Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 3
2 - 2010 mese di Dicembre
FORMAZIONE
IL MIO LAVORO CON GAETANO BENEDETTI
di Guido Medri

(Questo scritto riporta la relazione presentata il 26 giugno 2010 alla Casa della Cultura di Milano in occasione della presentazione del libro Una vita accanto alla sofferenza mentale: la ricerca di Gaetano Benedetti, a cura di Claudia Bartocci, FrancoAngeli, Milano, 2010)

Il tempo è poco e mi limiterò a ricordare alcuni fra gli scambi che ho avuto con il professore a proposito di un paziente che più mi sono rimasti impressi nella memoria.
Penso che sia interessante una testimonianza che illustri come Benedetti lavorava nell'ambito classico della supervisione a due, mentre mi sembra superfluo parlare di come lui si ponesse nel gruppo di supervisione di casi clinici poiché ne abbiamo già ampie descrizioni nel libro che credo ormai tutti abbiamo a disposizione.
Ero proprio agli inizi della professione ed era il primo caso che gli portavo. Il paziente ha quindi fatto da tramite fra noi due. Inoltre era piuttosto grave ed io ero molto coinvolto, molto insicuro e chiedevo con forza un aiuto che chiamava il professore ad un'intensa partecipazione. Per tutto questo è diventato il nostro paziente speciale. Per me lo era sicuramente, ma anche Benedetti era molto interessato. Spesso mi chiedeva all'inizio: come sta il nostro paziente?
Potrei toccare altri temi visto che ho lavorato con lui per oltre 20 anni ; ma lo spazio che ci è concesso è limitato come già dicevo. D'altro canto anche nel libro commento gli scritti sull'isteria e null'altro, anche se con Benedetti ho lavorato soprattutto nel campo della psicoterapia della psicosi. Ho collaborato alla scrittura di un libro sull'argomento e ho partecipato attivamente a numerosi congressi internazionali.
Veniamo al paziente La supervisione aveva cadenza mensile. Era un giovane di 25 anni grande e grosso, ma fragile come un bambino. Veniva perché prima del sonno aveva avuto delle allucinazioni visive che lo avevano terrorizzato. Era in preda ad una crisi acuta di depersonalizzazione: si guardava continuamente allo specchio per ritrovare la sua immagine, aveva riempito di fogli le pareti della sua stanza con scritto il suo nome per non dimenticarsene, non sapeva chi guidasse mentre veniva da me e, questa era la cosa più preoccupante, era stato sul punto di gettarsi dalla finestra perché tanto non era lui a morire.
Percepivo subito che il paziente mi domandava chi fosse e poiché ero uno psichiatra mi poneva un quesito terribile, chiedeva se stesse diventando pazzo. Il paziente si affidava totalmente non tanto affinché decidessi io, ma piuttosto nel senso che si sarebbe ritrovato nella rappresentazione che mi facevo di lui.
Questo poneva immediatamente un grande problema di conduzione: se lo avessi trattato come uno psicotico, come per altro l'evidenza clinica suggeriva, lo avrei confermato come tale. Ciò appariva subito evidente quando accennavo all'opportunità di assumere dei farmaci. La risposta allarmatissima era “ma allora sono così grave?” Decidevo quindi di sdrammatizzare la situazione e lo invitavo semplicemente a incontrarci con una certa frequenza per discutere di quello che stava succedendo. Il paziente tornava a confermare la mia intuizione. Si calmava, appariva rassicurato e aderiva senz'altro alla mia proposta. Incominciavamo così una psicoterapia intensiva. In seduta ero assolutamente tranquillo : mi sembrava di essere perfettamente in grado di gestire la situazione, che si fosse da subito creata un'ottima alleanza di lavoro e che si lavorasse con profitto. Il paziente aveva un legame simbiotico con la madre la quale addirittura era solita raccontargli la mattina un suo sogno che poi gli avrebbe fatto da guida nel corso dell'intera giornata. La crisi era occorsa sull'onda di una spinta verso l'autonomia, subito dopo la laurea e l'essere uscito per la prima volta con una ragazza come peraltro aveva sempre desiderato di fare.
Dopo la seduta però mi ritrovavo ad essere tremendamente apprensivo. E se fosse successo qualcosa di grave? Ero sollevato quando il paziente mi telefonava anche se gli avevo chiesto di farlo raramente e a una certa ora, quando veniva in seduta anche se mi ero opposto alla sua richiesta che ci si vedesse tutti i giorni. Insomma mi rassicurava il fatto di constatare che era ancora vivo. Era questa la problematica controtransferale che ponevo a Benedetti. Il professore si diceva molto colpito dall'intensità della nostra relazione, dall'incrociarsi dei nostri sguardi “come se ci cercassimo a vicenda”. A suo parere il paziente mi trasmetteva le sue ansie di frammentazione. Io le facevo mie e gli restituivo un'immagine integrata. Trasformavo il caos, una condizione di annichilimento, la negatività in senso vitale e positivo. Uscivo dalle supervisioni decisamente gratificato, molto sollevato. Ma subito dopo ritornava il dubbio. Altro che i farmaci, sarebbe stato meglio un ricovero; mi fidavo troppo di me stesso, mancavo di realismo clinico, stavo diventando paranoico sulla pelle del paziente e l'avrei pagata cara.
Insomma, rifacendomi alle concettualizzazioni di Racker oscillavo fra identificazioni complementari e identificazioni concordanti. Ero con il paziente nella sua ricerca di autonomia e di una giusta distanza e appoggio che gli permettesse di crescere e sentirsi più adulto e alternativamente ero catturato da un oggetto interno proiettato, la madre apprensiva che doveva curare fra virgolette, ossia infantilizzare il figlio. Si verificava nel giro di qualche tempo una relazione a tre in un vortice di identificazioni proiettive ed introiettive. Io facevo fede al paziente della sua salute e il professore una volta al mese della mia, In altri termini si faceva carico a sua volta delle ansie che il paziente mi aveva trasmesso e che non riuscivo ad elaborare da solo ; mi faceva da terapeuta.
Arrivavo a chiedere un controllo supplementare e andavo da lui fino a Basilea. Il paziente doveva andare sotto le armi e voleva farlo e io sapevo di doverlo appoggiare. Ma era divorato dall'ansia, arrivava a sdraiarsi per terra davanti a me dicendomi “Medri, sto andando,... sto andando”. Bastava un mio certificato e si sarebbe potuto rimandare. Ma Benedetti tornava a rassicurarmi e confermava il mio parere che non si correva il pericolo di uno scompenso psicotico (perché quello malgrado la mia apprensione era quello ch pensavo) e così il paziente partiva. Mi avrebbe poi scritto e telefonato ogni giorno, ma tutto è andato bene.
Credo che già da questi brevi cenni si possa intuire il rapporto di stima e anche di affetto che subito si è instaurato con Benedetti. Mi potevo fidare, mi capiva, mi avrebbe insegnato e fatto crescere.
A distanza di tempo piuttosto, ora che ho fatto tante supervisioni e so bene quanto siano impegnative, rivolgendomi a lui adesso non più da allievo,ma da collega, non posso che complimentarmi con il professore per la responsabilità che si era assunto anche al posto mio e il grande acume nel considerare la capacità di tenuta della relazione fra me e il paziente
La supervisione del paziente si era interrotta, ma riprendeva al ritorno dal militare. Racconto ora due sogni di parecchio tempo dopo che il paziente mi portava in rapida successione. Nel primo era su una barca con i genitori, manovrava un verricello che gli scappava di mano e cadeva sulla testa del papà sfracellandola. Nel secondo incontrava l'amico d'infanzia su una spiaggia e si abbracciavano. Davamo ben nove interpretazioni dei due sogni, a partire da altrettanti punti di vista, i vari aspetti della conflittualità edipica, il narcisismo, le difese, il transfert, un'indagine che rammento ancora per quanto mi avesse procurato un vero piacere intellettuale. Per inciso questo mi accadeva spesso con lui, soprattutto riguardo all'analisi dei sogni. Benedetti forse anche per via delle sue radici junghiane aveva delle intuizioni straordinarie ed anche adesso quello che mi stimola di più nella pratica clinica è l'interpretazione del materiale onirico.
In un altro sogno il paziente assisteva ad una sfilata di manifestanti inferociti, un bambino sfuggiva di mano alla madre sul marciapiede e il corteo lo sommergeva schiacciandolo. L'interpretazione dell'onnipotenza distruttiva del paziente si imponeva,ma a Benedetti sembrava non bastasse e alzando un dito notava che avrei dovuto dire al paziente che doveva correre a salvare il bambino. “Ma professore, è un sogno!”, gli obiettavo; e lui: “Non importa, il paziente doveva farlo andare diversamente”.

Un ultimo sogno.
Il paziente baciava il pube di una bambina. Ero molto allarmato, avevo sempre temuto di avere a che fare con uno psicotico e adesso mi ritrovavo con un caso di perversione. Secondo Benedetti invece il paziente temeva la sessualità adulta della donna e cercava di avvicinarsi alla femminilità figurandosela come quella di una bambina. Questa interpretazione, così spoglia di connotazioni superegoiche, mi ha davvero colpito, come se avessi inaspettatamente trovato un tesoro; mi ha aiutato a capire quanto sia periglioso il cammino verso l'oggetto, come richieda delle tappe intermedie e come si possano commetter gravi errori nel giudicarle.

Un'ultima annotazione.
Nel libro affermo che Benedetti era buono e io no. Si tratta di un'affermazione curiosa perché per altro non saprei neppure ben definire cosa è la bontà. Ma che Benedetti fosse un terapeuta del tutto particolare era opinione di molti. Cito Muraro ad esempio, il quale diceva che non si poteva prendere Benedetti come mqdello perché lui avrebbe fatto la psicoterapia anche a un cavallo. Ci ho ripensato e sono arrivato ad un tentativo di spiegazione. Benedetti era molto religioso, mentre io sono un ateo convinto. Ciò che potevo, che posso dare al paziente, é la mia competenza oltre a un impegno professionale che consiste soprattutto nel condividere la sua sofferenza.
Per Benedetti invece il gesto di un uomo che risponde alla sofferenza mentale di un altro essere umano era all'insegna di un amore che stava al di sopra dell'accidentalità dell'evento e dava alla relazione un carattere sacrale. Questa fede conferiva una legittimità a priori all'aiuto che egli offriva. Lui aveva dunque una marcia in più rispetto a me.

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