Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 5
2 - 2011 mese di Dicembre
CLINICA
ELEMENTI DI TECNICA DELLA PSICOTERAPIA PSICODINAMICA DELLE PSICOSI SCHIZOFRENICHE
di Ciro Elia
Vorrei in primo luogo chiarire perché parlo di psicoterapia ad indirizzo psicoanalitico di queste patologie. La tecnica della psicoterapia delle psicosi è molto diversa dall’analisi delle nevrosi sia per le caratteristiche della relazione nel senso che si tratta di una relazione più coinvolgente e interattiva, all’inizio soprattutto ad opera del terapeuta, (spesso il terapeuta ha la sensazione di avere a che fare con un figlio); inoltre il transfert positivo del terapeuta e la sua identificazione col paziente vengono attivati prima di quelli del paziente, anzi sono volti a suscitarli: da questo punto di vista la visione della terapia è chiaramente di tipo bi-personale e anche intersoggettivo. Poi gli interventi che si effettuano sono costituiti oltre che da quelli interpretativi anche da interventi non-interpretativi; seguendo M. Gill (1994) ritengo che il criterio intrinseco fondamentale che permette di considerare queste psicoterapie come psicoanalitiche è l’analisi del transfert “quanto più si può” (pag. 67), alla quale io aggiungo anche l’analisi del controtransfert per quanto è possibile.

Dobbiamo per altro essere consapevoli del fatto che come in ogni terapia psicoanalitica molta parte dell’interazione tra analista e paziente avviene sul piano inconscio. I criteri estrinseci, cioè frequenza delle sedute, durata, posizione corporea reciproca (il divano), ecc., non sono di grande importanza soprattutto nei primi anni di terapia: la flessibilità del terapeuta e del setting è uno degli elementi che permettono di raggiungere il primo obiettivo, e cioè che il paziente si trovi bene nel colloquio con noi.

Come ho detto sopra, oltre agli interventi interpretativi utilizzo anche interventi non interpretativi con una loro logica e un senso, in modo che possano essere integrati e correlati a feed-back con i primi. Ricordo che Eagle (2000), insieme ad altri autori, sottolinea che anche nell’analisi delle nevrosi i fattori cognitivi e quelli affettivo-relazionali sono strettamente correlati e agenti in modo da poter modificare gli schemi affettivo-cognitivi del paziente. In effetti ragioni teoriche e cliniche mi hanno portato a cercare un’integrazione tra le due tecniche principali che sono state adottate dalla psicoanalisi nella terapia psicoanalitica della schizofrenia: la prima, propria degli interpersonali (Sullivan, Searles, ecc.) si focalizza sul deficit del paziente schizofrenico e sottolinea la partecipazione dell’analista, l’empatia, la simbiosi terapeutica; la seconda di linea kleiniana, centrata invece sull’aspetto del conflitto, tende a focalizzarsi sull’interpretazione.

Cerco ora per sommi capi di descrivere i principi fondamentali della tecnica e della teoria della tecnica.

  1. Come ho già accennato, l’attività e l’identificazione del terapeuta che scaturisce anche dal suo inconscio e preconscio è il primo movimento del terapeuta: questo permette che successivamente il paziente si identifichi con certe caratteristiche personali e con l’attività affettivo-cognitiva del terapeuta. La posizione affettiva del terapeuta è di quasi-simmetria o mutualità (Aron 1992) rispetto a quella del paziente e dà luogo alla possibilità che i vissuti di morte e non-esistenza vengano assorbiti, fatti propri dall’analista, e la presenza, l’attività contenente e bonificante di questi vengano interiorizzati dal paziente, insieme a tutta una serie di comunicazioni che avvengono a livello inconscio. Mi riferisco anche ai sogni terapeutici o controtransferali che compaiono con una particolare frequenza durante queste terapie e possono essere a volte raccontati o più spesso non raccontati al paziente. Inoltre faccio riferimento in questo contesto concettuale agli interventi di simmetria simbolica descritti da Benedetti (1991), che si fondono sulla creatività metaforica dell’analista rispetto alla negatività della patologia: queste costruzioni metaforiche hanno spesso la capacità di modificare certi vissuti particolarmente radicati, quali le allucinazioni negative, i deliri  dismorfofobici, le difese artistiche, la frammentazione del Sé.

Un altro tipo di intervento di mutualità che chiamo “narrare a due  voci” è rivolto a certi interessi del paziente che il terapeuta in qualche modo condivide e che non avrebbe senso affrontare in maniera interpretativa, perché costituiscono movimenti del paziente volti ad avvicinarsi al terapeuta, a conoscerlo meglio, a sollecitare la sua partecipazione, a vedere se ci sono gusti e interessi condivisi. Il “narrare a due voci” è molto più dell’autodisvelamento del terapeuta, è un dialogo col paziente costituito da uno scambio di idee, affetti, predilezioni, esperienze, che segna, circoscrive un’area transizionale nella quale il paziente riesce a trovare la sua giusta vicinanza col terapeuta: per esempio parlare di cinema o di sport o di giochi che il paziente e il terapeuta facevano da ragazzini. Si tratta di interventi che hanno analogie con ciò che la J. Benjamin (2004) chiama “uno-in-tre” nel rapporto madre-infante, facendo riferimento all’accordo di un membro con l’altro della diade e all’accordo di ciascun membro col ritmo creato insieme, ma anche al fatto che i due membri sono a loro volta influenzati dal ritmo creato insieme. Tale mutua ritmicità, che in certe situazioni cerco di creare col paziente, si rifà alla concordanza di ritmi e armonie descritte da Sander (2002) col principio di ritmicità. Tale mutualità si esprime in maniera più usuale attraverso la mimica del volto e la gestualità del terapeuta nella posizione vi-à-vis, perché in questo modo oltre agli affetti darwiniani vengono trasmessi anche gli affetti vitali (ritmo, forza e forma), e a volte attraverso la comunicazione verbale di affetti.

  1. Mettere in moto il processo interpretativo fin dalle prime fasi della psicoterapia, appena è possibile, è un altro dei principi tecnici che adotto, contrariamente al parere della gran parte degli psicoterapeuti della schizofrenia. Il processo interpretativo, che nelle fasi iniziali della terapia è costituito da osservazioni, confrontazioni, commenti, sottolineature, domande che attivano la riflessione, può essere piano piano sviluppato secondo diverse linee con un’attenzione particolare al timing, alla forma, al tono affettivo, al contenuto e all’oggetto dell’interpretazione. Qui, ancora di più che nell’analisi delle nevrosi, valgono le raccomandazioni tecniche degli autori neo-freudiani P. Gray (1994) e F. Busch (1999) secondo le quali l’interpretazione è utile al paziente solo quando si ha la sensazione che egli sia in grado di accettare e capire il senso dell’interpretazione almeno a livello preconscio. Generalmente le interpretazioni devono essere insature, aperte, non calate dall’alto. Inoltre nella prima fase della terapia il lavoro interpretativo va rivolto particolarmente alle resistenze che ho descritto (Elia 1999) come “resistenze allo sviluppo del transfert positivo” e dell’alleanza terapeutica, insieme alle resistenze al riconoscimento del transfert (Gill 1982) soprattutto di origine superegoica. In linea di massima le interpretazioni fondamentali del significato del delirio e delle allucinazioni è più possibile e incisivo quando questi fenomeni siano entrati a far parte del transfert. A questo punto della terapia si rendono possibili anche le interpretazioni ricostruttive.
  1. I processi di identificazione tra analista e paziente e il lavoro interpretativo portano allo sviluppo di fenomeni transizionali di cui l’aspetto più clamoroso è il Nucleo Transizionale del Sé. Questo manifesta spesso la sua presenza, ma non sempre, durante la psicosi di transfert. La psicosi di transfert provoca la crisi dell’organizzazione artistico-simbiotico del Sé (questo concetto riguarda il mio modello psicodinamico artistico-simbiotico della schizofrenia) e delle difese narcisistico-strutturali, dando luogo a una frammentazione più grave del Sé, a confusione, accentuazione delle spinte lipidiche e aggressive: un quadro sorprendente e drammatico che preoccupa analista e familiari del paziente, ma che può portare a una nuova e meno patologica organizzazione del Sé. Il Nucleo Transizionale del Sé è costituito dall’integrazione di aspetti deliranti o allucinatori del paziente con aspetti cognitivo-affettivi del terapeuta. Il Nucleo Transizionale del Sé, fenomeno allo stesso tempo ancora delirante o allucinatorio e progressivo, sostiene il paziente nel contenere l’angoscia di separazione tra una seduta e l’altra o durante le interruzioni della terapia, lo aiuta a riflettere e a ricordare quanto è stato detto in seduta, a sviluppare la capacità logiche dell’Io, a rendere il Super-io più benevolo: tutto questo permette che faccia la sua comparsa in terapia lo spazio potenziale o analitico (Winnicot 1971). Durante il trattamento di un mio paziente schizofrenico è comparsa nell’ambito della psicosi di transfert la figura dell’Arcangelo Gabriele, che è stato molto importante nel progresso del paziente. L’Arcangelo Gabriele, il messaggero tra Dio e gli uomini, mantiene una comunicazione concertistica ancora delirante tra me e il paziente quando non ci vediamo, ed è il portatore dell’annuncio di una nascita o rinascita per lui.

 

  1. Il principio di dissimetria si contrappone in maniera dialettica e si integra con quello di mutualità o di quasi-simmetria. Già gli interventi interpretativi marcano un’asimmetria tra analista e paziente, ma in qualche situazione caratterizzata da grande aggressività e a volte violenza che da parte del paziente si rendono necessari interventi non-interpretativi a carattere dissimmetrico, contro-aggressivo, rispetto all’aggressività del paziente, per la quale a volte innumerevoli interpretazioni non sortiscono alcun effetto. Mi viene in mente a questo proposito l’affermazione di L. Friedman (1988), secondo la quale l’accettazione del paziente e delle sue modalità si deve accompagnare alla consapevolezza del conflitto, perché queste modalità non vanno bene allo stesso paziente. Questo è uno degli altri paradossi di ogni terapia psicoanalitica e a maggior ragione della terapia dei disturbi schizofrenici. L’odio e anche la violenza transferale non sono facilmente modificabili, in primo luogo perché costituiscono una parte essenziale, strutturale del Sé e danno un senso di identicità e vitalità al paziente; inoltre l’aggressività va considerata come preservatrice del Sé per i suoi caratteri di esplosività e arelazionabilità o relazionalità duale, e di assenza della componente sessuale; essa è volta a distruggere l’oggetto che viene sentito come molto pericoloso per il Sé. Inoltre l’aggressività e la violenza non si modificano se, oltre alle interpretazioni, non vengono utilizzati interventi contro-aggressivi, a volte anche a carattere corporeo, perché l’onnipotenza proiettata sul terapeuta  dà la sensazione al paziente che il terapeuta sia un essere onnipotente o invincibile, che non prova dolore, che può sopportare qualsiasi disagio, che non ha limiti. Naturalmente interventi contro-aggressivi sono possibili e hanno una valenza terapeutica, allorché la relazione tra i due partners ha acquistato un carattere positivo, buono, connotato da saldezza e fiducia reciproca.

Un altro intervento a carattere dissimmetrico riguarda il tentativo, ripetuto più e più volte, volto a riportare nell’ambito del Sé del paziente elementi deliranti e allucinatori, allorché non entrano o non sono ancora entrati a far parte del transfert. Si tratta di introdurre il principio di realtà condivisa, che con Peterfreund (1983) si può anche chiamare il modello generale di “conoscenza del mondo” (pag. 94), cioè la conoscenza di situazioni o cose della nostra cultura o realtà, come in genere sono prevedibili. Per esempio con una paziente schizoaffettiva oltre che da aspetti deliranti persecutori è molto disturbata da “rumori” che i vicini di casa farebbero contro di lei, ho lavorato a lungo, prima di poter capire il significato delle allucinazioni e interpretarlo, mostrandone l’impossibilità o assurdità logica. Si tratta di ridurre in questo modo la forte tendenza proiettiva sull’aggressività, facendo anche vedere l’aspettativa e anche il desiderio che si crei il clima di guerra con i vicini.

Vorrei concludere con l’augurio che questo contributo possa stimolare il nostro interesse per la ricerca e l’approfondimento clinico e teorico della psicoterapia psicoanalitica delle psicosi schizofreniche, convinto come sono che la psicoanalisi possa dire una parola importante per questi pazienti.

Scarica il documento
Torna al sommario