La disintegrazione del mondo moderno
Quasi tutte le civiltà più antiche della storia, nella moltitudine e nel folklore dei loro miti, annoverano quello che tra tutti può essere forse considerato l’archetipo per eccellenza della razza umana: l’Età dell’Oro. Fu Esiodo il primo a parlare di questo mito, descrivendolo come un’era in cui gli uomini non morivano, non lavoravano e non combattevano, un’epoca d’Oro che si contrapponeva a quella attuale, quella del Ferro, antitetica a quel mitico passato aureo e attraversata dalla passione per la guerra, il potere, il dominio. Un’ancestrale contrapposizione tra un passato eroico e la decadenza dei tempi moderni, il sogno proibito di un passato che ha lasciato spazio al caos e alla dissoluzione del presente.
Al pensiero che già i greci pensassero di vivere in tempi di decadenza c’è quantomeno da sorridere. La nostra attualità, da qualsiasi punto di vista la si guardi, presenta criticità e problematicità che mai prima di ora si erano presentate, e che in larghissima parte sono l’eredità lasciata dal secolo appena passato. Il ‘900 è stato un secolo tragico, straziato da tragedie e catastrofi belliche, storiche, politiche, economiche, scientifiche… che hanno cambiato profondamente il volto dell’Umanità. Le macerie di due guerre mondiali, l’avvento dell’era atomica, genocidi, ideologie e fanatismi, hanno plasmato un Mondo tanto fragile nei suoi equilibri quanto precario nelle sue certezze; il secolo appena trascorso ha terminato il suo corso restituendo cenere alla cenere. Il caos ha cominciato lentamente a prendere il sopravvento. Come si interpreta il caos??
Certo un prototipico individuo del 2024 in pieno neo-positivismo ottocentesco probabilmente risponderebbe che con qualche software, l’intelligenza artificiale, un certo margine di errore sistematico, un tocco di intuizione… ma soprattutto che i “dati” a sua disposizione restituiscono l’immagine di una Civiltà Globale che si sta sforzando si affrontare quelle sfide tanto gravose per promettere un futuro ai nostri figli, che la tecnologia e i continui progressi della Scienza ci aiuteranno a vincere le sfide che ci attendono. Insomma, i consueti deliri di onnipotenza che a ritmi sempre più serrati colpiscono l’uomo e il suo pensiero.
Tuttavia, dato che non credo sia questa la sede per esternare tutto il mio “scetticismo/pessimismo” per il futuro, cercherò di aggiungere solo qualche dato ulteriore di riflessione per tentare di capire qualcosa di più sul punto in cui siamo. Curiosamente infatti, qualche “folle” o qualche improbabile visionario, tra cui Freud, avevano percepito fin nel profondo che qualcosa da tempo non andava, e che la Civiltà del ‘900 era da molto tempo in profonda crisi, sull’orlo di deragliare, di annientare sé stessa nei suoi assunti più fondanti (Religione, Nazione, Conoscenza, Critica, Ragione, Morale). Da Nietzsche in poi, vi furono molti pensatori, artisti, filosofi e politici che espressero la preoccupazione che i secoli precedenti al loro avessero preparato il veleno perfetto per lo spirito umano e il suo declino.
Eh si, perché se da una parte il progresso tecnologico e conoscitivo del genere umano è esploso nel XX secolo, regalando oggettivamente all’Occidente un benessere materiale mai conosciuto prima, qualcuno ci ha ricordato e spiegato che non siamo solo ossa e cervello, non siamo più (solo) cacciatori e raccoglitori della savana, ma la nostra Essenza è altrove. La nostra Essenza è la nostra Mente.
Solo per citare alcuni di questi folli troppo saccentemente inascoltati, possiamo menzionare pensatori come Julius Evola, Renè Guenon, lo stesso B. Skinner con la sua opera Walden II, oltre al già citato Freud[1]
“La società attacca presto, quando l'individuo è impotente.”
“Il vero problema non è se le macchine sappiano pensare ma se gli uomini lo facciano.”
Sebbene Skinner fu, per tutto il corso degli anni ’50 il più importante esponente del comportamentismo radicale, basato sull’idea di un individuo nato come una tabula rasa sul quale si può potenzialmente scrivere, addirittura innestare, qualsiasi tipo di abilità, attitudine, talento, credenza o atteggiamento che sia, non risparmia nel suo romanzo una profonda riflessione polemica di moralità e immoralità in una Utopia modellata scientificamente grazie a ben strutturati processi di condizionamento comportamentale. La mente umana non viene considerata un dominio di pertinenza, anzi, anch’essa altro non è che l’insieme di tali condizionamenti (“La cultura è ciò che rimane quando ciò che è stato appreso è stato dimenticato”).
Nel 1934 il filosofo, scrittore e pittore Julius Evola pubblicò la sua opera “Rivolta contro il mondo moderno” in cui espone il suo pensiero e il concetto di Tradizione. Il suo è un pensiero ampio, complesso e anticonformista rispetto ai tempi che lo videro attivo, nei decenni a cavallo della seconda guerra mondiale. Benché molto vasto, uno dei cardini del suo pensiero è la nozione di Tradizione; ripulito dalle sue dimensioni più mistiche ed esoteriche, la Tradizione consisteva per Evola in ciò che noi chiameremmo un Organizzatore Sociale. Fortemente intriso di valore morale, la Tradizione consiste in un retaggio, nell’idea che l’uomo possa elevarsi attraverso uno stile di vita ascetico e retto, fatto di regole e valori:
“…uscire dalla Tradizione significava uscire dalla vera vita; abbandonare i riti, alterare o violare le leggi, confondere le caste, retrocedere dal cosmos al caos, ricadere sotto l’influenza dei “totem” – prender la “via degli inferni”, dove la morte è una realtà,
dove un destino di contingenza e di dissoluzione sovrasta ogni cosa”
(J. Evola – Rivolta contro il mondo moderno)
“Da un certo tempo buona parte dell'umanità occidentale considera come cosa naturale che l'esistenza sia priva di ogni vero significato e non debba essere ordinata a nessun principio superiore, per cui si è acconciata a viverla nel modo più sopportabile, meno spiacevole possibile. Ciò ha tuttavia come controparte e conseguenza inevitabili una vita interiore sempre più ridotta, informe, labile e sfuggente, una crescente dissoluzione di ogni dirittura e di ogni qualità di carattere.”
(J. Evola – Cavalcare la tigre)
Da questa seconda citazione, tratta da “Cavalcare la tigre” del 1961, si possono compiere molte considerazioni circa il pensiero evoliano su ciò di cui qui si sta parlando. L’autore siciliano delinea un modus e uno status per un’esistenza fatta di significato per l’individuo, un significato al di fuori del quale esiste solo dissoluzione e caos, le quali, come appare dalle poche righe qui sopra, viene primariamente ricondotta alla dimensione interiore dell’Uomo, quasi fosse l’unica che ha realmente un’importanza e una consistenza esistenziale. La Tradizione è il riferimento interiore per vivere la propria vita terrena con onore, rispetto e Identità.
Quasi contemporaneo di Evola, René Guenon, scrisse nel 1927 (fu proprio Evola a scriverne l’introduzione) una delle sue opere più importanti “La crisi del mondo moderno”. Il suo pensiero corre parallelo a quello evoliano in quanto vi si denuncia la profonda instabilità della società dovuta al venir meno di quegli aspetti tradizionali di ordine e gerarchia, capaci di conferire agli individui e alle strutture sociali a cui appartengono il giusto ruolo ma, soprattutto, il corretto posizionamento nel mondo. In una perfetta matrice “Spiritualista”, Guenon denuncia il venire meno sempre più marcato delle “caste”. Questo termine, molto lontano dal significato negativo cui oggi gli viene riconosciuto, rappresenta l’antitesi di ciò che lui chiama Democratismo, ossia la negazione del significato di casta in senso tradizionale, ovvero:
“…la casta, intesa nel suo senso vero e tradizionale, altro non è che la
stessa natura individuale con l’insieme delle attitudini speciali che essa implica e
che predispongono ogni uomo all’adempimento di una data funziona e non di un’altra”
(René Guenon – La crisi del mondo moderno)
Gli aspetti interessanti di questi autori, come già precisato, non sono gli aspetti politici (spesso strumentalizzati a posteriori dai loro detrattori) ma il fatto che con decenni di anticipo seppero intuire la profonda deriva interiore a cui l’uomo occidentale stava andando incontro, sempre più concentrato sugli aspetti materiali ed estemporanei della vita, divenuta terreno di una sterile e meccanica uguaglianza aprioristica che rende gli individui tra loro indistinguibili, privati di una Identità propria che possa alimentare il senso di/del Sé, di autoefficacia e di profonda realizzazione spirituale individuale (quindi collettiva), capace di proporre una società certamente gerarchica, ma tale poiché siffatta è la natura degli individui e, soprattutto, perché solo attraverso questo criterio di diversità degli uomini risulta possibile realizzare, all’interno delle strutture sociali, la loro parte migliore e più spirituale grazie a funzioni di specializzazione e di dedizione, a beneficio del singolo individuo ma anche della collettività medesima.
“La causa di siffatto disordine è la negazione di una tale differenza, denegazione che implica quella di ogni gerarchia sociale. …la confusione delle caste ha preceduto la loro completa soppressione… perché si è disconosciuta la natura dei singoli prima di finire col tener alcun conto di essa – una tale negazione, diciamo, è stata costituita dai moderni in uno pseudo-principio sotto il nome di “eguaglianza”
(Renè Guenon – La crisi del mondo moderno)
Baumann non è che l’ultimo a rimescolare questo concetto da un punto di vista sociologico, e in termini un più pragmatici rispetto al passato, senza dimenticare che la stessa “epoca” del ‘900 che lo vede osservatore diretto della realtà è profondamente diversa rispetto a quella degli altri autori citati. La sua visione è figlia della epocale caduta dell’Unione Sovietica nel 1991 e la conseguente globale rimescolanza di popoli, nazioni, culture, Stati e interessi che hanno gettato ogni tipo di status quo, ossessione per decenni di molti politici della Guerra Fredda, in un tritacarne che ha restituito al mondo solo le polveri di ogni qualsivoglia appartenenza. Gli psicanalisti direbbero che i vecchi contenitori che conferivano senso di appartenenza e Identità alle persone erano svaniti, svuotati di ogni contenuto e significato. E se la visione di Baumann e la sua opera hanno aiutato a comprendere e rielaborare, anche psicologicamente, un evento così destabilizzante per il mondo come la fine del bipolarismo Usa-Urss, che per più di 40 anni aveva rappresentato il CRITERIO di scelta di appartenenza politica, militanza intellettuale, persino di micro-confini geografici e motivo di aderenza a valori visioni/sistemi che conferivano chiavi di letture e di interpretazione degli avvenimenti che materialmente accedevano nel corpo e nella mente della Società, a soli pochi decenni di distanza dalla sua analisi, questa è ormai anch’essa stata polverizzata dai nostri tempi. Baumann partiva dal presupposto che le strutture sociali in essere non fossero eterne o insostituibili ma che, per usare termini più accessibili rispetto ai suoi, erano in grado di risorgere in forme e con funzioni nuove sulla base delle esigenze della realtà contingente. La destrutturazione quindi era necessaria, se non addirittura auspicabile, affinché la Società e i suoi individui procedessero ad un processo continuo di adattamento, di forgiatura di nuovi contenitori in grado di svolgere la loro funzione in modo più efficacie in relazione ai tempi e alla necessità. Le strutture intermedie (es. Chiesa, i partiti, la scuola, la famiglia, l’associazionismo politico…) che avevano retto la complessiva struttura Identitaria individuale e collettiva, in breve tempo cessarono di esistere: niente più ideologie, partiti politici, valori morali, appartenenze… Il problema tuttavia non fu tanto quello bensì che da quello, nulla fu più ricostruito a favore del bene collettivo.
Psicologicamente la funzione delle strutture intermedie era fondamentale: erano enormi contenitori di ansia. Gli individui hanno da sempre creato situazioni e strutture collettive, gruppi (non masse) dei quali fare parte: amici, lavoro, famiglia, religione, politica, situazioni sociali tra le più varie che, molto spesso indirettamente, assolvevano la funzione di contenere le angosce più profonde dell’esistenza; contenitori entro i quali riporre e scaricarle l’ansia e nei quali potersi identificare, grazie alle relazioni umane che in esse venivano costruite. Gli individui erano in grado di rispondere all’interrogativo: “Chi sono io?”. Senza più questi contenitori, dove riporre l’ansia e soprattutto, con cosa identificarsi? Come dare risposta alla domanda su chi si è nel mondo?
Questo secondo quesito ci porta al cuore della questione di cui vorrei discutere. Il filo rosso che unisce il pensiero della manciata di autori che ho citato in questa introduzione consiste nella loro intuizione circa le sorti dell’uomo moderno, un uomo sempre più snaturato, fuori posto e privo di strutture sociali che lo supportino; un uomo che baratta la sua spiritualità per un materialismo effimero, un consumismo vorace che piano piano divora anche la sua Identità che, quindi, smette di essere una dimensione interiore ed intellettuale ma totalmente superficiale e materialista, spesso strettamente e unicamente visiva. Non siamo più quello che pensiamo ma ciò che la Società ci impone di fare: comprare, consumare, godere, prevaricare… senza più pensare chi siamo, come funziona la nostra mente e quali sono i suoi bisogni. L’ansia, che ad esempio per Heidegger era un motore importantissimo per la realizzazione umana, viene ora anestetizzata dall’insostenibile “rumore” di ciò che ci circonda. La nostra intima Identità svilita e disintegrata: così facendo siamo diventati i pupazzi delle nostre angosce più profonde, impossibili da far tacere e sublimate anch’esse nel caos che ci sta intorno.
L’Identità vuota
Il cuore della questione quindi consiste nel comprendere e avere chiaro quale sia la natura delle Identità psichiche degli individui che sono “nati e cresciuti” all’ombra dello sfarinamento sociale del secolo passato. Caduta ogni forma solida di appartenenza identitaria vissuta, ragionata, pensata e argomentata… cosa rimane? Come accogliere le loro angosce? E cosa può fare la Psicoanalisi di fronte a questo frullatore?
Quando si considerano i processi di formazione dell’Identità, non ci si può esimere dal considerare l’età adolescenziale come punto di riferimento di massima, in relazione alle tempistiche con cui tale specifico processo che tiene occupati i ragazzi tra i 13–19 anni in modo continuo avviene, con modalità estremamente delicato e a volte dolorose. Ciò avviene, da una parte, attraverso un processo di separazione-individuazione dalle figure genitoriali, che fino alla pre-adolescenza (11-13 anni) continuano a rappresentare le figure con le quali identificarsi e alle quali fare riferimento; allo stesso tempo, la loro sostituzione con altre figure, valori, stili, idee, sogni e speranze che li rendano intimamente indipendenti, meglio, che li rendano diversi nella loro unicità nei confronti delle figure di accudimento dalle quali si emancipano sempre di più, e sia dai loro pari, anch’essi impegnati nella medesima sfida (13-19). Tendenzialmente, i primissimi anni dell’adolescenza sono anni molto frenetici per ragazzi e ragazze, impegnati a misurarsi con nuove identità, nuove sfide ed esperienze che gli consentano di sperimentarsi in ruoli che fino ad allora non avevano nemmeno mai sognato o conosciuto, a cimentarsi con il rischio per misurare la loro audacia, nel medesimo momento in cui si sono impegnati (separarsi) nell’emanciparsi dalla propria famiglia. L’adolescenza è l’età delle grandi speranze, dei grandi sogni e delle grandi identificazioni con le personalità più varie, utilizzate come banchi di prova per aggiustare e testare gusti, preferenze e capacità: cantanti, politici, sportivi, artisti, professori, amici, ideali….
Usciamo però dalle pieghe, seppur affascinanti della Teoria, per guardare con occhi vivi il mondo che ci circonda, perché in tutto questo si è insinuato un enorme “ma…”: dove sono finite le figure, i sogni e le passioni con le quali identificarsi per gli adolescenti di oggi? Dove sono quei loro piccoli grandi contenitori in cui si affacciano da soli per la prima volta a sperimentare sé stessi? Dove sono i miti adolescenziali (noi boomer ne avevamo i poster in camera)? NON CI SONO, NON CI SONO PIÙ. Quindi, che fare? Cosa poter attingere di utile dal caos per costruire la propria Identità di individuo adulto?? Cosa rimane loro se non le rovine di vecchi miti oramai fuori luogo e fuori posto perché tutto ha un timing preciso?
I giovani di oggi sono protagonisti di un vero e proprio “collasso identitario”, perché vivono una Società che ha ormai negato e rifiutato la possibilità di fornire loro “oggetti” (in senso amplio) coi quali riconoscersi e misurarsi, rendendo impossibile quell’indispensabile processo di identificazione (ripetuto e continuo) fondamentale per capire chi si è, chi si vorrebbe essere e perché.
Se quindi, da una parte, il processo di separazione, seppur anch’esso ai nostri giorni molto accidentato a causa di genitori iper-protettivi che con sempre maggior fatica lasciano andare i figli “per il mondo”, il problema grosso è il vuoto che gli adolescenti incontrano sul loro cammino, perché, se da una parte si sono liberati in modo efficacie della loro parte infantile, non hanno più a disposizione sufficiente materiale, qualitativo e quantitativo, per la costruzione della loro identità adulta. Ecco quindi che viene a definirsi per molti degli adolescenti (ma non solo) di oggi una “identità concava”, ossia una identità debole, incapace di reggere l’angoscia che identificazioni troppo deboli lasciano fluttuante nella mente di un individuo, tanto da finire per farla collassare, incapace con la sua fragilità di sostenere il peso di un Sé e un’autostima sufficientemente resistente da non crollare sotto i colpi di un’esistenza, la nostra, difficile e confusa. Gli individui infatti, assaliti dall’angoscia di non sapere chi siano in questo mondo, non hanno altra scelta che rivalutare e identificarsi con le precedenti svalutazioni fatte, con modelli e valori ormai desueti, rivalutandoli e con essi identificandosi. Il problema che identificarsi con un “oggetto” ormai svalutato ha, a mio avviso, due enormi problemi: 1) l’identificazione non potrà che essere estremamente debole poiché esito di un processo mentale quasi obbligato, ultima possibilità per non essere risucchiati da un’angoscia di annichilimento che rischia di tramutarsi in pulsione di morte “psichica” (vedi Roussillion); 2) per poter anche solo lontanamente reggere tutta la complessa struttura identitario/esistenziale, queste identificazioni devono essere estremizzate, ricondotte alla massima estensione della loro potenza. Tornano allora in mente le parole di J. Evola il quale, con decenni di anticipo, avvisò del rischio, a fronte della mancanza nell’Uomo di un VERO significato, di una decadenza del mondo interiore dissoluto, privo di limiti e valori morali poiché la inderogabile necessità di sapere cosa siamo, viene raggiunta sostituita sacrificando ogni tipo di logica, conoscenza, ragione, meditazione o riflessione interiore, dubbio o confronto, il tutto sacrificato sull’altare dell’immanenza, del materialismo e del liberalismo morale più sfrenato. Ciò che prima imponeva agli adolescenti e ai giovani adulti un precesso di assimilazione e di digestione di tematiche complesse, di spiegazione e di confronto, in primis la Scuola e la Famiglia, sono state profondamente svalutate dalla società; la fiducia tra queste due figure è venuta meno, lasciando smarriti coloro i quali non hanno più, ad oggi, la necessità impellente di imparare inteso come processo di accumulazione di nozioni, bensì di imparare a pensare e a pensarsi come soggetto pensante nel mondo, appartenente ad una comunità allargata il cui Bene/Benessere non è una questione privata ma patrimonio di una collettività.
Come le erbacce sui resti di un tempio antico ormai in rovina, la globalizzazione selvaggia e l’individualismo smodato e consumistico hanno fatto tabula rasa di ogni limite, di ogni regola… di ogni necessità di pensare il proprio corpo e la propria interiorità come una cosa sola.
Oggi niente dura più di qualche secondo, non c’è nulla che resista alla frenetica e schizofrenica velocità di andare veloce per non correre il rischio che gli individui si fermino nuovamente a pensare.
E quindi? I nostri adolescenti che fine fanno? Le nostre Identità, quale forma assumono? Rispondere a questa domanda non è facile; chi vive “per la strada” tenendo la testa alta per osservare il mondo senza torcerla su qualche inutile telefonino, qualche idea la possono avere. Oggi siamo al cospetto di una generazione di adolescenti (e giovani adulti) completamente borderline, sempre più estremizzata e barricata sulle sue posizioni, senza la possibilità di poter mettere minimamente in discussione le proprie posizioni: bianco o nero, nessuna sfumatura di grigio a minare la fragile integrità di una struttura identitaria povera quantitativamente e qualitativamente. Tuttavia il rischio futuro consiste, a mio avviso, in una possibile psicotizzazione della Società: l’eccessiva rigidità di una posizione saturante il significato del nostro Sé sarà difesa dall’individuo a qualsiasi costo, anche a quello di costruire artificiosamente e irrealisticamente argomentazioni che la sostengano in modo “inoppugnabile”, con il rischio di rimanere impantanati in il-logiche paranoie e congetture deliranti. Un esempio banale di tale processo è il dilagare di “teorie del complotto” totalmente illogiche e difficilmente anche solo considerabili oggetto di discussioni, al solo scopo di puntellare, laddove si aprono crepe, la struttura identitaria saturante che altrimenti rischierebbe di crollare. L’idea o la convinzione che “regge il tutto” deve essere difesa ad ogni costo, anche quello di sacrificare l’uso della ragione e una attenta riflessione che coinvolga la nostra coscienza morale. Anche questo è materialismo perché è solo la superficie liscia e visibile delle cose a contare, ciò che vi è nascosto sotto è tombato, sigillato senza alcuna possibilità di accesso.
Facciamo qualche altro esempio, sempre con la cautela di rimanere imparziali e utilizzare lo specifico contenuto per gli obiettivi di questo articolo. La guerra israelo-palestinese: da che parte stare? La risposta non potrebbe essere che una: la domanda è posta male perché oramai la ragione si è persa nella notte dei tempi, ma: chi, oggi, si “permette” di dare una risposta del genere, una risposta grigia, appunto? Troppo complessa per potersi esaurire con un “dalla parte di questo” o “dalla parte di quello”, ma coloro che “osano” riflettere vengono accusati ora di antisemitismo, ora di islamofobia (nella maggior parte dei casi di profonda ignoranza) che, con uno sforzo notevole e per amore della Scienza potrei anche accettare ma, ciò che non è lecito accettare, è che risulti impossibile passare allo step successivo, ossia l’argomentare il perché stare di qua o di là al 100%…. il vuoto: nessuna argomentazione solida, nessuna autocritica, nessuna riflessione che imponga una osservazione interiore alla nostra coscienza morale e ai valori di cui è portatrice. Solo certezze e nessun dubbio, fallaci e instabili. Lo si può osservare sui social, nelle trasmissioni televisive, sui giornali, in quelle poche discussioni pubbliche che per miracolo si possono incontrare, nei libri che vengono pubblicati … L’estremizzazione pericolosa della Società non-pensante passa da soggetti rei dello stesso imperdonabile peccato. Una volta in un film si diceva: “Se argomenti bene le tue risposte, allora non avrai mai torto”. Chi oggi è in grado di argomentare seriamente una sua posizione: questa possibilità è stata sacrificata al bisogno di essere qualcosa che si identifichi con una idea solida, granitica e indiscutibile.
Ulteriore esempio, argomento delicato: i femminicidi. “Ci sono sempre stati” o “colpa del patriarcato”; contenuto diverso ma stessa identica dinamica: la profondità di un ragionamento articolato che attinga alle nostre dimensioni interiori, tra tutte la coscienza morale di un Super-Io solido o, semplicemente modelli oggettuali che abbiano insegnato all’adolescente in formazione la necessità dell’uso della Ragione e che questa entri in risonanza con le nostre dimensioni interiori più profonde e radicate, non sono contemplati. Il grigio non va più di moda, quindi: “è colpa del Patriarcato”. Probabilmente chi risponde in questo modo non sa nemmeno che cosa sia, ma basta a posizionare la sua struttura identitaria in un posto “comodo”, un posto che ha uno “spessore” che all’individuo appare chiara e che contenga l’angoscia del vuoto.
Ma perché questo? Rimanendo nell’alveo della trattazione, sembra che gli adolescenti e i giovani adulti siano alla disperata ricerca di qualcosa con cui identificarsi, non importa cosa o perché, importa solo che quel qualcosa ci sia. L’angoscia di dover entrare in contatto con i propri vuoti e la fatica di una formazione personale attraverso regole e limiti, è per loro assolutamente insopportabile. Questo, a sua volta, porta ad “esacerbare gli animi” e a scatenare violenza e rabbia, tutta energia psichica che gli individui hanno la necessità di scaricare ma per i quali non hanno più né il modo (né il luogo soprattutto) di farlo in modo produttivo. La società di oggi non vuole che si pensi troppo: il pensiero è dubbio, può portare indecisione e soprattutto saggezza. La Società di oggi non vuole saggezza, vuole solo tanti burattini che crescano comodi e consumino le loro passioni tristi al riparo dai rischi di una vita interiore vissuta integralmente, anche con dolore e difficoltà ma a beneficio di una costruzione di sé autentica. Ecco quindi che si crea una situazione quasi “a doppio borderline”: una parte dei giovani si estremizzano sputando rabbia e insofferenza ovunque, l’altra si spegne lentamente davanti allo schermo di qualche serie TV, di qualche sito pornografico o davanti a decine di partite di calcio trasmesse a tutte le ore del giorno, narcotizzato da stimoli privi di contenuto. È come quando entri in pasticceria: la cialda del cannolo è vuota così dentro puoi metterci quello che vuoi.
Questa tipologie di Identità, fragili e superficiali, sono estremamente pericolose poiché, dal momento che dovessero crollare, lascerebbe l’individuo in una situazione di disagio estremo i cui esiti possono anche essere imprevedibili ed estremamente pericolosi; l’invasione improvvisa di ansie e angosce fino ad allora inesplorate possono essere difficilmente gestibili da chi non è mai stato abituato a farlo e che invece all’impressivo si trova a dover fronteggiare movimenti mente/corpo per lui sconosciuti.
Questa dinamica si inquadra in una situazione per la quale, da una parte la Società del consumo e dell’informazione semplice e veloce, cerca di influenzare gli adolescenti e i giovani adulti a diventare come li si vorrebbe: consumatori sdraiati sul divano, privi di capacità riflessive e reattivi solo a stimoli controllati.
Agli inizi degli anni 2000 una serie di ricercatori americani effettuarono diversi studi in cui cercarono di comprendere le ragioni, in aggiunta a quelle già note, all’incredibile aumento dei casi di suicidio tra adolescenti e giovani adulti tra i 15 e i 25 anni, che in quegli anni fecero registrare una drammatica impennata. (tasso che negli USA quasi raddoppiò). Molti fattori di rischio erano già noti: ad esempio, condizioni socio-economiche svantaggiose, isolamento sociale, stati depressivi, funzionamenti familiari disfunzionali, attaccamenti insicuri, traumi… Qualche ricercatore tuttavia, ipotizzò che, oltre ai noti fattori di rischio, ve ne fossero altri, nuovi e mai intercettati prima, che concorressero a spiegare l’aumento vertiginoso dei casi di suicidio o di tentato suicidio (TS). Alcuni ipotizzarono che la crescente tecnologizzazione dell’esistenza dovuta a social media e mezzi di comunicazione a distanza avessero talmente svuotato le relazioni da renderle (anch’esse) contenitori vuoti e insignificanti; altri, più recentemente, considerarono le conseguenze del Covid ma, su tutti, uno sparuto gruppo di ricercatori ipotizzò che uno dei fattori alla base dell’esplosione di tale fenomeno, fosse la mancanza di “miti” per i giovani americani nei quali identificarsi, dai quali prendere ispirazione e costruire la loro identità. Non a caso, in molti studi che hanno cercato di dare una spiegazione a questo problema gli intervistati, adolescenti e giovani adulti che avevano un TS alle spalle, si sono registrati tassi di ansia, depressione, solitudine e rabbia, ben più alti dei decenni precedenti. Lo stress, probabilmente, di “fallire” un compito evolutivo così complesso e al tempo stesso determinante per la propria crescita era eccessivo da sopportare, non sostenuto da nessuna figura credibile di riferimento, privata o sociale, e privo di quegli oggetti in cui identificarsi il cui esito altro non poteva essere che una condizione di insopportabile contatto intimo e profondo con il proprio VUOTO INTERIORE, tale da determinare, nei casi ovviamente più complessi e già compromessi l’extrema ratio.
In uno studio di oltre 20 anni fa (1998) che aveva l’obiettivo di indagare le ragioni tra i tentativi di suicidio negli adolescenti e il loro funzionamento psicologico, Boergers et al. individuarono un aspetto estremamente importante, soprattutto se pensiamo alla distanza temporale che ci separa da quel dato: “... The most commonly endorsed reasons for suicide attempts were intrapersonal rather than interpersonal in nature, consistent with previous research with both adults (Michel et al., 1994) and adolescents (Hawton et al., 1982; Kienhorst et al., 1995). Thus, although interpersonal problems are common precipitants for suicide attempts (e.g., Spirito et al., 1989b), intrapersonal motivations for suicide attempts are more commonly reported by adolescents”. (Boergers, Spinto & Donaldson, 1998, pag. 1291).
Queste ultime considerazioni quindi pongono un ulteriore problema, ossia la relazione tra formazione identitaria e patologia clinica. Se da una parte, infatti, le relazioni sociali arricchiscono il nostro Sé e rendono la nostra Identità multi sfaccettata e fattore di protezione per il nostro benessere interiore, la loro assenza può avere gravi conseguenze e portare i giovani ad un senso insopportabile di vuoto e di angoscia, tanto da preferire la morte al dolore, o sfociare in disturbi clinici quali il ritiro estremo, l’uso di sostanza come sostitutivo o, peggio la “narcotizzazione sociale” in cui le persone vivono tutto senza alcuna passione.
In conclusione è possibile, a mio avviso, definire i tempi che viviamo come l’era dell’“Ateismo Identitario”: così come le persone hanno abbandonato la propria fede religiosa a favore del materialismo utilitaristico in cui viviamo, le stesse hanno abbandonato la loro appartenenza identitaria e, quindi, la condivisione di principi e valori che rappresentavano il collante delle strutture sociali in favore in un vissuto totalmente narcisistico o post-narcisistico. Se da una parte sappiamo che soggetti con un’identità variegata, ricca e polimorfa, sono portatori di un fondamentale fattore di protezione che rende l’angoscia del vuoto e della frustrazione sopportabile, dal momento che vi sono molteplici dimensioni identitarie pronte a sostenere la struttura complessiva, facendosi carico di quel pezzo di angoscia rimasta “scoperta”, anche in caso di crisi; dall’altra assistiamo alla formazione di individui la cui identità è sempre più povera e indefinita, il che li lascia alla mercè potenzialmente distruttiva di delusioni, frustrazioni, disagio e malessere. Le conseguenze di questa fragilità sono una sostanziale impreparazione alle difficoltà del mondo, una scarsissima preparazione e conoscenza agli eventi del mondo che ci circonda e una maggiore esposizione alla patologia. Su quest’ultima considerazione, anch’essa impossibile da approfondire in questa sede, pesanti sono le responsabilità riconducibili alle modalità educative delle “giovani famiglie”.
È ahimè purtroppo impossibile cercare di argomentare o di esporre qualche riflessione su altre dinamiche adolescenziali che in questa Società hanno messo a nudo TUTTA la fragilità di una intera generazione: prima fra tutte la sessualità, vissuta in modo effimero, superficiale e infantile, ridotta a solitaria scarica pulsionale completamente vuota di ogni significato profondo e relazionale; lo sport (a tutti i livelli) vissuto come competizione e non più come divertimento e momento di unione; il lavoro (per il denaro), anch’esso divenuto la nuova divinità da celebrare e a cui essere totalmente fedele … Per tutti questi aspetti si assiste ad una estremizzazione che come una piaga appiattisce tutte le restanti parti dei molti significati in essi incorporati. Anche noi Allievi delle scuole di Specializzazione: lezioni, studio, tirocinio, supervisioni, pazienti, lavoro, rette da pagare, analisi personale…. e poi? Che forse qualcuno si sia dimenticato di insegnarci come si osserva e si studia il mondo reale, quello vero, fuori dalla stanza di analisi?
Il ruolo del setting
Dalle poche righe a cui fin qui ho cercato di dare un senso, dovremmo quindi ricavare qualche buona indicazione come terapeuti e analisti. E qui nasce subito un grosso problema che ha tutta l’aria di tendere al paradosso: se il setting, per definizione è un contenitore con regole e limiti ben definiti, come possiamo accogliere debitamente il disagio di pazienti che non hanno nemmeno la nozione di contenitore?
In un certo senso, la finalità di una situazione del genere potrebbe essere proprio quella di determinare, nello spazio intimo del setting, un processo di acquisizione della nozione di contenitore in modo sufficientemente esaustiva da portare il paziente a comprendere quanto questo sia essenziale per la sua vita. Esistono ovviamente una moltitudine di problemi che sarà arduo, per un qualsiasi professionista, affrontare: 1) l’analisi di un adolescente ha poco senso, meglio una psicoterapia face-to-face; 2) quali strumenti usare se davanti, ad esempio, ci troviamo un sarcastico e spavaldo arrogantello che gioca a sfidarci; 3) come rendere “interessante” in nostro lavoro e trasmettere la sua importanza al paziente; 4) che tipo di contratto porre in essere: classico o flessibile; 5) come gestire il nostro setting interno.
Sono domande lecite ma da un milione di dollari. La ricerca e tutto il mondo della psicologia si è trovata di fronte a queste nuove sfide in maniera molto rapida, talmente rapida da non aver avuto ancora il tempo per effettuare ricerche, valide e affidabili, in una mole sufficiente da poter restituire indicazioni con un margine accettabile e utile (per noi) di certezza.
Non resta che fare appello alle nostre sensibilità personali per effettuare qualche riflessione in merito; tuttavia deve essere ben chiara la finalità che ci vogliamo porre nel trattamento di questo genere di adolescenti e di individui: non tanto la costruzione di una identità “insieme” a loro ma il duplice aspetto di aiutarli ad accedere ad un livello di comprensione di quanto sia importante la nostra struttura identitaria, quando questa affondi nelle dimensioni interiori del nostro funzionamento mentale e quanto possa incidere sul nostro benessere; secondariamente, costruire insieme a loro (andando nelle profondità della loro esistenza) gli strumenti che dovranno utilizzare “in autonomia” per costruirsi un’identità quanto più varia, solida, profonda nelle sue radici e fattore di protezione solido contro il dolore della vita e la solitudine.
Gli aspetti propedeutici al trattamento degli adolescenti sono, a mio avviso due, entrambi a carattere psicoeducativo: partendo dai loro racconti, cercare di cogliere e di accogliere tutto il loro disorientamento alla mancanza di una struttura nella loro vita e nella loro identità (es. sessuale, relazionale, lavorativa, familiare, scolastica…); insomma, la costruzione di una alleanza terapeutica che sia forte e soprattutto rifletta la nostra totale disponibilità ad accogliere ogni aspetto, anche il più nascosto e imbarazzante, che l’adolescente porta dentro (magari senza saperlo). Questo può sembrare un aspetto scontato nelle terapie, e in molti così lo è; ma se consideriamo lo specifico background degli adolescenti che incontriamo, privi di riferimenti e punti fermi, assolutamente non lo è; in aggiunta a questo è da considerare la natura “variopinta” di ogni singolo adolescente che obbliga NOI ad adeguare la tecnica alle loro caratteristiche psichiche (in senso amplio). Probabilmente, una volta creata una buona alleanza, il paziente sarà disposto a fidarsi, ad aprirsi e anche a farsi indagare. Qui subentra un ulteriore differenza rispetto all’analisi classica: è totalmente impensabile compiere un lavoro produttivo senza l’uso di una tecnica dialogica e “investigativa” (discreta) nei confronti di adolescenti e giovani adulti: questo serve non solo a conoscerli ma anche a mettere sul piatto una serie di elementi ricavati dalle dimensioni interiori del soggetto che, proprio perché sconosciute, necessitano di un periodo di significazione, assimilazione e digestione, cui noi dobbiamo sempre essere pronti a supportare (e anche sopportare talvolta) nel momento ce ne sia bisogno, nonostante sia un’operazione che il paziente deve necessariamente compiere da sé.
In questa prima parte, diciamo, potremmo anche pensare di mantenere il caos che il ragazzo porta all’interno della terapia, con l’accortezza però di organizzarlo nel nostro setting interno che per forza di cose dovrà essere sufficientemente amplio; se da una parte, in questi casi, la diagnosi può attendere o anche non ricoprire il ruolo fondamentale come con i pazienti adulti, il nostro compito è quello di cominciare subito ad organizzare il caos, al fine essere pronti alla comprensione di ogni piccolo movimento, confidenza, paura o desiderio del paziente. Da questo punto di vista possiamo allora sì compiere un lavoro analitico di connessione tra elementi che ci avvantaggino nella ricostruzione della “struttura” dell’adolescente, al fine di cercare i buchi, le mancanze, le assenze di quelle che sono vere e proprie conoscenze: cos’è un contenitore?? Cosa l’Identità?? Quale la differenza tra sesso e amore?? Cos’è il rischio e perché lo ricerchiamo??
Usiamo questa immagine: pensiamo ad un grosso imbuto in cui la parte superiore, proprio come una coppa, è destinata a raccogliere TUTTO ciò che ci viene detto, raccontato, confidato, confessato… senza la pretesa di un ordine. All’interno di questo grande calderone verranno, a mio avviso, rigettate anche tutte le angosce e le paure che le medesime narrazioni (di qualunque genere) sono portatrici: ben venga, un accesso, se Dio vuole, al mondo interiore, fatto sotto la spinta di null’altro se non di un inconscio desiderio del paziente di portarle a galla, di averle davanti e, a quel punto, di capire cosa sono e la loro relativa funzione. Ribadisco che questa molto probabilmente lunga fase deve avvenire all’interno di una cornice di Alleanza Terapeutica molto forte e di un setting esterno che non conceda eccezione alcuna al paziente relativamente alle condizioni stabilite nel contratto: è anch’esso uno strumento molto forte (forse il primo) di ordine e disciplina.
Questo processo, immagino lungo e a volte doloroso, potrebbe terminare idealmente quando il paziente prende coscienza del caos che da troppo tempo alberga in lui, fino a quando la misura dell’imbuto non è piena. Sarà allora che tutta questa gran massa di “cose” (per non ripetermi) servirà metterle piano piano, con delicatezza e tempo sufficiente, in ordine, evidenziandone le profonde falle e le assenze di significato in esse contenute. Immagino che possa essere assimilabile ad un processo simile alla regressione, in cui si torna indietro nello sviluppo al fine di riporre i pezzi a disposizione in una distribuzione più ordinata, in grado di evidenziare nel setting (quindi a entrambe) i buchi, le concavità e le profonde mancanze, al fine di procedere, sempre più in profondità, nella comprensione (per il paziente) di quanto questi siano irrimediabilmente da significare. Come? Attraverso un processo di spiegazione e attribuzione di significato delle funzioni e dimensioni mancanti, la loro importanza e soprattutto la loro funzione protettiva nei confronti dell’angoscia. Discutere della tecnica col quale poi il paziente sarà impegnato fattivamente in questo processo è inutile, dal momento che ognuno avrà aspetti e caratteri specifici da colmare; il compito del terapeuta quindi si deve fare un po’ più discreto, in modo da lasciare al paziente la scelta di contenuti e strumenti a lui idonei (e sani).
Non potendo utilizzare gli strumenti classici della Psicoanalisi, il processo terapeutico si adatta ad un processo di educazione/erudizione sul funzionamento mentale prima e di approfondimento poi delle dimensioni più interne “mancanti” e della loro funzione; come detto, una solida Alleanza Terapeutica e un ruolo del terapeuta stesso molto più attivo e partecipe fanno si, a mio avviso che, la modalità face-to-face sia imprescindibile e che le libere associazioni debbano essere più un nostro strumento interno che un precipuo strumento di lavoro. Una volta fatto ordine, attribuito un significato alle mancanze, aggiunte ad una sufficiente conoscenza di sé, sarà possibile vedere defluire dall’imbuto un getto di acqua ordinato e continuo, segno di una ritrovata stabilità e, si spera, di un benessere vissuto soprattutto interiormente.
Un ultimo aspetto su cui sono convinto valga la pena spendere due parole è il silenzio. Consapevole che il silenzio rappresenti uno situazione molto forte in analisi, non credo che un adolescente o un giovane adulto possa attribuirgli il giusto significato (considerando anche la ridotta resistenza alla frustrazione), per poi rielaborarla con l’analista; inoltre, la terapia in questi casi dovrebbe avere la sfumatura di “sfida”, di un incontro-scontro in cui i giovani pazienti si trovano a lavorare, anche duramente, con chi ha il dovere di incalzarlo e stimolarlo, con l’accortezza di non lasciar mai trasparire l’idea di aver a che fare con chi la sa più lunga di loro. Per un semplice motivo: non possiamo sapere se è vero e se anche fosse qual materiale sarebbe per noi prezioso, sarebbe un errore tecnico inibirlo con la nostra saccenza, svalutarlo o marginalizzarlo. Come ho detto precedentemente, TUTTO deve essere “sul piatto”, senza limiti né censure. Sarà il passo successivo a determinare se un certo contenuto ha valore per il paziente, un suo potenziale impiego o se rappresenta un aspetto mortifero da affrontare per quello che è, sublimandolo in maniera più costruttiva.
Dirlo può essere facile ma il fascino di ciò che facciamo è rimanere lucidi, avere obiettivi chiari e quello che avviene nel mentre è un imprevedibile mondo di scoperta, stupore, dolore e coraggio.
Conclusioni
Il lettore dovrà anzitutto scusarmi se la mia narrazione è risultata a tratti eccessivamente lineare ma lo spazio a disposizione era troppo esiguo per affrontare lucidamente e in modo debitamente esaustivo un argomento così complesso e, come detto, ancora in profonda evoluzione e definizione. Ritengo tuttavia essenziale che tutto il mondo della Psicoanalisi (e non solo), soprattutto noi Allievi in formazione, comincino da subito a interrogarsi su tali dinamiche al fine di essere sufficientemente consapevoli di ciò che potremmo incontrare nell’esercizio della nostra professione. Spero tuttavia che la mia trattazione possa fornire qualche spunto di riflessione, qualche idea e perché no anche qualche critica, al fine di poter strutturare un dibattito serio e produttivo sulle conoscenze e i processi di presa in carico di un crescente numero di adolescenti che attraversano gli anni della propria formazione psichica sempre più spaesati e impauriti.
Baumann, Z., (1999), Modernità Liquida, Laterza, Bari-Roma.
Boergers, J., Spinto, A., & Donaldson, D. (1998), “Reasons for Adolescent Suicide Attempts: Associations With Psychological Functioning”, Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry, 37, (12), 1287 - 1293.
Evola, J., (1961), Cavalcare la tigre, Gruppo Editoriale Mediterranee, Roma.
Evola, J., (1934), Rivolta contro il mondo moderno, Ulrico Hoepli, Milano.
Guenon, R., (1927), La crisi del mondo moderno, Enigma, Firenze.
Skinner, B. (1948), Walden II , La Nuova Italia, Venezia.
[1] I riferimenti ad alcuni di queste personalità è totalmente circoscritto ai fini di questo scritto, senza alcuna velleità di richiamare il loro pensiero su tematiche altre che non sono qui pertinenti.