In questo scritto non sono tanto interessato a criticare o approvare le idee di Carnevali, Maschietto e Medri, quanto a prendere spunto dal loro pensiero per proporre una personale riflessione.
Carnevali muove a Maschietto, facendo riferimento al suo articolo, “Diventare psicoanalisti: un nodo da sciogliere tra il lettino e la scuola di Psicoterapia Psicoanalitica”, la seguente obiezione: “In primo luogo trovo che nel lavoro di Maschietto ci sia una mitizzazione dell'analisi che non mi sento di condividere”. Alla base di questa obiezione si trova la convinzione di Carnevali secondo cui l'analista, impropriamente, si arroga prerogative assolute che lo pongono a un livello superiore rispetto al lavoro terapeutico nel privato o nel pubblico.
In parte condivido la posizione di Carnevali, in parte, sulla base della mia pratica clinica, non la condivido. Io sono arrivato alla ferma conclusione che il fattore che discrimina tra psicoterapia e psicoanalisi, nel privato o nelle istituzioni, è sempre e necessariamente il paziente con la sua personalità. Credo che la severità della psicopatologia conti davvero poco, ciò che conta e decide il modo di lavorare è l'attitudine, un'attitudine ineffabile, del paziente a guardare dentro di sé fino in fondo, senza avere troppa paura.
Da più di dieci anni, con numerose interruzioni dovute anche a ricoveri, ho in cura un paziente psicotico che, sia pure su un terreno psichico ancora fragile, è riuscito a compensarsi, a lavorare, a vivere da solo. Questo paziente non solo è molto intelligente, ma è anche adatto, se così si può dire, a fare psicoanalisi. E con ciò voglio dire una cosa che credo semplice: ha curiosità e ha perfino piacere a esplorare le motivazioni inconsce che operano dentro di lui. Questo lo ha portato a un risultato che giudico clinicamente importante: quando, a causa di un avvenimento frustrante, si sente in procinto di perdere il controllo, mi telefona e iniziamo un'ulteriore tranche di psicoterapia, una psicoterapia che, seppure vis à vis e a cadenza settimanale, è a parer mio schiettamente analitica.
Confronto la situazione di questo paziente che ama conoscere se stesso, con il caso di una paziente più giovane, poco più di vent'anni, affetta da un moderato disturbo d'ansia. Anche questa paziente è molto intelligente e sensibile, frequenta con successo una facoltà scientifica, padroneggia dunque con destrezza simboli e concetti astratti, il che però non esclude che rispetto al mondo interno il suo pensiero sia invincibilmente concreto. Questa paziente è del tutto refrattaria alla psicoanalisi, il che significa che non è amica dell'inconscio. Un unico esempio: mi porta un sogno e me lo lascia lì, senza mostrare alcun desiderio di afferrarne il significato, e, cosa ancor più significativa, senza avere la minima idea di cosa sia un sogno, del perché sogniamo, del perché alcuni sogni li ricordiamo, mentre altri svaniscono. Condivide in fondo l'opinione dei critici di Freud, come pure di molti neuroscienziati del nostro tempo, secondo la quale il sogno è un fenomeno psichico effimero, un capriccio della mente addormentata. Con questa paziente, moderatamente nevrotica e con un buon funzionamento sociale, la psicoterapia che conduco è analitica solo a parole, lo è solo nel mio desiderio, in realtà è molto più simile a una terapia cognitiva.
Conclusione: che una psicoterapia sia analitica o meno non dipende, nella maggior parte dei casi, da noi bensì dall'organizzazione caratteriale del paziente. Una psicoterapia autenticamente analitica è di livello superiore? In cuor mio rispondo assolutamente di sì. Ma si tratta evidentemente di una risposta soggettiva, il che peraltro è dimostrato dal fatto che buoni risultati clinici si ottengono quando si abrogano alcune caratteristiche del setting classico - rispondere alle domande, dare consigli, commenti, rispondere al telefono e così via - restando tuttavia immutato il setting mentale del terapeuta che non può non essere di natura psicoanalitica.
A proposito della presunta prescrittività di Maschietto, Carnevali si appella nientedimeno che a Lacan. E scrive: “Una delle poche cose che ho estratto dal pensiero lacaniano (che per la maggior parte mi è alieno) è l'idea di 'Soggetto supposto sapere'; non so se traduco esattamente il pensiero di Lacan sull'argomento, ma da questo concetto ho tratto la convinzione che nel relazionarsi a chiunque un atteggiamento sterile e poco adatto alla relazione è quello di ritenere, rispetto a un interlocutore, di 'saperne più di lui, tanto più e soprattutto se l'oggetto dell'interesse condiviso è lui stesso'”.
Anch'io, come Roberto, ho capito davvero poco del pensiero di Lacan. Però anch'io - che singolare coincidenza! - ho capito o creduto di capire il concetto di “soggetto supposto sapere”, un concetto che, di certo semplificando non poco le parole sacerdotali di Lacan, esprimerei in questi termini: l'analisi comincia davvero solo quando il paziente ritira la convinzione immaginaria secondo cui l'analista è detentore di un sapere prodigioso capace di risolvere ogni suo problema. Come dire, si può cominciare a fare psicoanalisi solo quando il paziente è arrivato a vedere nell'analista non un mago né un'entità onnisciente, ma un qualunque essere umano che semplicemente attua nei suoi confronti la funzione analitica; si tratta allora, per mettersi davvero al lavoro, di collaborare, di trovare l'umiltà per mettersi in gioco. Francamente non credo che Lacan approvasse la teoria dell'alleanza terapeutica, ma per quanto mi riguarda il nocciolo della teoria del supposto sapere risiede proprio in questo: io ti aiuto ad affrontare le tue difficoltà, ma solo tu, paziente, sai in cosa consista questa avventura, solo tu sai cosa sia per te il benessere, e tu solamente sai come e dove cercarlo con il mio aiuto.
Condivido pienamente questo ordine di idee. Tuttavia la differenza che ho prima adombrato tra due tipi di pazienti mi induce a non renderla assoluta e dogmatica nel lavoro clinico. Indipendentemente dalla psicopatologia, molte persone, molti pazienti, a motivo della loro personalità, non sono in grado o non sono disponibili a rinunciare al supposto sapere dell'analista, o piuttosto dello psicoterapeuta. Per quanto possano essere intelligenti e sensibili, hanno bisogno di un terapeuta regolatore. Del resto non credo sia presunzione supporre che un buon analista possieda realmente una conoscenza della natura e delle relazioni umane più profonda dei pazienti che rientrano in questa categoria.
Negli Studi sull'isteria, nel 1895, discutendo delle condizioni di una psicoterapia analitica dell'isteria, Freud scriveva, tra altre cose, quanto segue: “È necessario il completo consenso, la piena attenzione dei malati, ma soprattutto la loro confidenza, dato che l'analisi conduce regolarmente ai processi psichici più intimi e segreti” (Freud, OSF, vol. 1., p. 403). Interpreto così queste antiche parole di Freud: nel terapeuta non meno che nel paziente deve esistere, affinché vi sia psicoanalisi, “un grande interesse per i fatti psicologici” (Ibidem). Se tale interesse non è presente, il terapeuta dei giorni nostri non può che arrangiarsi con diversi strumenti di cura.
Concludo riferendomi alle osservazioni di Carnevali intorno all'articolo di Medri, “Il contratto narcisistico e la formazione”. Cito da Carnevali:
Rispetto al discorso di Medri, voglio partire da questa sua considerazione: “E dire che non è certo colpa nostra se la situazione di mercato è difficile, che gli allievi lo sapevano benissimo già prima di incominciare e che anzi noi li avevamo avvertiti. Al punto che è ormai mia abitudine neo colloqui di selezione sconsigliare addirittura di impegnarsi in un'attività tanto faticosa e tanto poco remunerativa!” Se la posizione di Maschietto può essere tradotta in termini relazionali in una vigilanza del genitore sul figlio per valutare se è in grado di affrontare la realtà con mezzi adeguati, questo discorso di Medri configura invece una situazione dove il genitore vuole cautelarsi da eventuali rimostranze e rimproveri da parte dei figli per averli “messi al mondo”, e lo fa da un lato discolpandosi (non è certo colpa nostra…), dall'altro dando il consiglio più prudente e conservativo (“sconsigliare addirittura di impegnarsi in un'attività tanto faticosa quanto poco remunerativa!”); come dire: se fallisci, posso sempre dire: “Te l'avevo detto!”.
Inizio sottoscrivendo pienamente la valutazione di Medri circa la situazione e le prospettive professionali dei giovani psicologi. La situazione è esattamente quella da lui descritta. Non faccio i colloqui selettivi e se li facessi probabilmente non pronuncerei al candidato le parole non incoraggianti di Medri. In cuor mio tuttavia quel messaggio - chi te lo fa fare? - sarebbe presente.
Rapporto analista/genitore - allievo/figlio. Faccio non molte ma un buon numero di supervisioni con allievi (anzi, allieve) della SPP. Ora la richiesta che l'allieva in supervisione mi pone è per lo più sempre la stessa: “Tu sei capace, io non ancora, dimmi dunque cosa devo fare, cosa devo dire al paziente, quale tecnica devo impiegare?” Si tratta di psicologhe molto giovani con poche e spesso confuse esperienze cliniche, e cos'altro dovrebbero chiedere al loro supervisore se non un aiuto, qui e adesso? Il buon supervisore fornisce l'aiuto e al tempo stesso, se è davvero bravo, come di certo lo è Medri, irrora un terreno psichico affinché l'allievo, diventato grande, per così dire, possa a un certo punto non aver più bisogno di un padre/supervisore. Non vedo in tutto ciò nulla di controllante o di non analitico. L'allievo ha bisogno di essere aiutato adesso, agli albori della sua attività clinica, in contesti istituzionali che assai spesso lo lasciano solo, o con aiuti incompatibili con la sua formazione e vocazione, quando, e non accade di rado, non venga addirittura boicottato in quanto psicologo non medico. Si aggiunga inoltre il fatto ben noto secondo cui in molti servizi, non certo in tutti però, ai tirocinanti vengono affidati senza un adeguato tutoraggio i pazienti con le patologie più importanti.
Quanto al contratto narcisistico e al concetto stesso di narcisismo, non me la sento di esprimermi, se non altro perché cosa si debba intendere oggi in psicoanalisi per narcisismo è tutt'altro che chiaro. Rammento solo che con ogni probabilità il DSM-5 depennerà il disturbo narcisistico di personalità dalla gamma dei disturbi di personalità.