Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 2
1 - 2010 mese di Giugno
IL CONTESTO SOCIOCULTURALE
CULTURA POSTMODERNA E CLINICA PSICOANALITICA
di Secondo Giacobbi

La psicoanalisi, nata alla fine dell'Ottocento per affrontare con strumenti nuovi le tradizionali e apparentemente invincibili manifestazioni “funzionali” di patologia neurologica (in primis l'isteria) e le nuove manifestazioni di malessere psichico caratteristiche dell'età vittoriana (nevrosi ossessiva e nevrosi di carattere), si costituì immediatamente anche come metodo di analisi critica del costume e della società. Storici e notissimi al riguardo gli scritti di Freud Psicologia delle masse e analisi dell'Io (1924) e Il disagio della civiltà (1930). Ma altri analisti hanno scritto celebri saggi di psicoanalisi della società: basti pensare agli autori della Scuola di Francoforte e ai loro studi sul fascismo e sulla “personalità autoritaria”. La psicoanalisi ha quindi rappresentato, nella cultura della prima metà del Novecento, una postazione avanzata del pensiero scientifico e della cultura laica, conducendo anche storiche battaglie contro la nevrotizzante sessuofobia del costume vittoriano e della morale cattolica, contro i pregiudizi razzisti e a favore di un modo di riflettere sulla condizione dell'uomo, ispirato a valori di libertà e razionalità. Peraltro Freud, figlio dell'Illuminismo e del Positivismo, esprime anche una critica radicale delle ingenuità razionalistiche proprie di quelle culture. È possibile così chiederci: quale giudizio, quale vertice osservativo, può il pensiero psicoanalitico, inteso come metodo e come atteggiamento della mente, proporre a riguardo dei grandi cambiamenti sociali e culturali che caratterizzano la postmodernità e cioè la nuova fase storica che si apre all'inizio degli anni Novanta?
Ma innanzitutto cosa si intende per postmodernità? E, più specificamente, ci si puo' chiedere: quale ricaduta la cultura della post-modernità e del narcisismo ha registrato sul piano della teoria della clinica e della tecnica psicoanalitica?
Per tentare di rispondere a queste domande mi concentrerò su due componenti fondamentali della cultura postmoderna:
1- crisi dell'idea di razionalità e di verità razionale;
2- crisi del soggetto e dell'idea di identità. Crisi dell'idea di razionalità e di verità razionale

CRISI DELL'IDEA DI RAZIONALITÀ E DI VERITÀ
La razionalità dell'uomo è innanzitutto, per Freud, processo di “razionalizzazione”, cioè un processo di pensiero, argomentazione e autoriflessione, funzionale al bisogno di giustificare, eticamente o in termini di una presunta e superiore razionalità, scelte, azioni, e opzioni. Questo carattere pragmatico e utilitaristico della ragione è sostenuto proprio da alcune significative correnti del pensiero filosofico e sociopolitico postmoderno. Con una differenza però sostanziale, a favore, a mio avviso, della psicoanalisi: quest'ultima continua a credere alla razionalità come tensione e limite, e in questo senso Freud è un appassionato sostenitore della verità scientifica e razionale e fa dell'esperienza psicoanalitica una ricerca di verità su di sé, sulla propria storia e sul proprio mondo interno. Certo, la verità che la psicoanalisi può scoprire e accettare non è una verità oggettiva, scientificamente e storicamente documentabile; essa è piuttosto una verità psicologica, interna, soggettiva, ma non arbitraria e men che meno accomodante e razionalizzante. Del resto, lo stesso scientismo di Freud è complesso e ambiguo: l'idea di inconscio, tutte le teorizzazioni più alte, schiettamente metapsicologiche e, in certi casi e in un certo senso, metafisiche, portano ben oltre l'orizzonte positivista dentro cui era nato il pensiero di Freud.
La cultura post-moderna ha, nei suoi esponenti più radicali, rigettato l'idea moderna di razionalità, in termini però profondamente diversi da quelli che caratterizzano la critica di Freud al razionalismo ingenuo del positivismo o la critica radicale che del razionalismo illuminista fecero gli autori della Scuola di Francoforte: Per Freud il razionalismo scientista non va rinnegato, ma integrato con concezioni e pratiche conoscitive capaci di mettere l'uomo in relazione con gli aspetti profondi e inconsci di sé e capaci altresì di cogliere e comprendere gli aspetti irrazionali, mitici,onirici, pur presenti nelle stesse costruzioni dell'intelletto, siano esse concezioni filosofiche del mondo o teorie scientifiche.
La cultura post-moderna è invece intrinsecamente irrazionalista e anti-illuminista e propone, infatti, della “verità” una concezione profondamente antimoderna: la verità è sempre una costruzione arbitraria e funzionale alle pratiche di vita e al perseguimento di obiettivi di vita pragmaticamente affermati e “giustificati”. In giustapposizione, e non in contrapposizione,a tale posizione, la cultura post-moderna sostiene anche in alcuni suoi scrttori (cosiddetti neo-con e teo-con) l'assolutezza indiscutibile e non negoziabile di alcuni valori e verità la cui riaffermazione spetta, di solito, ad agenzie istituzionali che di essi detengono un monopolio riconosciuto, in primis, in Italia, la Chiesa Cattolica, con la quale il potere berlusconiano (così schiettamente narcisista e post-moderno) ha costituito una forte alleanza ideologica e politica.
A me pare che la ricaduta degli aspetti sopra-indicati della cultura post-moderna sulla teoria della clinica psicoanalitica siano di facile accertamento.
A partire dagli Anni Ottanta, ad esempio, ha trovato spazio e credito nella clinica psico-analitica la cosiddetta corrente “narrativista” (Schafer, Spence) la cui fortuna culturale è successivamente attecchita in molte scuole psicoterapeutiche ehtra-analitiche. La corrente narrativista teorizza quale compito primario dell'impresa psicoterapeutica la costruzione (o meglio la “ co-costruzione” assieme al paziente) di una narrazione organica, cognitivamente coerente, emotivamente coivolgente ed esteticamente “bella”, della storia familiare e interna del paziente, così come dello stesso andamento dialogico e narrativo delle singole sedute. Parallelamente lo psicoanalista dovrebbe ritenere impossibile, in linea di principio, dunque impraticabile nel trattamento clinico, il perseguimento di una “ricostruzione” della storia familiare e interna del paziente. Solo una “costruzione”, in ultima analisi arbitraria seppur negoziata e consensuale, è possibile; il cui valore intellettuale e clinico prevede però, appunto, il consenso del paziente e il suo attivo concorso ad essa costruzione.Per gli psicoanalisti narrativisti la co-costruzione narrativa elaborata dalla coppia analista paziente è di per sé ristrutturante, riparativa e terapeutica.
Ricordo qui come Freud ritenesse che “costruzione” e “ricostruzione” siano da intendere come polarità che dialetticamente si implicano, si oppongono e si integrano nel corso del trattamentopsicoanalitico. Del resto per Freud lo stesso delirio dello psicotico contiene un “nucleo di verità”, e non solamente nei termini della incontestabile “realtà” dei contenuti mentali e dei vissuti psichici, ma anche, in qualche modo, nei termini della verità storica. A questo proposito Freud sosteneva, peraltro, che la ricostruzione, per quanto arbitraria e ipotetica, avesse comunque un suo carattere di plausibilità storica, allo stesso modo in cui la ricostruzione dell'archologo, a partire dai resti più informi, ha e deve sempre avere un suo carattere di plausibilità storico-scientifica. Personalmente ritengo che, con qulche residua ingenuità, la posizione di Freud sia ancora condivisibile.

CRISI DEL SOGGETTO E DELL'IDEA DI IDENTITÀ
La psicoanalisi ha messo definitivamente in crisi L'Io-penso di Cartesio e con esso l'idea di un soggetto cosciente e insieme portatore di un senso di identità assoluto ed univoco. Attraverso l'esperienza e il processo psicoanalitico, la coscienza deve ampliare i propri confini ed estenderla sino ad includere aspetti e contenuti dell'inconscio sottratti alla consapevolezza dalla rimozione. Tale processo di coscientizzazione, d'altra parte, è sempre parziale e sommario e quindi il senso di identità rimane incerto, oscurabile, in qualche misura contradditorio. Niente però di paragonabile alle più radicali concezioni postmoderne, che parlano di pluralità dei sé identitari e di un senso dell'identità non tanto precario e incerto, quanto pragmaticamente plurimo e camaleontico, che “costruisce” le sue verità, a sua immagine e a sua somiglianza.
La società postmoderna, tuttavia, non è fatta solo di idee e concezioni dell'uomo e del mondo; essa è costituita anche, e ancor più, da processi sociali, da tecnologie e dalla loro ricaduta sul costume e sulla vita quotidiana. A questo riguardo colpisce profondamente la rapidissima trasformazione cui le nuove tecnologie della comunicazione hanno sottoposto la dimensione relazionale e la comunicazione degli individui. Si pensi solo al cellulare, che come ormai una protesi corporea è sempre presente su di noi. E si pensi quanto la presenza di tale oggetto ha riorganizzato e trasformato la vita delle persone. La comunicazione è diventata enormemente più frequente e, di conseguenza, ha cambiato natura e caratteristiche: come in ogni processo, fisico o sociale, l'aumento del dato quantitativo trasforma il dato qualitativo; e così la comunicazione è diventata pervasiva, ubiquitaria, superficiale. L'interazione dialogica ha acquisito qualcosa di frenetico, di incontinente, di ossessivamente controllante. Tutto ciò ha una ricaduta sugli stili relazionali e sui rapporti umani, che diventano più incalzanti, più ravvicinati, meno dotati di spessore psichico; i correlati emozionali diventano più vistosi, più eccitabili, più egosintonici e l'interazione relazionale tende a perdersi in essi, smarrendo la dimensione degli affetti, che sono invece profondi, non si esauriscono nell'emozione né nel vissuto cosciente, radicandosi essi nella vita inconscia dell'ego individuale. La capacità autoriflessiva del sentimento (che si pone fenomenicamente tra l'emozione e l'affetto, come “sentire della mente”) si perde. Tutto ciò contribuisce a impoverire in generale la capacità autoriflessiva o metacognitiva o di mentalizzazione degli stati interni, la quale perde colpi anche per altri processi che vanno sempre più caratterizzando la vita delle persone. Ad esempio cresce il rumore e diventa sempre più rara ed eccezionale la situazione di silenzio; la mente umana ha bisogno sia di stimoli, non sensorialmente soverchianti – però – e adeguatamente metabolizzabili, sia di assenza di stimoli. Lo insegnano anche le grandi tradizioni spirituali: la mente si nutre di silenzio, ma anche la relazione interpersonale, se è vero, come ricorda Winnicot, pediatra e psicoanalista, che l'esperienza più importante per il bambino è che la madre gli consenta di “rimanere solo insieme a lei”, cioè senza interazione e senza dialogo.
Al tempo stesso si impoveriscono le possibilità di dialogo e di scambio, specie all'interno dei gruppi familiari. È uno scenario tragicamente familiare, appunto, quello che vede intere famiglie riunite attorno al desco della cena, ma ammutolite davanti alla TV, azzittite dall'ascolto passivo e onnivoro di banalità, per lo più, stupidità, o peggio, disinformazione.
I danni di una eccessiva esposizione alla TV sono stati ormai da decenni segnalati, si tratta di danni anche sul piano neurocerebrale e neuroormonale, ma sono soprattutto i danni psicologici che voglio qui, ancora una volta ricordare. Provate a riflettere: di contro alla passivizzazione mentale che la TV induce, il ruolo attivo che la mente ha nella lettura, che è sempre un processo mentale lento, spesso pensato, accompagnato da fantasie e da riflessioni. E sono la fantasia e insieme a essa e con essa in interconnessione dialettica, il senso di realtà a essere minacciata dall'altro grande oggetto tecnologico della società postmoderna:il computer. È facile sottolineare le grandi opportunità e potenzialità connesse all'uso del nuovo strumento tecnologico, ma io credo che di fronte ad ogni innovazione tecnologica, l'atteggiamento mentale più corretto debba essere centrato soprattutto sugli aspetti di rischio e sugli effetti patogeni. È un'antica illusione antropocentrica quella per cui l'oggetto tecnologicoscientifico è, di per sé, neutrale, ed è solo l'uso che se ne fa che lo rende buono o cattivo. Grande illusione! L'oggetto non è né neutrale né inerte ma, in quanto precipitato da processi sociali di produzione e di riproduzione ideologica, orienta attivamente l'uso, a meno di una capacità di distanziamento psichico e culturale, dall'oggetto stesso che, obiettivamente, solo pochi sanno esercitare; proprio come mostra l'uso dello strumento TV.
Quanto al computer, la mia esperienza di clinico mi mette continuamente a contatto con adolescenti, ma anche adulti, che passano ore e ore della loro giornata impegnati alla macchina: giochi, simulazioni di ruolo, chat-line; qui il gioco dell'identità addirittura si dissolve: uomini che si fingono donna, vecchi che si fingono giovani. Dunque i confini tra virtuale e reale sono diventati labili e incerti: il senso di realtà ne è alterato, ma anche la fantasia ne è impoverita, perché la mente non deve più provvedere a generare immagini, a costruire storie possibili, a perdersi in scenari fantastici.
Ma torno al tema e all'interrogativo della ricaduta sulla clinica della concezione che della soggettività e della identità propone la post-modernità. La cultura, o forse sarebbe meglio dire la “ideologia” della post-modernità, ha elaborato una nuova concezione della soggettività,dove il soggetto è, al tempo stesso, un soggetto “debole”, e quindi precario cangiante, “liquido”, e contemporaneamente intero, cioè non scisso, in quanto ricondotto e ridotto alle sue sole componenti conscie e fenomeniche: e infatti la post-modernità ama poco l'inconscio e di esso fornisce una versione concettuale in cui l'inconscio è ciò che “non è ancora” conscio o è immediatamente inconscio (e tale inconscio di fatto si può identificarecon il Pre-conscio freudiano). Il nuovo soggetto è in continua interazione con gli altri, dai quali trae (o non trae) nutrimento e identità; di qui l'affermazionedella natura inter-soggettivistica degli individui, dove però tale definizione dell'individuo ne disconosce la natura sociale (nel senso illuministico o marxista, ma anche nel senso weberiano), in quanto tale individuo è sì in perenne (e spesso spasmodica) interazione con l'Altro, ma quest'Altro è a sua volta un individuo in interazione con altri, ma le cui interazioni non sono strutturate da un conresto realmente sociale.
Personalmente ritengo che queste concezioni influenzino il cosiddetto “inter-soggettivismo” di tanta psicoanalisi contemporanea, con una precisa e forte ricaduta sulla tecnica analitica. A mio avviso nelle seguenti forme:
  • svalutazione del setting, con apertura a forme anche radicali di fluidificazione dello stesso (ad es. uso sistematico della self-disclosure, che da intervento eccezionale e attentamente vagliato diventa, in alcuni,pratica quasi continua);
  • la capacità autoriflessiva del paziente (e dello stesso analista) finisce per essere fagocitata dall'osservazione, seppur minuziosa e, in alcuni autori, straordinariamente sottile, delle interazioni nell' hic- et- nunc fenomenico e dei loro aspetti pre-consci, con svalutazione, di fatto,degli aspetti psicodinamici profondo e inconsci;
  • eliminazione quasi totale del silenzio analitico, a favore di una interazione dialogica vivace e reciprocamente reattiva (come si può constatare esaminando il materiale clinico generosamente mostrato al lettore nei libri degli autori intersoggettivisti, ormai l'analista parla tanto quanto il paziente);
  • x l'analista tende ad evitare al paziente qualsiasi esperienza di frustrazione, dimenticando che la “frustrazione ottimale” (ormai obliata dai più ) è parte fondamentale del processo analitico (così come del processo di crescita e maturazione del soggetto). Vengono così esaltati gli obiettivi “materni” di riparazione, compensazione e gratificazione, di contro agli aspetti più schiettamente “paterni” dell'esperienza analitica, aspetti a loro volta fondamentali e fortemente strutturanti e maturativi;
  • la neutralità viene dichiarata impossibile o, addirittura, equiparata e confusa, con grave equivoco concettuale, ad una forma di distaccofredda e indifferente.Del resto la sottovalutazione della centralità psicodinamica del conflitto (anche nelle situazioni e nelle storie cliniche dominate da gravi deficit ambientali e da significative vicende traumatiche) rende la neutralità uno strumento apparentemente trascurabile e desueto;
  • si confonde la “empatia” con la “simpatia”. In realtà la prima presuppone adeguata distanza, pratica del silenzio, parziale e momentaneo ritiro dalla relazione, proprio per favorire una immedesimazione con l'altro, che consenta di “sentire nell'altro” (en-patein in greco). In alternativa si ritiene di dover “simpatizzare” col paziente, cioè manifestargli apertamente di condividere e provare le sue stesse emozioni o sentimenti (sun-patein). Detto per inciso ritengo che la simpatia apertamente espressa, come nel caso della discussa “disclosure”, debba essere centellinata con grande cautela clinica e con grande srnso di responsabilità.
Concludendo, mi pare di poter affrermare che la psicoanalisi contemporanea che maggiormente risente del clima ideologico-culturale post-moderno, sia una psicoanalisi che ha affievolito profondamente l'ispirazione profondamente e drammaticamente psico-dinamica della pratica analitica centrata, più “tradizionalmente”, sul concetto di inconscio dinamico, di conflitto e di resistenza. In essa personalmente colgo anche l'emergere e l'affermarsi, un po' dogmatico, di valori mentali e affettivi di ordine meterno e pre-edipico, con un oscuramento dei valori più propri dell'ordine paterno ed edipico. E di fatto metafore e concetti di tanta psicoanalisi post-moderna sono di schietta marcatura simbolica femminile-materna. La mia persuasione, però, è che come la buona famiglia ha bisogno di padri e di madri differenziati, capaci di integrare dialetticamente, nel rapporto con i figli, i loro specifici ruoli affettivi, allo stesso modo una buona analisi ha bisogno di analisti capaci di essere sia materni che paterni.

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