidenziano movimenti transferali, se è vero che il transfert è comunque onnipresente, anche al di fuori della relazione terapeutica.
Lo stesso discorso vale per le supervisioni. Se ne fanno davvero poche. L’allievo è tenuto a farne 60 nel corso dei 4 anni, dividendole fra i vari docenti. Questo significa che con me ne farà non più di una ventina in 4 anni. Inoltre se il paziente è a 1 seduta alla settimana è ovvio che ci si veda non più di una volta al mese anche correndo il rischio che io neppure mi ricordi quanto si era detto la volta prima, cosa che, devo ammettere, succede abbastanza spesso. Ci sono delle eccezioni, un allievo ad esempio fa una supervisione settimanale, ma è un caso isolato. Non possiamo quindi pensare alla supervisione come se avesse la funzione squisitamente analitica di elaborare il vissuto controtransferale. È vero che da qualche tempo si tende a considerare sulla scia soprattutto di Kemberg la risposta globale dell’analista alla personalità del paziente., ma non possiamo dimenticare che il controtranfert nella sua specificità é la reazione inconscia dell’analista al movimento trans ferale del pt. Purtroppo manca materialmente il tempo per entrare nel merito. Io ho lavorato 18 anni con Benedetti e Cremerius e ho fatto controlli settimanali con Muraro per 2 anni,con Ferradini per 4 anni e dopo con il mio vecchio analista. Nel giro di qualche tempo il supervisore leggeva dentro di me come se fossi un libro aperto. Mentre invece adesso posso solo fare riferimento ad alcune impressioni che mi suscita l’allievo. Comunque è ovvio che se non si lavora sul transfert non si lavorerà sul controtransfert. Ciò non significa, anche in questo caso, che il controtransfert non ci sia. Va aggiunto che ho parlato dei lavori degli allievi del secondo anno, mentre sul finire del quarto si discute di casi trattati per diversi anni e quindi molto più approfonditi così che le tematiche transferali diventano molto di più oggetto di elaborazione.
Tutto questo per dire che noi non formiamo alla psicoanalisi, ma alla psicoterapia psicoanalitica. E infatti la nostra scuola non per nulla si chiama SPP.
Non siamo più ai tempi di Cremerius. Vi ricordate quando per illustrare il suo setting di lavoro faceva addirittura riferimento alla camera operatoria perfettamente sterilizzata. Se assumessimo un punto di vista rigoroso, ossia il suo punto di vista, potremmo anche arrivare alla opzione tanto radicale quanto errata e pericolosa che queste terapie sembrano fatte apposta affinché terapeuta e paziente insieme si difendano dall’analisi, che sono tutte all’insegna della difesa dal transfert e dunque non hanno alcun valore.
So che sto dicendo delle cose senz’altro ovvie, che sicuramente sappiamo già tutti , però ci tengo a dirle lo stesso,perché su questo tema c’è ancora non poca confusione e certe imprecisioni sono pericolose. Abbiamo l’allievo che parla della “analisi” che sta conducendo, che mette il paziente a una seduta sul lettino, o che crede di parlare del suo controtransfert quando afferma che il pt. gli sta molto simpatico, che si lancia in interpretazioni spericolate, di solito ripetendo quello che ha sentito dal supervisore e via di questo passo E dall’altra parte abbiamo avuto il docente che si scandalizzava e contestava tutto come non analitico, che era contrario per definizione all’accompagnamento farmacologico, che non poteva tollerare che il terapeuta desse ascolto ad un familiare del paziente, ecc… Mi esprimo al passato perché nel corso del tempo siamo diventati molto meno rigidi, (va sottolineato che sto parlando anche, se non soprattutto, di me stesso). Esiste una certa confusione anche per quanto riguarda l’ASP. Nel nostro ultimo convegno di qualche anno fa abbiamo discusso di varie situazioni cliniche, ma non ho sentito di neppure un caso trattato con il setting classico della psicoanalisi. Eppure la nostra si chiama ASP. Per la verità mi accapiglio anche con i pazienti su questa questione. Io ho la fortuna di lavorare molto rispetto a tanti colleghi che incontrano oggi delle difficoltà, però attualmente non ho nessun paziente a 3 sedute. I pazienti tuttavia sono convinti di essere una analisi e mi capita molto benevolmente,è ovvio, di puntualizzare che non è proprio così, non è esatto.
Dunque si lavora analiticamente, ma non si fa un trattamento analitico. La formazione che offre la Scuola ha dunque ben poco ha che fare con il training psicoanalitico a cui fa riferimenti Cremerius nel suo articolo.
Ora, io mi chiedo, è il nostro compito di formatori meno impegnativo rispetto all’insegnamento tradizionale?
Io credo che non sia affatto così, anzi, se mai, è vero il contrario. Però mi sembra che la questione sia mal posta. È soprattutto diverso.
Qui però nasce una domanda. Sappiamo abbastanza bene cosa vogliono e cosa fanno gli analisti; ma quali sono gli obiettivi, che cosa si fa in trattamenti di questo tipo? Non fosse altro in quanto è dalle risposte che diamo a questo quesito che possiamo dedurre che tipo di formazione dobbiamo fornire ai nostri specializzandi. In due parole io direi che l’obiettivo di rendere conscio il conflitto inconscio passa in secondo piano rispetto a quello di rafforzare l’Io nel confronto delle pressioni che vengono dall’Es, dal Super Io e dalla realtà; anche se accade che si intervenga sul piano interpretativo in ragione volta per volta del dato clinico e nel caso la terapia si prolunghi.
Non approfondisco, manca il tempo e porto l’attenzione sulla formazione nella scuola
Una delle prime operazioni che dobbiamo fare é quella di capire le condizioni di lavoro nelle quali l’allievo si trova. L’allievo ad esempio non sceglie il paziente, ma questi gli viene affidato ed è tenuto a prenderlo in carico a priori; non può decidere i tempi della terapia, deve accettare che sia seguito farmacologicamente; insomma deve adeguarsi all’istituzione in cui si trova.
Va poi considerato il contesto socio culturale ed economico in cui i pazienti si muovono , spesso ben diverso da quelli che vengono in uno studio privato. Ho supervisionato casi di pazienti africani, sudamericani, dell’Est; alcuni pazienti vivono in condizioni di illegalità, altri sono al limite della sopravvivenza. Capita di tutto e bisogna tenere nella dovuta considerazione questi dati se si vuole impostare una terapia .
Dobbiamo poi considerare che l’allievo non ha alcuna preparazione sul piano clinico e necessita in primo luogo di informazioni, di una griglia di riferimento.
Mi sembra allora della massima importanza arrivare da subito ad un assetto diagnostico così da chiarire per lo meno a grandi linee chi è la persona che egli si trova davanti. La diagnosi va fatta in chiave dinamica naturalmente (le difese, la forza dell’io, il conflitto soggiacente ecc) ,ma, ancora prima, in senso proprio descrittivo, psichiatrico, perché non si prendano lucciole per lanterne e si arrivi addirittura a scambiare una psicosi per una nevrosi (come purtroppo spesso succede), e finalmente ,molto importante questo aspetto, va fatta una diagnosi di analizzabilità.
In questo modo già si può mettere in discussione, ad esempio, l’invio. Ho già detto che l’allievo prende chi gli viene mandato e ne succedono di tutti i colori. Spesso lo psichiatra o il tutor invia casi gravissimi contrabbandandoli per casi semplici o comunque casi per nulla adatti alla psicoterapia. Ho appena sentito di un paziente inviato come un tipo simpatico, mentre era in piena crisi maniacale. È chiaro che bisogna difendersi e discutere del caso con il mittente.
Inoltre si può valutare se c’è l’indicazione. Una terapia a una seduta è perfettamente indicata in situazioni di sofferenza a carattere episodico, da intendere come una crisi (sto parlando di lutti, distacchi, avvenimenti traumatici, momenti di passaggio ecc.) ed è prevedibile che sia piuttosto breve. E’ ben vero che possono insorgere altri problemi che si riferiscono a una situazione conflittuale preesistente, però non è detto e comunque si sta a vedere. Allo stesso modo è da consigliare con un adolescente, oppure con casi gravi avendo già ben presente che in questo caso si tratta proprio di mettersi il paziente sulle spalle perché è probabile che duri a lungo nel tempo. Mentre le cose cambiano se abbiamo a che fare con una bella nevrosi con tanto di coazione a ripetere ecc. In questi casi siamo nei guai perché l’indicazione è per una terapia intensiva e si deve valutare se è il caso di portare l’attenzione sugli aspetti conflittuali perché se non lo si fa, non si fa nulla e se lo si fa, si rischia di aprire un discorso senza avere poi il tempo e gli strumenti per concluderlo. Si potrebbe allora intendere la psicoterapia come propedeutica all’analisi oppure val la pena di dire al paziente che il lavoro è insufficiente, o altro ancora…
Sempre restando nell’ambito diagnostico propongo una visione prospettica ipotizzando ciò che accadrà, le possibilità di intervento, gli esiti che ci si può aspettare ecc.. A partire da qui si può ipotizzare che il paziente interrompa, o che si attacchi al terapeuta, che se si fa questo succederà quello. Invito insomma l’allievo ad un approccio molto clinico per valutare gli obiettivi e l’eventuale percorso in relazione agli strumenti di cui dispone. In particolare io temo molto l’ingenuità del giovane collega che si butta con tutto il suo entusiasmo in situazioni impossibili, se non pericolose e poi fallisce.
Importante poi è la motivazione perché è evidente che una terapia pagata di tasca propria mobilita un impegno ben diverso rispetto ad un’altra elargita gratuitamente. Occorre poi distinguere se la bassa frequenza è dovuta a questioni di forza maggiore o si configura come una resistenza. In quest’ultimo caso il setting andrebbe ridiscusso...
Da questi brevi cenni è evidente che io cerco di far sì che l’allievo abbia le idee chiare, che sappia cosa sta facendo e se ne può dedurre che in seduta egli finisca allora per assumere un atteggiamento troppo razionale. Sono però confortato dal fatto che non mi sembra che succeda così;anzi rimango continuamente sorpreso di come nel tempo si sviluppino fantasie controtransferali e come esse si traducano in intuizioni e agiscano nella relazione. Si tratta di veri e propri salti di qualità rispetto all’idea di stare il più possibile con i piedi per terra, dato il poco tempo, gli obiettivi di partenza ecc. Cambia allora anche la modalità della supervisione: mentre prima si diceva cosa fare ora ci si accompagna all’allievo. Non più “make him analyse”, ma “let him analyse”, come distinguono gli americani. È chiaro che in questi casi quella la personalità dell’allievo si impone come una variante decisiva poiché quando l’attività interpretativa è ridotta al minimo il fattore terapeutico legato all’interazione acquista più importanza. Questa breve relazione solleva molte domande: i confini fra l’appoggio e la interpretazione, l’area di sovrapposizione fra psicoanalisi e psicoterapia, la validità della terapia a una seduta, la terapia oggi in un mondo che cambia senza sosta, mentre rimane anche la questione sulla formazione che davvero facciamo, al di là delle nostre intenzioni, con i nostri specializzandi. Non ho dato risposte perché sono in dubbio su ognuno di questi temi. Sono sicuro però, perché lo constato continuamente, che nei 4 anni di corso gli allievi imparano tantissime cose e si danno le basi per proseguire in questo nostro tanto difficile lavoro. Non abbiamo sprecato il nostro tempo, né loro né noi.
Per quanto riguarda l’impegno mi rifaccio alla battuta di Migone, quando propone di aggiungere alle tre attività impossibili di Freud, quella del formatore. Per quel che mi riguarda anzi, è più difficile e faticosa il lavoro di supervisione che quello di terapia. Si tratta di capire il paziente , il terapeuta, quanto succede fra di loro e anche fra noi due, io e il terapeuta. Inoltre l’allievo dà la massima importanza a quello che gli suggerisco e non posso permettermi di sbagliare.