Ho letto da qualche parte che si possono trovare nella letteratura oltre 90 definizioni del termine “narcisismo”. Non si può che accettare quindi che Roberto ne abbia un'altra del tutto personale. Mi si conceda però di continuare a distinguere il narcisismo sano da quello patologico, se non altro per il motivo che questa distinzione o la dialettica fra i due è uno di quei filoni di pensiero che stanno alla base della pratica e della teoria psicoanalitica; alla pari dell'opposizione (sempre rielaborata in termini dialettici) conscio-inconscio, oppure Eros-Thanatos oppure ancora Es-Io. La psicoanalisi decostruisce la psiche, la suddivide, la stratifica, rende ciò che appare semplice sempre più complesso, la intende all'insegna di un incessante movimento di forze in conflitto. Sta dunque proprio nella polisemia di ogni concetto lo sguardo più propriamente psicoanalitico, che abbraccia e differenzia dalla superficie alla profondità e viceversa. Non si capisce proprio dunque a cosa possa servire un'operazione di tipo riduzionistico. Se si viene alla prassi, il più banale esempio clinico subito lo dimostra. Una paziente si lamenta piangendo delle tante sconfitte e umiliazioni in quanto non sa sostenere il suo punto di vista e finisce per immedesimarsi così tanto nell'altro da dargli sempre ragione, contro sé stessa. Il fatto che sia così poco centrata su di sé, che sia così poco narcisista è forse un segno di salute? Per Carnevali che sostiene come il narcisismo sia tout court patologico, si direbbe di sì. Credo invece che tutti noi si pensi che la terapia debba aiutarla a rinforzare il suo narcisismo la cui mancanza la fa così soffrire. Temo che Carnevali incorra nel tragico errore di confondere il narcisismo con l'egoismo. Forse è meglio ricorrere ad un altro termine, l'autostima. La paziente manca di autostima e la terapia ha il compito di rinfrancarla (di portarla a considerarsi all'insegna di un investimento libidico che valorizzi il Sé, ossia di un sano narcisismo). Per quanto riguarda il contratto narcisistico non capisco l'obiezione. Padre e figlio strutturano la relazione all'insegna di aspettative reciproche e sono tenuti tutti e due a darsi una risposta positiva. Esiste un patto fra loro ed è narcisistico, sono chiamati a valorizzarsi a vicenda. È talmente evidente che non so fare altro che ribadirlo. Il padre è orgoglioso (una soddisfazione narcisistica) del successo di suo figlio e il figlio è orgoglioso di un padre che ha voluto e saputo impegnarsi utilmente per lui (una soddisfazione narcisistica). In caso contrario entrambi soffrono per una ferita narcisistica. Vengo criticato come formatore. L'analista o il formatore è tenuto “ad aprire una porta sul mondo”; punto e basta perché, se ho ben capito il discorso di Carnevali, se si va oltre si rischiano pericolose interferenze nei processi intenzionali dell'allievo o del paziente e “si controlla il suo futuro”. Ebbene, non voglio discutere e lo ammetto senz'altro, sono colpevole. Io, quando mi riferisco ad un paziente o ad un allievo, ho sempre in mente che quello è “il mio paziente” e che quello è “il mio allievo”. Mi preoccupo per loro, ci tengo che stiano bene e anche, peggio ancora, controllo che operino per il meglio e non insistano nei loro errori; non solo, pretendo pure che mi diano delle soddisfazioni e arrivo al punto di incavolarmi se questo non succede. La verità è che non mi riesce di non entrare in relazione e di non sentire delle richieste affettive da parte loro e di averne anch'io per loro. Voglio fare outing, andare fino in fondo nella confessione dei miei peccati. Io, quando sento la famosa frase di Bion, non posso mai fare a meno di completarla: che l'analista sia senza memoria e senza desiderio e… senza palle!