Oltre due milioni di persone oggi in Italia sono in cerca di lavoro. Il tasso di disoccupazione è anche maggiore per quanto riguarda le donne, mentre fra i giovani al di sotto dei 27 anni ormai uno su quattro è senza lavoro. Quelli che espatriano sono all'ordine del giorno, vanno in Cina, in Europa, negli Stati Uniti, ovunque; basta andarsene via.
Il patto sociale che ci lega alle nuove leve, quello per cui loro prenderanno il nostro posto, è sempre più in discussione. Farò qualche considerazione al proposito per quanto riguarda la SPP. I giovani che vi accedono si sottopongono ad un lungo training della durata di ben 4 anni con l'aspettativa ovvia di poter poi esercitare la professione. Accade però che vengano sempre più a mancare i pazienti. Per le più varie ragioni: la psicofarmacologia, la presenza di un numero eccessivo di operatori, i tanti indirizzi psicoterapeutici che promettono guarigioni a breve termine ecc. Non mi dilungo sui motivi che meritano peraltro un amplissimo spazio di discussione. Il risultato è che è sempre più difficile contare sulle capacità e la competenza per avere lavoro; esattamente come succede per tante professioni nel mondo di oggi.
In un precedente articolo ho sottolineato quanto la formazione degli allievi differisca dalla mia. Due diversi percorsi. Io all'inizio del training ero un medico già specializzato, avevo una certa età, avevo già un lavoro come medico ospedaliero, avevo già quasi terminato l'analisi personale, sono andato a cercarmi i formatori ecc.; mentre gli allievi della SPP sono psicologi, sono in gran parte giovanissimi, intendono l'attività psicoterapeutica come il solo loro lavoro, in gran parte hanno appena incominciato l'analisi, hanno addirittura trovato i formatori già in forma istituzionalizzata ecc. Molto diverse sono poi le modalità dell'intervento terapeutico. Gran parte dei pazienti sono molto gravi e sono seguiti in ambito istituzionale con un mandato e in condizioni che hanno ben poco a che fare con un intervento mirato. Si lavora a una seduta alla settimana, mentre per me era quasi imperativo lavorare a tre ecc. Anche qui non mi soffermo. Ne consegue una difficoltà nel supervisore la cui naturale tendenza è quella di riportare il contesto della formazione all'indietro e di vedersi contemporaneamente nei panni dell'allievo per quello che lui stesso è stato e in quelli del maestro per come lo si è avuto. È evidente l'utilità di questa trasposizione che assicura un solido quadro di insieme come punto di riferimento, mentre permette di cogliere le sfumature che la novità della situazione presente comporta. Sostanzialmente si tratta di capire le difficoltà dell'allievo in relazione alle esigenze di una didattica che vuole egli rispetti le fondamentali regole di tecnica e il modo migliore è quello di ripercorrerle dentro di sé riallacciandosi alla propria esperienza.
D'altra parte noi stessi stiamo cambiando nel lavoro con i pazienti, e ci stiamo adattando a cambiamenti del setting che prima sarebbero stati considerati come violazioni inconcepibili. Il tempo passa, e se le condizioni di adesso sono così diverse da quelle passate non resta che adeguarsi. Si tratta di elaborare i contenuti di sempre (l'inconscio non può cambiare) situandoli in un nuovo contenitore ed è possibile trovare altre strade o inventarci scenari diversi e scoprire nuove opportunità. Comunque si può fare, sia nella pratica clinica che in quella della formazione e infatti per quanto riguarda quest'ultima lo stiamo facendo ormai da più di un decennio, e anche con una certa soddisfazione. In altri termini, sono evidenti i cambiamenti rispetto al passato, ma il filo che ci collega ad esso non si è spezzato. La domanda che io mi pongo è se possiamo dire la stessa cosa riguardo al drastico mutare in senso peggiorativo delle opportunità di lavoro o, per lo meno, fino a che punto la supervisione ne è condizionata.
Secondo Kaës la crisi dei garanti metasociali si trasmette ai garanti metapsichici. Questa considerazione è della più assoluta importanza per quanto riguarda la clinica ed il mutare dell'espressività psicopatologica, ma riguarda anche la formazione. I garanti metasociali indicano “le grandi strutture di inquadramento e di regolazione della vita sociale e culturale”; i garanti metapsichici “consistono nelle interdizioni fondamentali e nei contratti intersoggettivi che contengono i principi organizzatori della strutturazione dello psichismo”. Il contratto narcisistico è uno di loro. Secondo questo concetto ogni neonato “viene al mondo con la missione di assicurare la continuità della generazione”. Il genitore assicura l'eredità ai figli; loro la aspettano da lui e lui si rivolge a loro con l'aspettativa che essi sappiano meritarla. Richiamandomi alla mia esperienza quando mi rivolgevo ai miei maestri (i miei genitori psicoanalitici) era per fare in futuro quello che facevano loro. Ciò che mi mancava non erano certo il lavoro, ma le competenze necessarie per farlo ed essi erano tenuti per l'appunto a fornirmele. Questa trasmissione di sapere mi avrebbe permesso di lavorare; nell'atto di insegnarmi quindi il supervisore era come se mi mandasse i pazienti. Di questo non si parlava, era scontato, stava nei fatti. I garanti sono opachi,osserva Kaës, e si svelano solo se vengono a mancare. Adesso vengono sempre più alla luce i contorni di questo patto, il contratto narcisistico, per il quale si diveniva figli legittimi della famiglia psicoanalitica attraverso l'acquisizione del sapere psicoanalitico e ci rendiamo conto del legame di fiducia, direi quasi di consanguineità, che si veniva creando con i nostri maestri; se ora lo vediamo, ne siamo sempre più avvertiti, non può che essere perché per l'appunto, a causa delle difficoltà di uno sbocco professionale soddisfacente, esso è in crisi.
Dobbiamo aggiungere la considerazione che la supervisione non nasce semplicemente in relazione ad un bisogno cui si dà risposta, ma è parte di un momento istituzionale (è la SPP che lo chiede); e che anche se non viene dichiarato esplicitamente è inevitabile che nel momento in cui l'allievo si rivolge ad un'istituzione come la nostra egli ci chieda un aiuto concreto per il futuro e che noi ci si preoccupi per lui, per le sue prospettive di lavoro. Dunque la contraddizione si fa ancora più stridente e la differenza rispetto al passato ancora più marcata e palese. (Possiamo affermare che la Scuola è tenuta a dare una formazione e con essa il diploma e niente di più. E dire che non è certo colpa nostra se la situazione di mercato è difficile, che gli allievi lo sapevano benissimo già prima di incominciare e che anzi noi li avevamo avvertiti. Al punto che è ormai mia abitudine nei colloqui di selezione sconsigliare addirittura di impegnarsi in un'attività tanto faticosa e tanto poco remunerativa! E avremmo senz'altro ragione. Non si tratta però di trovare delle giustificazioni, ma di non schermirci e di prendere atto del problema e di come si faccia sentire nel corso della formazione. Come la Scuola si muova o dovrebbe muoversi si può discutere altrove.)
Dunque, competenza e lavoro non è detto che vadano insieme, a differenza di prima. Se la prima è indispensabile non è tuttavia sufficiente a che possa tradursi nella pratica clinica. È come se a qualcuno si guastasse una gamba delle due che usa e dovesse aiutarsi con una stampella.
In un gruppo mi veniva detto che noi eravamo stati fortunati ad avere formatori come Benedetti e Cremerius, tanto bravi e prestigiosi! Rispondevo, piuttosto piccato, che io, il loro maestro di adesso, non mi sentivo inferiore, ai miei predecessori: erano loro che non sapevano valorizzarmi. L'episodio mi pare significativo. Gli allievi avvertivano in me una sensazione di valore e di sicurezza che io avrei avuto come lascito dai miei maestri e che loro non riescono a fare propria; mentre io ero dispiaciuto e anche offeso di non rappresentare una figura fonte di autostima e ribaltavo su di loro il mio disappunto. Abbiamo tutti ragione. Io sono anche meglio dei miei insegnanti perché mi ergo sulle loro spalle: mi viene da sorridere, a distanza di tempo, se penso ad alcune rigidità di Cremerius o all'ingenua fiducia di Benedetti nella psicoterapia degli psicotici. E gli allievi avvertono che io e miei maestri abitavamo uno spazio che ci accomunava e a cui loro non possono più accedere. È inutile che ci accapigliamo; non siamo noi sbagliati, sono le condizioni esterne a noi che sono cambiate. Questo bisticcio di cui siamo attori inconsapevoli si riflette nella supervisione, anche se può sembrare che, mutatis mutandis, essa si svolga come prima: è cambiato il contesto affettivo nel quale si svolge.
Ad esempio sappiamo che per crescere è indispensabile l'esperienza e che si impara lavorando, confrontandosi con i pazienti e che quanti più sono meglio è. Un consiglio del genere, una volta dovuto, oggi equivarrebbe ad una presa in giro. Lo stesso vale per le prese in carico: diventa difficile asserire che alcuni pazienti vanno rifiutati a priori per non incorrere in inevitabili delusioni, quando non ce ne sono altri che li rimpiazzano. Questa sorta di reticenza si riscontra soprattutto nel commentare tanti errori di tecnica che,come sappiamo, spesso rimandano a difficoltà personali : si mostrano, questo sì, ma poi ci si ripara dietro la buona intenzione perché non si può pretendere troppo. Ricordo Cremerius rivolgersi a uno di noi invitandolo a tornare in analisi; e a un altro suggerendogli che era il caso di riflettere se non aveva sbagliato mestiere: perché per mangiare ad un piatto tanto ricco bisognava mostrare di meritarselo! Questo accadeva circa 40 anni fa. Interventi del genere oggi suonerebbero semplicemente bizzarri: è già tanto che uno non si scoraggi e tenga duro. Insomma da un lato ammiriamo l'allievo per l'entusiasmo e la dedizione con cui si impegna in condizioni e con pazienti spesso tanto ingrati; dall'altro ci sembra di pretendere al di là del dovuto se ci rivolgiamo a lui con l'aspettativa che lavori al meglio. Con il rischio di un paternalismo di bassa lega che nasconde un giudizio svalutante. Da parte sua l'allievo oscilla fra sentimenti di invidia perché noi siamo professionalmente affermati, cosa che a lui sembra un traguardo impossibile, e di svalutazione, in quanto avverte la nostra impotenza nell'aiutarlo nella carriera. Cosa altro possono voler dire le tante lamentele che ci sentiamo rivolgere perché mancano i pazienti, se non una domanda di aiuto e contemporaneamente un rimprovero perché esso non viene loro offerto? Ne consegue che la supervisione, già di per sé spesso frustrante, si svolge in un clima di insoddisfazione: non sono chiari il livello e la natura delle reciproche aspettaative, l'allievo non ha abbastanza pazienti, il fatto di averne così pochi comporta che egli lavori male, noi siamo fatti oggetto di una domanda di aiuto a cui non sappiamo rispondere e diveniamo insicuri rispetto ai parametri della tecnica “giusta”, che appaiono sempre più anacronistici.
Non è affatto male che si ridimensioni la figura del formatore riportandola alla sua reale statura; o che si riporti sulla terra la psicoanalisi. Ma è ben vero che in questo lavoro bisogna crederci sempre e comunque anche al di là dell'evidenza, altrimenti lo scetticismo del paziente avrà sempre la meglio! È allora negativo per la formazione che non si strutturi un investimento idealizzante: un maestro poco considerato lascerà un'eredità svalutata ed essa sarà poco desiderata e quindi non si lotterà per meritarla; e infine non arriverà a costituirsi come quel tesoro che fornisce il rifornimento narcisistico indispensabile.
Tornando alla domanda iniziale, a me sembra che sia cambiata la struttura della relazione maestro-allievo e che la discontinuità con il passato si faccia troppo evidente e diventi uno strappo, una cesura.
Abbiamo a che fare con un dato bruto, concreto, che fa da cornice e ci condiziona dall'esterno. Lo ripeto, manca il lavoro. Esistono certamente altre difficoltà, dagli attacchi che i media portano continuamente alla nostra pratica clinica, al mutato clima culturale, ai disagi al nostro interno a causa dalle continue revisioni dei nostri assetti teorici e via dicendo, ma di esse si discute ampiamente e ormai da decenni; mentre di questa, in assoluto la più importante, nessuno dice nulla. Eppure la crisi del contratto narcisistico è il motivo della crisi del percorso formativo e delle istituzioni deputate a fornirlo. Al di là della nostra, dell'IPA stessa! Sembra di assistere ad un esteso fenomeno di rimozione; bisogna invece parlarne, così che si creino i presupposti per discuterlo ed elaborarlo; così da individuare possibili soluzioni.