Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 2
1 - 2010 mese di Giugno
IL CONTESTO SOCIOCULTURALE
OSSERVAZIONI SULL'ARTICOLO DI SECONDO GIACOBBI: CULTURA POSTMODERNA E CLINICA PSICOANALITICA
di Alfredo Civita

Giacobbi traccia un quadro tanto efficace quanto desolante della situazione attuale sia della cultura nella quale tutti noi stiamo vivendo, sia della clinica psicoanalitica.
È impossibile dargli torto, le cose stanno effettivamente così. Io ritengo però francamente poco plausibile che gli psicoanalisti, come Giacobbi e altri, tra i quali mi metto anch'io, detengano la forza culturale o politica per promuovere un cambiamento che abbia una qualche rilevanza.
Questo mio intervento verterà allora sulla seguenti domande: perché le cose sono andate in questo modo? Quali motivi hanno consentito all'intersoggettivismo di affermarsi sulla clinica psicoanalitica fondata da Freud e arricchita dai suoi successori.
Per tentare una risposta, parto dalle parole con cui Giacobbi chiude il suo saggio: “La mia persuasione, però, è che come la buona famiglia ha bisogno di padri e di madri differenziati, capaci di integrare dialetticamente, nel loro rapporto con i figli, i loro specifici ruoli affettivi, allo stesso modo una buona analisi ha bisogno di analisti capaci di essere sia materni che paterni”.
Condivido completamente questa idea e nella mia pratica cerco, laboriosamente, di metterla in pratica. Dico laboriosamente, perché anch'io spesso vengo attratto dalle sirene dell'intersoggettivismo, mi capita così di parlare troppo, di interagire quasi freneticamente col paziente sul qui e ora, di indulgere nella self-disclosure.
Dopo sedute avvenute su questo registro mi trovo a chiedermi, ma perché ho condotta la seduta in questo modo, che cosa mi ha spinto in quella direzione? La risposta invariabilmente è questa: mi ha spinto il paziente e io l'ho assecondato.
Presento a tale proposito un breve esempio clinico. Il paziente ha 34 anni e svolge un professione intellettuale. Ha significative difficoltà di carattere emotivo e sociale. La sua infanzia, anzi proprio la sua nascita, è stata segnata da una terribile tragedia. Sette giorni dopo aver partorito, la mamma è morta a causa di un'infezione. Questo è lo sfondo. L'episodio che mi preme raccontare si svolge dopo la consultazione e alcune sedute vis à vis. Nel mio studio vi sono ovviamente le poltrone e il lettino; al paziente ho cercato di spiegare il significato e il funzionamento del distendersi sul lettino. Alla mia spiegazione, il paziente replica dimostrandosi affascinato dall'idea di usufruire del lettino. Quando però ci prova, resiste solo pochi grevi minuti, per poi ritornare sulla poltrona, di fronte a me, in preda a un notevole stato ansioso. Ho accolto naturalmente e, direi, maternamente la sua esigenza di potermi guardare in faccia, negli occhi. Le sedute successive si sono svolte e tuttora si svolgono pertanto in vis à vis, e con un taglio intersoggettivo. Anche se cerco di mantenere il più possibile una posizione di neutralità.
Non penso di poter trarre chi sa quale morale da questo episodio. Solo qualche piccola considerazione. Domanda: come comportarsi con questi pazienti, i quali di fatto ci mettono - o almeno mi mettono - nell'impossibilità di salvaguardare un autentico assetto psicoanalitico? L'unica via di uscita, per quanto mi riguarda, consiste nel tentativo di contemperare una posizione analitica - essere capaci di giocare e il ruolo di madre e quello di padre - con una posizione di natura intersoggettiva. Questa impresa ha qualche possibilità di successo se si riesce ad attivare quello che i coniugi Baranger hanno chiamato “il secondo sguardo”. Una parte del terapeuta entra nel gioco relazionale col paziente, un'altra parte, portatrice del secondo sguardo, resta al di fuori e osserva con occhi analitici quel che si dipana nell'interazione. Quando è possibile attuare questo peculiare setting mentale, i risultati clinici possono rivelarsi assai buoni.
Ma è evidente che questo ci porta ben lontani dalla psicoanalisi classica che prevede il silenzio e la kohutiana frustrazione ottimale. Riprendo allora la domanda che avevo formulato prima: perché le cose si sono sviluppate in questo senso? Provo a individuare alcuni fattori che attengono alla psicoanalisi e in generale alla psicoterapia. Su altri eventuali fattori di ordine storico o sociologico non mi ritengo in grado di esprimermi con cognizione di causa. Mi limito a un'osservazione che concerne l'evoluzione della sociologia del lavoro nel corso del Novecento. Mi sembra un dato di fatto che nell'ambito delle professioni di aiuto - medico, psicoanalista, psicoterapeuta, educatore, infermiere, assistente sociale - il numero delle donne abbia, negli ultimi decenni, di gran lunga superato quello degli uomini.
Questa evidenza sociologica introduce il primo fattore interno alla storia della psicoanalisi nel Novecento. La psicoanalisi classica che, a mio parere inizia con Freud e si chiude con la Klein, era una psicoanalisi al maschile, o potremmo anche dire che era una psicoanalisi fallica. Lo strumento terapeutico primario era l'interpretazione, la quale ha il compito di penetrare nell'inconscio del paziente per scoprire la verità che lì si nasconde. Anche le psicoanaliste donne, tra cui appunto Melanie Klein, dovevano mettere da parte la propria femminilità e operare in maniera fallica. Il ripudio del controtransfert, tipico della psicoanalisi classica, può forse essere spiegato proprio mediante questo ordine di idee. Le emozioni controtransferali attengono all'universo del femminile, e l'analista, uomo o donna che sia, deve reprimerle.
A partire dal secondo dopoguerra, con l'irrompere sulla scena psicoanalitica del controtransfert, la situazione si è progressivamente modificata, per approdare infine a una psicoanalisi al femminile. A spingere in questa direzione non furono tanto i celebri lavori della Heimann, quanto la grande influenza esercitata da due grandi psicoanalisti postfreudiani e postkleiniani: Bion e Winnicott. Per entrambi è la sensibilità materna a consentire un normale, un sano sviluppo del bambino. La figura del padre è del tutto assente nei loro scritti, alcuni dei quali sono peraltro autentici capolavori - e dicendo questo scopro ovviamente l'acqua calda.
Il tratto essenziale della psicoanalisi al femminile consiste in quanto segue: non è più una psicoanalisi del contenuto, ma una psicoanalisi del contenitore. L'obiettivo primario e fondamentale di questa psicoanalisi al femminile non è più la conoscenza dell'inconscio, ma il contenimento e, direi, l'accudimento, delle emozioni e in generale della sofferenza del paziente. Il momento dell'interpretazione, se mai si presenterà, avrà luogo molto tempo dopo, quando la bonifica delle angosce primitive del paziente sarà giunta a buon fine.
Consideriamo ora il secondo fattore. Fino agli anni Sessanta del secolo scorso, la psicoanalisi rappresentava di fatto l'unica forma di psicoterapia presente sul mercato, per così dire. In seguito le cose si sono modificate in maniera sostanziale, e oggi l'universo della psicoterapia è decisamente pluralistico. Accanto ai molteplici orientamenti che, nonostante le grandi differenze di teoria e di tecnica, si richiamano comunque ancora alla psicoanalisi, esistono numerosissime offerte psicoterapiche che, pur essendo scaturite storicamente dalla psicoanalisi, hanno seguito percorsi del tutto originali. Mi limito a elencare i principali indirizzi: sistemico-familiare, cognitivo, cognitivo-comportamentale, gestaltico. En passant, il paziente a cui prima ho accennato, intorno ai 20 anni ha seguito un percorso terapeutico a indirizzo cognitivo per uscire da un severo stato depressivo. E la terapia, a quanto mi dice, gli ha molto giovato. Ora, in questo quadro pluralistico, dove i pazienti sono molto spesso reduci da precedenti esperienze terapeutiche affatto differenti dalla psicoanalisi, la possibilità di condurre un'analisi in senso classico è diventata, a mio parere, quanto mai rara.
Un breve cenno sul terzo fattore che ha contribuito a determinare lo stato attuale delle cose: è il processo di secolarizzazione a cui la psicoanalisi è andata incontro. Farò, come dicevo, solo un piccolo cenno perché il tema è assai complesso e anch'io che lo sto studiando da tempo non ho per nulla le idee chiare.
Parto da una citazione di Freud tratta dalla seconda serie di lezione dell'Introduzioni alla psicoanalisi. Osservazioni che vanno in questa direzione sono peraltro numerose nella sua opera. Scrive Freud:

“La dottrina delle pulsioni è, per così dire, la nostra mitologia. Le pulsioni sono entità mitiche, grandiose nella loro indeterminatezza. Non possiamo prescinderne nel nostro lavoro, un solo istante, e nel contempo non siamo mai sicuri di coglierle chiaramente” (Freud, OSF, 1932, vol. 11, p. 204)


Freud, come ben sappiamo, non scriveva a caso, senza prima pensare. Se dunque ha scritto che la dottrina delle pulsioni è la nostra mitologia, vuol dire che era proprio questo che egli pensava. Ebbene, io credo che questa psicoanalisi che traeva alimento anche dalla fascinazione del mito si è col passar del tempo dileguata. Non a caso la teoria delle pulsioni è stata rigettata da gran parte della comunità psicoanalitica del nostro tempo. Per secolarizzazione della psicoanalisi intendo pertanto la graduale eliminazione di elementi mitici e speculativi - si pensi all'importanza che Freud attribuiva alla metapsicologia - presenti nella psicoanalisi classica.
Attraverso la secolarizzazione, la psicoanalisi si è trasformata in una disciplina e in una pratica clinica più pragmatica, più legata al concreto. Se ciò sia un passo in avanti o un passo indietro, non sono in grado di dirlo.

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