Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 3
2 - 2010 mese di Dicembre
FORMAZIONE
PENSIERI E SENTIMENTI. RIPENSANDO LA MIA ESPERIENZA FORMATIVA ALL'SPP
di Tania Ragazzi

Questo breve articolo vorrebbe avere un duplice intento. Da un lato, esprimere una riflessione personale sul proprio percorso formativo professionale. Dall'altro lato, potrebbe supportare gli allievi di una scuola di terapia psicoanalitica, che in questo scritto potrebbero identificarsi, ma anche, contemporaneamente, esprimere la mia posizione costruttivamente critica rispetto alla formazione alla SPP.
L'articolo del Dott. Medri: La formazione nell'SPP, ha suscitato in me una serie di riflessioni e di emozioni corrispondenti. Sicuramente il contesto istituzionale è limitante, ma anche molto rassicurante, soprattutto, forse, per giovani allievi con «sfumature depressive», citando le parole dell'autore. È pur vero però, che in passato, essendo il training libero da vincoli istituzionali sembrava, per lo meno nella mia immaginazione, maggiormente vivo, emozionale, passionale, addirittura più genuino.
Sono già passati 5 anni dal termine della mia formazione alla SPP. Ricordo con emozione il giorno in cui ho discusso la tesi di specializzazione con il Dott. Elia, mio relatore, e con la Dott.ssa Saviotti. Quel giorno ebbi la sensazione di aver completato un ciclo e di aver raggiunto un altro obiettivo della mia vita: il titolo di psicoterapeuta, desiderato, sognato, ambito, sudato, idealizzato! L'idealizzazione verso questa professione, ovviamente, ha in me antiche radici consce ed inconsce. Ho senz'altro idealizzato la Scuola e i docenti. I primi tre colloqui di selezione per accedere alla Scuola li ho vissuti realmente come momenti selettivi e giudicanti, tanto da verbalizzare, ricordo, al Dott. Cantoni, alla Dott.ssa Fabbrichesi e al Dott. Medri un senso di inadeguatezza alla professione per il mio passato adolescenziale piuttosto burrascoso e carico di sofferenza. Tale preoccupazione esprimeva, direi, un mio intimo vissuto di svalorizzazione. Ricordo le loro risposte: il caldo sorriso della Dott.ssa Fabbrichesi e, da parte del Dott. Cantoni, la proposta di gustarci insieme una sigaretta. Quest'ultimo, in particolare, mi aveva profondamente colpito ed accresciuto in me l'idealizzazione nei confronti della figura dello psicoanalista. In pochi minuti aveva colto in me un aspetto intimo che io stessa, dopo due anni di analisi, faticavo ancora a riconoscere: “lei ha dentro molta aggressività!” Pensai: “Che mago!”
Ricordo che, soprattutto durante i primi due anni di corso, ambivo ad apprendere i “segreti” del mestiere, che, a mio parere, mi avrebbero fatta diventare una “brava” psicoterapeuta. Pertanto vivevo i singoli docenti come i portatori di una sorta di verità assoluta rispetto, ad esempio, la conduzione di un caso, la sua “lettura”, l'interpretazione data al paziente, ecc. Pian piano iniziò a farsi strada in me una grande confusione che andava di pari passo con l'osservare ed ascoltare in modo maggiormente realistico gli insegnamenti clinici che ricevevo, comprendendo che il mestiere dell'analista è in grande misura costituito dalla soggettività della persona seduta sulla poltrona, che non esiste un'unica strada e che questa potrebbe avere la stessa validità di un'altra. Col tempo compresi che l'incontro psicoterapeutico è un momento creativo dove non esistono strade ed interpretazioni prestabilite o assolute, perché altrimenti sbagliate.
Ogni docente ha suscitato in me risposte emotive, dalla simpatia all'antipatia, dall'insofferenza all'indifferenza, dalla tenerezza all'aggressività. È curioso come la scelta di ogni maestro-supervisore fosse probabilmente guidata da una sorta di attrazione inconscia che, sicuramente, voleva soddisfare il bisogno di ricevere sostegno e amorevolezza. Docenti che ho avuto la possibilità di stimare, docenti della “vecchia guardia” che hanno saputo darmi tanto professionalmente ed umanamente. In particolare, ricordo come il Dott. Elia sia stato per me di grande sostegno alla iniziale pratica psicoterapeutica. Ricordo che le supervisioni con la Dott.ssa Saviotti mi infondevano coraggio e vivevo ogni suo riferimento personale o professionale come “regalo” di grande valore. Sicuramente, entrambi questi maestri hanno colto e toccato il mio mondo più intimo.
Ricordo ancora, con una punta di nostalgia, il primo anno di corso dove la Dott.ssa Saviotti si occupava di darci un metodo riguardo ai primi colloqui. La Dott.ssa Fabbrichesi si occupava di trasmettere al nostro gruppo quel sapere teorico psicoanalitico senza il quale si sarebbe costruita una casa senza fondamenta: era piacevole e, credo, anche rassicurante poter leggere e studiare insieme alcuni importanti saggi di Freud, lavoro che ci avrebbe dovuto tenere impegnati i primi due anni di specializzazione. Ricordo che la dott.ssa Fabbrichesi mi suscitava molta tenerezza, ma anche tanta forza. Ad ogni seminario portava il proprio cuscino, che posizionava accuratamente sulla sedia, e beveva il thé, con una modalità quasi aristocratica che mi trasmetteva tanta dolcezza.
Purtroppo, al termine del primo anno la Dott.ssa Fabbrichesi comunica che andrà in pensione e…addio progetto di studiare Freud e di poter discutere e, anche, chiarire in gruppo le sue teorizzazioni, laddove necessario. Durante gli anni che seguirono ho avuto l'impressione che di Freud si persero un po' le tracce. È vero che, come fece una mia diligente collega di gruppo, avrei potuto pian pianino studiarmi tutti i saggi di maggiore interesse, ma non è la stessa cosa che vivere quella trasmissione del sapere e la passione corrispondente come la Dott.ssa Fabbrichesi mi aveva abituata! Sicuramente, durante i successivi anni di corso altri docenti hanno trattato i concetti teorici e tecnici psicoanalitici, ma credo senza quella metodicità che la Dott.ssa Fabbrichesi mi aveva abituata. Forse i docenti avevano dato per scontata una conoscenza che per me non lo era sicuramente: io avevo scelto una scuola che insegna la psicoanalisi ed avevo il desiderio di apprenderla! La perdita della Dott.ssa Fabbrichesi, come docente all'interno della scuola, ha coinciso a mio parere, con la perdita dell'insegnamento delle teorie di base psicoanalitiche senza le quali appare, a volte, arduo il compito di comprendere i passaggi teorici successivi. Tanto che la mia sensazione al termine dei 4 anni, ed anche la mia frustrazione, era di aver fatto una scuola di psicoterapia psicoanalitica senza avere, a mio parere, sufficientemente trattato i grandi maestri della psicoanalisi, dando troppo spazio a nuove teorizzazioni e alle inclinazioni delle mode del periodo. La mia non vuole ovviamente essere una critica ad importanti autori moderni, non ho la pretesa e nemmeno lo spessore per permettermi una tale posizione, la mia frustrazione al termine della scuola è stata di non aver studiato abbastanza gli autori che hanno costituito la base del sapere dei miei stessi maestri, grazie ai quali, secondo me, sarebbe poi possibile discostarsi o ampliare le proprie conoscenze.
Sia durante i seminari teorici, sia durante quelli tecnici Freud è stato menzionato, ma sempre di “seconda mano” e col tempo gli interessi della scuola sembravano volgere verso altre teorizzazioni, come ad esempio vi era stata una grossa attenzione da parte di una “giovane” docente verso Wilma Bucci e le neuroscienze. Ricordo che ad uno di questi seminari c'era stata una discussione piuttosto sentita e appassionata rispetto al ritorno ai vecchi insegnamenti, o per lo meno allo studio dell'evoluzione del concetto di complesso di Edipo nella psicoanalisi contemporanea. Personalmente trovo affascinanti le teorizzazioni neuroscientifiche, ma lontane dal mio interesse clinico e di comprensione psicodinamica e psicopatologica dell'essere umano.
Molte ragioni mi hanno portato a scegliere la SPP. Il mio desiderio di divenire psicoterapeuta con uno specifico orientamento teorico, ma anche l'aver studiato all'Università di Padova uno dei testi di Benedetti che mi aveva profondamente colpito: “La psicoterapia come sfida esistenziale”. Cremerius e Benedetti mi hanno sempre resa orgogliosa di nominare la mia Scuola, perché appunto presieduta da due grandi maestri.
Nel corso dei miei 4 anni di formazione molte cose sono cambiate all'interno della SPP. Non credo di aver ben “digerito” le variazioni nelle prospettiva teorica che sono avvenute nel corso degli anni con l'ingresso di docenti “giovani” ed aggressivi, ex-analizandi dei “vecchi” docenti. Si poteva già allora intuire, comunque, che dietro il palcoscenico si stava modificando la dinamica dei ruoli, anche gerarchici. In particolare, a mio parere, risultava evidente la “sete di potere” di alcuni ed il desiderio di rivalsa verso i membri più anziani. Mi sembrava che col tempo alcune cose buone fossero andate perdute, o venissero deliberatamente abbandonate. Mi sono chiesta più volte: in nome di cosa? Cremerius sperava che anche lo psicoanalista, o psicoterapeuta psicoanalitico, potesse sentirsi sufficientemente individuato e libero da imposizioni dovute ad una sorta di filiazione.
Purtroppo, forse, ho una visione troppo romantica e fantasiosa di come riterrei opportuna la formazione psicoanalitica. Questa mia fantasia corrisponde, in una certa misura, ai racconti del Dott. Medri, della Dott.ssa Saviotti, del Dott. Elia circa i seminari liberi che avvenivano alle origini della costituzione della Scuola con Cremerius e Benedetti, e con altri maestri internazionali, dove l'obiettivo primario era lo scambio, la comprensione, l'arricchimento reciproco costituito dalle differenze di ogni singolo partecipante. Era un periodo in cui le persone si radunavano spontaneamente intorno ad un tavolo, senza “l'obbligo” istituzionale di dover conseguire un titolo professionale, ma spinte semplicemente dalla passione di essere psicoterapeuti e di imparare a lavorare clinicamente migliorando la propria professionalità. Quando capitava che questi docenti raccontassero la propria esperienza formativa mi trasmettevano la loro passione, i loro conflitti, il loro desiderio di comprendere la complessità dell'essere umano e del suo funzionamento psicopatologico.
Sono passati 5 anni ed il mio percorso maturativo e formativo è proseguito. Se mi volto indietro guardo con nostalgia al mio vecchio gruppo di colleghi del quale, sono felice, conservo una foto scattata al seminario residenziale di Intra (VB). Il Dott. Medri, nel suo articolo, si domanda: «meglio prima o adesso?». È un dato di realtà considerare che la situazione sociale e psicopatologica dei pazienti e, mi azzardo a dire, degli psicoterapeuti è cambiata. Mi rispecchio nelle parole del Dott. Medri circa i cambiamenti di setting e di approccio generale al paziente di oggi, pertanto da un lato trovo che la scuola in quanto istituzione possa essere un contenitore rassicurante, ma nel contempo imbrigliante rispetto ad una propria potenzialità creativa, che credo possa esprimersi genuinamente solo al termine dei 4 anni di formazione, quando si dismettono i panni istituzionalizzati dell'allievo.

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