Jeremy Safran ha presentato una relazione sul tema al Convegno ASP del 16 Maggio del 2006. Essa compare per intero sulla rivista Setting N. 26, seguita dal commento di Ciro Elia e di Daniela Maggioni. L'argomento è di grande attualità e suscita accese discussioni. Intervengo dunque anch'io anche se con ritardo.
Premetto subito che non mi è chiaro cosa voglia dire Safran e questo, come sempre mi accade quando trovo lo scritto enigmatico e da interpretare, come per tante pagine ad esempio di Bion, mi dà una certa irritazione
La relazione si compone di tre parti. Nella prima si espone il problema di un paziente, Simon, che inizia un'analisi. Nella seconda si evidenziano alcuni aspetti della filosofia buddista. Nella terza si torna a parlare del paziente a distanza di 5 anni dall'inizio del trattamento. Lo schema ricalca esattamente la modalità con cui si descrive l'andamento di una terapia: il paziente all'inizio, il decorso e la parte finale con i risultati. Al posto del decorso (come si è mosso il paziente, cosa ha fatto l'analista ecc.) Safran, come dicevo, ci parla del buddismo; tutto quindi lascia pensare che sia questa la risposta che egli ha offerto alle problematiche del paziente. L'ipotesi è avvalorata dal fatto che il paziente si presenta come una caricatura dell'uomo occidentale percorso dai miti della virilità, del successo, della realizzazione di sé, giusto tutto quello che il buddismo individua come intralcio alla “illuminazione” (ossia alla vera emancipazione). Certo rimane un mistero come si possa sostituire la tecnica del trattamento con l'enunciazione di una diversa filosofia di vita. Safran però ci dice come i maestri Zen portino i loro allievi a forme superiori di conoscenza e ci fornisce alcuni esempi delle modalità che usano. Possiamo ipotizzare che Safran abbia fatto qualcosa del genere con Simon, che si sia posto, egli analista, come il maestro che chiede all'allievo: “Come fai a diventare un illuminato meditando (ossia volendolo diventare)?” Un'altra possibilità, anzi senz'altro la più probabile, è che egli abbia usufruito delle tecniche usuali di trattamento, ma le abbia sensibilmente modificate. Qualcuno ce lo dovrebbe dire e invece non lo sappiamo, dovremmo chiederlo a Safran.
Nella terza parte si scopre che il paziente non è cambiato affatto, e torno a non capire: se si vuole avvalorare una teoria con un caso clinico il trattamento non può non fornire dei risultati positivi. Apprezzo senz'altro la sincerità e l'onestà di Safran che rifugge dal nascondersi dietro a delle frottole, ma così facendo arriva egli stesso a negare le premesse di partenza; e mi sembra eccessivo. A meno che non si voglia suggerire che con il buddismo si può anche condividere il fallimento reciproco, fra analista e paziente. Anche questa volta stento a capire.
Vediamo ora lo scritto più da vicino.
Safran ci porta il caso di Simon, un uomo di 33 anni, che soffre di impotenza; un'impotenza che era anche la metafora della sua vita: non era abbastanza forte, mascolino. Sognava di sposare una donna bellissima, e di diventare un famoso scrittore. Incominciava le sedute con un “non ho niente da dire oggi”, seguito da lunghi silenzi. Nella relazione si sentiva pressato a produrre e per questo provava risentimento verso l'analista. Era impossibile per lui essere spontaneo, non poteva esserci, ma solo provare ad esserci. Ecco alcuni dei suoi interrogativi: “come lasciare la pressione autoindotta a produrre in seduta?”, “potrebbe mai Lei, analista, mollare il desiderio che io sia più vivace e coinvolto nel lavoro con Lei?”. E anche: come si può essere spontanei volendolo essere?
Dopo la presentazione del caso, Safran a partire dal Buddismo ci porta a riflettere su come Simon sia caduto in una trappola. Simon vuole di più da se stesso e dal mondo, vive in funzione dell'obiettivo e così perde ciò che davvero egli è, l'esperienza del presente è sempre difettosa, è “ombra dell'esperienza idealizzata”. La psicoanalisi conosce il paradosso per cui la motivazione al cambiamento che porta alla domanda di analisi è parte essa stessa della nevrosi, anzi ne è al limite la causa: la si vuole combattere invece di farla propria; ma si tratta di un'area di indagine di secondaria importanza (in questo Safran ha senz'altro ragione). Per il Buddismo invece il paradosso della autoaccettazione è una questione centrale “collegata a questioni ontologiche ed epistemologiche fondamentali”. Occorre rifarsi ad una visione del mondo non dualistica, fino alla considerazione che non c'è differenza fra la vita quotidiana e il paradiso o che la meditazione per giungere all'illuminazione non può che mascherarla. Safran ci propone temi di riflessione di straordinario interesse, arricchiti da aforismi che lasciano stupefatti. Ad esempio quello cui fa riferimento il titolo della sua relazione: “prima che l'asino se ne sia andato, il cavallo è già arrivato”. Vale a dire che se guardiamo al futuro (il cavallo, l'animale desiderato), guardiamo nel posto sbagliato perchè l'asino è già il cavallo. Non mi è possibile sintetizzare oltre pagine densissime e già frutto di uno sforzo estremo di sintesi di un pensiero che si sa essere incredibilmente complesso. Rimando quindi il lettore che voglia saperne di più all'articolo stesso.
Simon sembra allora il paziente giusto per Safran. La visione buddista si farà sentire nell'analisi che egli conduce così da rovesciare la scala di valori cui si attiene il paziente e che rappresenta il nucleo della sua nevrosi. Non sappiamo come questo avvenga concretamente perchè, come ho già detto, non ci viene mostrato, ma che questa analisi venga vivificata da un soffio di aria fresca, questo è indubbio.
Ci volgiamo quindi con grandi attese al caso cui alla fine dello scritto ci riporta Safran e...veniamo a sapere che dopo 5 anni le cose stanno più o meno come prima. Simon sostanzialmente è solo, le gratificazioni sul piano professionale mancano ecc. Spesso le sedute sono morte e monotone, “Simon si sente pressato ad essere produttivo e prova risentimento verso di me perchè non gli sono di maggiore aiuto. Ed io mi sento impaziente, frustrato e svalutato”. Se Simon facesse una poesia secondo lo stile di Han Shan essa suonerebbe così:
Sono ormai in analisi da cinque anni.
A volte mi sembra di avere fatto qualche progresso.
Ma mi chiedo se sarò mai felice,
il mio analista è inutile,
la vita mi succhia.
E se la facesse Safran, così:
Sono ormai cinque anni che mi occupo di Simon.
Alcune volte credo di averlo aiutato.
Mi sento felice per lui e abbastanza soddisfatto di me.
Ma ora mi chiedo se sarà mai felice;
magari avesse più fortuna.
Forse sono un pessimo analista.
Sembra che l'approccio di Safran non abbia funzionato, non c'è stata l'illuminazione dell'allievo strappato al suo consueto modo di pensare dal controparadosso del maestro.
Cerchiamo di capirci di più e torniamo al paziente ponendoci nella consueta prospettiva psicoanalitica.
Poichè Simon soffre di impotenza deve dimostrare, lo sappiamo già, di essere sempre potente e non può permettersi di essere non potente. Non fa che tendere verso l'alto, la virilità, (e cos'è?), la donna bellissima (e dov'è, qual è?), la spontaneità, (e di che si tratta?); è teso come la corda del violino, la corda dell'arco che sta per scoccare se stesso, la freccia. Il suo è un pene in continua erezione in uno stato di perenne rigidità, mai in condizione di riposo. Si tratta di un'erezione che non si attua in presenza della donna, ma a priori, e dunque sta solo e sempre a significare la virilità del maschio. Se il pene si trovasse in condizione di riposo, ossia si dimenticasse di se stesso, la tensione verso, a carattere penetrativo, lascerebbe il posto alla ricettività con l'angoscia conseguente alla posizione passiva e al desiderio di penetrazione da parte dell'uomo. Dunque, se non si dimostra a se stessi di essere maschi ci si ritrova femmine e da questa rappresentazione di sé bisogna difendersi; ma per combattere, il guerriero ha bisogno di riposo e, se questo manca, il sovraffaticamento porterà ad una prestazione inefficace. Da qui l'impotenza, nel classico circolo vizioso che così bene l'analista conosce.
Cosa farà il paziente in seduta? Non farà che difendersi dal suo desiderio di passività, come ogni nevrotico che si rispetti. E infatti sfida il terapeuta con richieste impossibili che egli non può soddisfare (dovrebbe procurargli una donna bellissima o dargli il talento per scrivere ecc.). D'altro canto l'alleanza di lavoro suscita vere e proprie ansie di persecuzione poiché rischia di portarlo in una posizione di affidamento, di passività. L'appello alla fiducia da parte dell'analista verrà quindi scambiato per una continua, imperiosa richiesta a che egli produca, richiesta alla quale dunque egli non può che opporsi.
E Safran cosa fa? Certo non lavora in maniera sistematica sulle resistenze di transfert, altrimenti farebbe la solita analisi e non vi sarebbe nessun motivo per portare questo caso a illustrare un nuovo modo di procedere; si rifà invece all'approccio buddista affinché il paziente si renda conto della trappola in cui è imprigionato, del paradosso che il suo desiderio di cambiamento, verso il meglio non fa che riproporre.
È ovvio però ora per tutti noi come un simile approccio non possa essere efficace. In primo luogo è errato concettualmente, poiché non si tratta tanto di recedere dal desiderio (di autoaffermazione, di penetrazione), ma di venire a patti con il desiderio di segno opposto (di ricettività, di affidamento a un uomo). E inoltre invita il paziente a ciò che più gli fa orrore, a deporre le armi e dunque a trovarsi disarmato alla mercè di un altro uomo. L'atteggiamento oppositivo, lungi dal recedere, ne verrà quindi rinforzato.
Insomma ciò che Simon teme, mentre lo desidera naturalmente, è proprio di andare d'amore e d'accordo con il suo analista; e se non si elaborano i motivi di tale diffidenza non ci sarà mai un incontro fra i due. E infatti dopo 5 anni verifichiamo che nulla è davvero cambiato, per lo meno in profondità, e i due sono ancora attestati sulle loro posizioni.
Maledizione all'inconscio, sembrava tutto così chiaro, che il discorso filasse così bene! E invece un analista che fa della autoaccettazione il suo cavallo di battaglia si trova a non essere accettato dal paziente e di rimando ad essere lui stesso a non accettarlo... Perché, al di là dello sconforto condiviso, è chiaro che i due si detestano reciprocamente.
Non è un paradosso? Per risolvere il primo paradosso ce ne ritroviamo un secondo, ancora più inestricabile.
Che dire? Al di là dell'intenzione abbastanza esplicita di Safran a fare karakiri (lo inviterei davvero a riflettere sulla sua ambivalenza nel proporre certe convinzioni), non si può che rimanere perplessi di fronte al tentativo di ibridazione psicoanalisi-buddismo. Per lo meno di fronte a questo tentativo. A me sembra che il più che collaudato lavoro sul conflitto non avrebbe portato allo stallo terapeutico, ma avrebbe invece fatto chiarezza e sarebbe stato ben più utile al paziente: per il semplice fatto che se un problema affonda le sue radici nell'inconscio è dell'inconscio che ci si deve occupare.