Anche se solitamente le battaglie della sinistra in Italia mi vedono solidale con la visione di fondo che viene proposta, e quasi sempre mi ritrovo a condividere il punto di vista di chi difende i diritti dei lavoratori cercando di proteggerli dai soprusi dei potenti, da quando è stato dato a Mario Monti il mandato di risollevare l’economia italiana e di rilanciarla verso prospettive future di crescita, ho ritenuto e ritengo di voler dare fiducia a quest’uomo, cui attribuisco un’intelligenza e un’onestà rare, e che penso sia assolutamente all’altezza del compito che si è assunto.
Il mestiere dell’analista mette chi lo fa nella condizione di trovarsi spesso in una posizione del tutto analoga a quella di Monti. È facile che chi ci chiede un aiuto voglia risollevarsi da una “recessione” che lo ha colpito, aspettandosi un futuro nel quale potersi rilanciare riprendendo un processo di crescita. E, come sta accadendo alla maggior parte degli italiani nei confronti del capo del governo, un approccio analitico al problema appare, per le aspettative del paziente, insufficiente o non abbastanza rapido, o eccessivamente penalizzante. Se pensiamo poi al lavoro istituzionale, dove alle richieste pressanti del paziente si assommano quelle dei vertici dell’istituzione, che pretendono risultati in tempi brevi per giustificare il preventivo di spesa con risultati tangibili riscontrabili nell’immediato, lo psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico si trova spesso a mal partito, dovendo competere con altri terapeuti di orientamenti diversi, che fanno uso di tecniche improntate ad interventi brevi che spesso sono corredate da indici codificati di efficacia. L’idea di poter stare bene subito, o comunque di avere un processo che nell’immediato deve dare una situazione di benessere in crescita progressiva, evitando la sofferenza, è molto diffusa nella quasi totalità delle persone, per le quali è estremamente difficile condividere una prospettiva in cui il passaggio attraverso una sofferenza maggiore può essere un presupposto necessario per un reale cambiamento. Esiste poi sempre la possibilità, e nelle reazioni alla manovra del governo Monti questo è accaduto in ogni categoria e in ogni strato della popolazione, di individuare alternative ritenute più vantaggiose, dove la sofferenza può non colpire il soggetto in questione, ma qualcun altro che per qualche motivo se lo “merita” di più, perché più ricco, più fortunato o portatore di un minor impegno. C’è sempre qualcosa che avrebbe dovuto succedere “prima”, procrastinando così il momento della sofferenza, e colpendo per l’appunto quel “qualcun altro” che se lo merita e dunque farà sentire la sofferenza stessa, quando verrà (il più tardi possibile) come fosse di minor intensità.
Quante volte abbiamo a che fare con resistenze al cambiamento che passano proprio attraverso la non accettazione della sofferenza, in situazioni dove il futuro viene visto come sempre di là da venire, e dunque messo in secondo piano rispetto a un’attualità nella quale il disagio è tangibile e dunque muove tutti gli espedienti possibili per evitarlo.
Al di là del fatto che Berlusconi aveva come primo fine di tutto il suo lavoro la salvaguardia di se stesso, le sue manovre e le sue leggi, oltre ad essere per la maggior parte “ad personam”, erano anche improntate a giochi seduttivi che facilmente entravano in sintonia, collusivamente, con le difese della maggior parte della gente, che rispondeva favorevolmente a chi gli offriva il miraggio di un immediato benessere raggiunto senza tanta fatica. Un’altra difesa era la negazione: “Non è vero che c’è la crisi, i ristoranti sono sempre pieni, e altrettanto i luoghi di vacanza!”.
L’analisi, in questa chiave di lettura, è veramente come la manovra di Monti, e la manovra di Monti come l’analisi. Invece di convincere il paziente-Italia del fatto che la sua sofferenza non è tale, o che comunque il “terapeuta” ha in pugno la situazione e può garantire la guarigione in breve tempo, l’assennato capo di governo, come l’analista, dichiara il suo limite nella necessità di collaborazione da parte del paziente-nazione, e solo in un lavoro condiviso, dove inevitabilmente dovrà essere lo stesso paziente-nazione a farsi carico della sofferenza maggiore, sarà possibile operare un cambiamento che porti alla risoluzione del problema. Al fondo di tutto ci dev’essere la fiducia: “Non posso prometterti qualcosa di cui non sono certo, e non posso fare tutto e subito, ma devi fidarti del mio impegno, che sarà massimo, e delle tue risorse, che ci sono e ti permetteranno di fare un uso costruttivo del dolore che non potrai fare a meno di sentire”. Ci sono delle cose più complesse che richiedono più tempo e un’elaborazione maggiore, e altre che magari richiedono una rinuncia o un sacrificio in relazione a parti di noi che riteniamo particolarmente fragili e bisognose, e per le quali vorremmo una salvaguardia particolare, mentre accade che nel processo di trasformazione siano le prime alle quali si chiede un cambiamento doloroso, magari vissuto come lutto o come perdita.
Diamo tempo a questo grande tessitore (al cui confronto la fama di Cavour a mio avviso scompare) di riprendere i bandoli di una matassa che la demenza di chi lo ha preceduto ha sfilacciato in ogni direzione, e come pazienti fiduciosi di un analista che garantisce la sua presenza, lavorando efficacemente su tempi necessariamente lunghi, accettiamo le sequenze di eventi che la sua intelligenza e la sua esperienza “clinica” (da tanto tempo lo vediamo di fianco al letto di questa povera nazione moribonda, e solo ora gli viene finalmente data la responsabilità della “cura”) gli suggeriscono, e potremo, io credo, arrivare a guardarci indietro come alcuni di noi possono fare nei confronti della propria analisi, ricordando momenti che sembravano disperati e che invece oggi vediamo, retroattivamente, come necessari in un percorso che è stato comunque di crescita.