Quando nel primo numero del 2010 Simone Maschietto ha proposto alcune sue riflessioni sulla formazione (v. “Diventare psicoanalisti”: un nodo da sciogliere tra il lettino e la Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica) avrei avuto parecchie cose da dire a commento di questo scritto; non l'ho fatto perché auspicavo l'arrivo di contributi “esterni” sull'argomento, nella prospettiva di una rivista che apre un dibattito con i lettori, possibilmente di estrazione diversa da quella dei redattori. Visto che questo non è avvenuto, e che in questo numero compare uno scritto di Guido Medri, ancora sulla formazione (v. “Il contratto narcisistico”), che mi suscita idee che vorrei costruttivamente sottoporre agli autori e ai lettori, ho deciso di proporre un unico commento ai due scritti, nella prospettiva di mostrare (e mi sembra un fatto rilevante e stimolante) come tra i membri della redazione possano esserci ampie diversità di vedute, non solo, come si è già visto, in ambito clinico, ma anche relativamente a un argomento di base come la formazione, dove alla pratica, che dà il titolo alla nostra rivista, si associa anche un insieme di elementi teorici che ne rappresentano l'asse portante.
In primo luogo trovo che nel lavoro di Maschietto ci sia una mitizzazione dell'analisi che non mi sento di condividere. Già altrove ho espresso la mia idea che se l'analista vuole uscire dal suo studio e confrontarsi con il mondo, soprattutto se, come nel mio caso, lavora in ambito istituzionale e ha a che fare quotidianamente con altri psicologi e con psichiatri dagli orientamenti più diversi, non può (e secondo me non è proprio sensato che lo faccia) attribuire alla psicoanalisi prerogative assolute che le consentano di “leggere” a una sorta di livello superiore gli accadimenti che si danno intorno a lui. E questo vale sia per quanto riguarda il confronto tra operatori, sia anche per quanto riguarda il lavoro con i pazienti. Voglio dire che se anche l'analista non esce dal suo studio e non è interessato a confrontarsi con altri che lavorano in ambito “psi”, non può comunque pretendere di essere depositario di una verità assoluta, e non può pretendere di applicare i suoi criteri alla vita degli altri, anche e soprattutto se sono suoi pazienti.
Dice Maschietto, riportando la posizione di Freud sul fatto che “alla fine nello psichismo vince il 'bilancio energetico'”
...a livello inconscio l'analizzando sceglie la sua struttura psichica in base ai guadagni energetici che ritiene più utili. A questo punto però la palla passa allo psicoanalista che è dietro al lettino: quanto ha il coraggio di confrontare l'analizzando se la sua scelta è compatibile con il suo desiderio di analista?Già discutendo del caso clinico di Martino, (presentato da Maschietto nel numero unico 2009) ho proposto l'immagine di un analista molto meno prescrittivo di come Maschietto lo concepisce; là si trattava di valutare se il paziente fosse sufficientemente maturo per mettere al mondo un figlio, qui si tratta invece di valutare la qualità del desiderio del paziente candidato analista, e in entrambi i casi sembra che per fare una scelta avveduta rispetto alla paternità o alla professione sia necessario il “placet” dell'analista.
Una delle poche cose che ho estratto dal pensiero lacaniano (che per la maggior parte mi è alieno) è l'idea di “Soggetto supposto sapere”; non so se traduco esattamente il pensiero di Lacan sull'argomento, ma da questo concetto ho tratto la convinzione che nel relazionarsi a chiunque un atteggiamento sterile e poco favorevole alla relazione è quello di ritenere, rispetto a un interlocutore, di “saperne più di lui”, tanto più e soprattutto se l'oggetto dell'interesse condiviso è lui stesso.
La sterilità di questo atteggiamento ha per me una motivazione squisitamente analitica: il motivo fondamentale di richiesta di un'analisi affonda le sue radici nella storia personale di ciascun paziente, e nella prescrittività del suo mondo familiare, che lo ha collocato nel “desiderio dell'Altro” (mi rendo conto che forse sono più lacaniano di quanto pensavo poco fa); detto in termini a me più congeniali, mutuati dalla gruppoanalisi, il paziente vive nell'“immaginario” genitoriale, ed è pertanto frutto delle aspettative e delle prescrizioni che configurano tale immaginario; il modo in cui i suoi genitori lo hanno rappresentato è la gabbia dall'interno della quale cerca di fare delle scelte, che non possono che essere circoscritte a ciò che dentro a tale gabbia è stato rappresentato.
Ora, a mio avviso l'analista dave fondamentalmente aiutare il paziente ad aprire la porta di questa gabbia e a farsi un'idea del mondo un po' più ampia rispetto a quella che ha caratterizzato gli spazi in cui è stato rinchiuso: e per questo deve evitare di costruire una gabbia nuova, che, anche se secondo lui (analista) è più bella e più grande di quella di prima, e dunque può consentire al paziente di ampliare i propri orizzonti, non porta ad altro che a una nuova colonizzazione del suo (del paziente) spazio interno, che segna comunque in modo prescrittivo la sua (sempre del paziente) autonomia. Anche se oggi è un'espressione che va per la maggiore, credo che “mettere dei paletti” sia un'operazione efferata che non fa altro che ristrutturare (di poco) una situazione, dando alle persone coinvolte (nella fattispecie analista e paziente) l'illusione di percorrere spazi nuovi, rinforzando invece in modo conservativo il “già noto”. Mi azzardo a dire che questo discorso esprime un possibile significato della celebre affermazione di Bion relativa all'analista, che deve essere “senza memoria e senza desiderio”. Ho usato la parola “colonizzare” perché mi sembra apra una metafora calzante: se un territorio è stato colonizzato da una nazione che lo ha tiranneggiato e sfruttato, e poi passa sotto la giurisdizione di un'altra nazione che lo governa democraticamente, gli abitanti saranno grati alla seconda nazione, ne faranno propri i princìpi e magari riterranno di non sapersi mai governare da soli, abdicando all'indipendenza. Ci vorrebbe uno stato (e in politica questo non si dà mai, neanche da parte di quegli stati che non si configurano come colonizzatori ma come alleati) che ha veramente a cuore l'autonomia dell'altro, e che gli si affianca promuovendo un movimento “dall'interno” che porti in tempi brevi all'autogoverno.
Non sto a riprendere punto per punto il testo di Maschietto, perché è evidente che l'impostazione di tutto il suo lavoro è all'insegna di questa pretesa di sapere meglio dell'altro cosa è opportuno che lui faccia, producendo a mio avviso, nel candidato analista o nell'allievo della scuola, o una situazione di sudditanza o una “ribellione” sterile, perché è chiaro che gli strumenti che il candidato o l'allievo hanno sono di gran lunga inferiori rispetto a quelli dell'analista, e dunque quest'ultimo ha buon gioco nel proporre dei giudizi, anche solo dentro di sé senza manifestarli, ai quali il candidato non saprebbe, o non sa, replicare. L'asimmetria della situazione, che è indubitabile, non è a mio avviso da giocare in termini di potere, arrogandosi il diritto di stabilire se l'analista alle prime armi o in formazione ha fatto una buona analisi secondo il nostro criterio, ma va invece spesa a favore del candidato per permettergli di farsi un'idea sua propria di come ritiene di voler impostare il lavoro che farà o che ha iniziato a fare.
Dissento fortemente dall'idea che sia nostro compito individuare gli eventuali “scotomi” (come dice Maschietto) presenti nel percorso analitico della persona che valutiamo, e mi limito a ricordare l'evangelico discorso della pagliuzza e della trave, al quale sarebbe sempre meglio non esporsi.
Rispetto al discorso di Medri, voglio partire da questa sua considerazione:
E dire che non è certo colpa nostra se la situazione di mercato è difficile, che gli allievi lo sapevano benissimo già prima di incominciare e che anzi noi li avevamo avvertiti. Al punto che è ormai mia abitudine nei colloqui di selezione sconsigliare addirittura di impegnarsi in un'attività tanto faticosa e tanto poco remunerativa!Se la posizione di Maschietto può essere tradotta in termini relazionali in una vigilanza del genitore sul figlio per valutare se è in grado di affrontare la realtà con mezzi adeguati, questo discorso di Medri configura invece una situazione dove il genitore vuole cautelarsi da eventuali rimostranze o rimproveri da parte dei figli per averli “messi al mondo”, e lo fa da un lato discolpandosi (“non è certo colpa nostra...) dall'altro dando il consiglio più prudente e conservativo (“sconsigliare addirittura di impegnarsi in un'attività tanto faticosa e tanto poco remunerativa!); come dire: se fallisci, posso sempre dire : “Te l'avevo detto!”
Il discorso che segue in merito al narcisismo ha dato luogo a una revisione critica
da parte dell’autore, contenuta in “Postilla
a ‘Narcisismo sano?’ e ad ‘Amae nella clinica’”, Pratica Psicoterapeutica n. 11 - 2/2014.
Il discorso di Medri non è del tutto sovrapponibile a quello di Maschietto, ma secondo me ne condivide la pre-occupazione genitoriale di valutare il presente e anticipare il futuro, per rendere il rapporto del figlio con il mondo il più possibile “tenuto sotto controllo”. E qui si apre il secondo argomento che voglio trattare rispetto allo scritto di Medri: l'idea di “Contratto narcisistico”. È vero che ormai da parecchio tempo è in auge in ambito psicoanalitico il concetto di “narcisismo sano”, ma devo dire che personalmente quest'idea non mi ha mai convinto. Se risaliamo al mito di Narciso, sfido chiunque a trovare qualcosa di sano nell'innamorarsi della propria immagine fino a morirne. Non amo molto usare il termine “patologia”, ma se c'è qualcosa a cui sento di attribuire questa caratteristica è proprio il narcisismo (e dunque dissento da Kernberg, che ha intitolato un suo libro “Sindromi marginali e narcisismo patologico”, sottintendendo che se c'è un narcisismo patologico deve esserci anche un narcisismo sano; io ritengo che il narcisismo sia patologico in quanto tale, e dunque è sufficiente dire narcisismo, senza aggettivi). Non è solo una questione terminologica: considerare “sana” una certa modalità, o addirittura una certa dose, di narcisismo, significa partire dal presupposto (molto berlusconiano) che il movente dell'agire di ciascuno sia l'interesse individuale del singolo, e che ogni manifestazione di socialità sia una forzatura che richiede comunque una motivazione relativa per l'appunto all'interesse del singolo per essere posta in essere. È, in fondo, il discorso di Freud nel “disagio della civiltà”, e Maschietto quando dice che “l'analizzando sceglie la sua struttura psichica in base ai guadagni energetici che ritiene più utili” fa riferimento al Freud più pessimista ed “energetico”, che poco ha a che fare con gli sviluppi della psicoanalisi in termini relazionali (o anche intersoggettivi).
Fatta questa breve digressione teorica, voglio sottolineare che l'idea di un contratto narcisistico fra allievi e maestri analitici mi sembra rientrare nella prospettiva di cui ho fin qui parlato, e cioè quella di un'analista (anche nei panni del formatore) che deve cercare di valorizzare l'individuo e dargli i mezzi per combattere nella jungla del mondo, mantenendo il controllo dell'allievo (un modo per chiamare la supervisione è per l'appunto “controllo”) e immettendolo nella cerchia dei “Soggetti supposti sapere”, e facendogli avere fin da subito qualche “gratificazione narcisistica”, che lo sostenga nella dura lotta per la sopravvivenza del terapeuta.
A questa visione contrappongo quella di un analista, e di un formatore all'analisi e alla psicoterapia, che apre una porta sul mondo, dando fiducia alle risorse del paziente candidato e cercando di agevolarne lo sviluppo, in un processo il più possibile personale e in sintonia con il mondo circostante, mondo che ci offrirà qualcosa, poco o tanto che sia a seconda del momento storico, solo se sapremo rischiare di metterci in gioco, aprendoci alle relazioni e riconoscendo, col massimo della fiducia possibile, le risorse proprie e dell'altro. E in questo il primo esempio deve venire proprio da chi fa il nostro mestiere.