Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

WORK IN PROGRESS N. 32
1 - 2025 mese di Giugno
WORK IN PROGRESS
RIFLESSIONI SUL SEMINARIO DI STEFANO BOLOGNINI DEL 15 FEBBRAIO 2025 (GIORNATA DI STUDIO SPP AD)
di Roberto Carnevali

Sono trascorsi vent’anni dal seminario di Stefano Bolognini organizzato dall’ASP a Milano intitolato “Il bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno: lavoro del sogno ed elaborazione onirica”. Come questa volta, il seminario era diviso in due parti. Nella parte svoltasi nella mattina, Bolognini sviluppò il suo discorso a partire da casi clinici e dal suo scritto “Lavoro del sogno, lavoro con il sogno” (in Il sogno cento anni dopo, a cura di S. Bolognini, Bollati Boringhieri, Torino, 2000); la parte svoltasi nel pomeriggio era totalmente incentrata su un caso clinico e, mantenendo come sfondo il tema del sogno, proponeva riflessioni in particolare su aspetti transferali e controtransferali nel lavoro con i pazienti.

Qualche mese dopo uscì su Setting un mio contributo intitolato “La complessità nel lavoro clinico di Stefano Bolognini. Note a margine” che seguiva un’intervista di Marco Conci all’autore; i due contributi erano stati riuniti sotto un unico titolo: Conci M., Carnevali R., “Essere psicoanalisti oggi. Incontro con Stefano Bolognini”, e il lavoro comparve in Setting N. 21/2006 (FrancoAngeli, Milano).

 

Rimasi molto colpito dall’approccio di Bolognini alla psicoanalisi e al “mestiere dello psicoanalista”. Uso quest’espressione perché mi piace ricordare che qualche anno dopo divenne il sottotitolo della rivista a cui Guido Medri volle dare vita; con Simone Maschietto e Secondo Giacobbi ho partecipato alla nascita della rivista e oggi che, unici testimoni di questa nascita rimasti nella redazione, abbiamo raccolto l’eredità di questo nostro maestro e amico costituendo, dopo la sua scomparsa, un Comitato di Direzione, mi preme sottolineare la vivacità del dibattito che fra noi si è animato in tanti anni su questo tema, e mi compiaccio di come le differenze di opinioni siano state elementi di confronto che non hanno mai dato adito a scissioni o separazioni.

 

Mi sono permesso questa piccola digressione perché ritengo significativo che, a vent’anni di distanza dal seminario or ora ricordato, sia la Scuola a chiedere a Stefano Bolognini di portare un suo contributo, e le mie riflessioni si articolano tra un mio percorso interno nel quale il pensiero di questo autore ha da allora rappresentato un costante riferimento (il suo libro L’empatia psicoanalitica – Bollati Boringhieri, Torino, 2002 – occupa da tanti anni un posto privilegiato nella mia biblioteca) e lo sviluppo di una mia appartenenza che ha attraversato vari gruppi e istituzioni, mantenendo saldo e costante il mio rapporto con Pratica Psicoterapeutica, grazie alla capacità di trovare sempre in quest’ambito uno stimolo attraverso il confronto nelle differenze.

Se nel contributo di vent’anni fa proponevo delle “Note a margine”, in un contesto caratterizzato da una sorta di “ufficialità”, come tutto quello che la rivista e l’associazione di allora tendevano a voler rappresentare, qui voglio proporre invece delle riflessioni del tutto personali, che possono a buon diritto essere accolte nel contesto della nostra rivista, che trova la sua essenza in uno stimolo al confronto e alla riflessione a partire dalle suggestioni che si animano dentro ciascuno di noi.

 

Il tema dell’empatia rappresenta da sempre, nel mio lavoro di psicoterapeuta psicoanalista e gruppoanalista, un elemento primario. Il modo in cui Bolognini ne parla entra in profonda risonanza con il mio modo di pensare e di sentire, e ora cercherò di argomentare in tal senso.

Un primo punto riguarda l’empatia in relazione alla complessità. Anche in quest’occasione Bolognini non ha mancato di sottolineare come attingere all’empatia come strumento di riflessione e di lavoro non sia per nulla semplificante, ma anzi metta a contatto costantemente con la complessità dell’essere umano. Il libro sull’empatia psicoanalitica si apre con la citazione di un epigramma di Bernard Shaw che dice: Per ogni problema complesso c’è sempre una soluzione semplice. Che è sbagliata. In questa frase, che già cito nel mio contributo di vent’anni fa, e che a volte propongo alla riflessione dei miei pazienti in seduta, è condensato il senso del rapporto fra l’empatia e la complessità.


Se un terapeuta si autodefinisce “empatico” facendo leva su questa caratteristica per ritenere di capire il paziente, e segue le proprie “intuizioni” offrendogli il frutto di ciò che “sente”, può capitare che si creino fraintendimenti che possono strutturare un rapporto che si sviluppa in parallelo a ciò che realmente si muove in termini affettivi nel paziente, arrivando il terapeuta a ritenere di capirlo meglio di come lui stesso si capisce, offrendogli una chiave di lettura nella quale non si riconosce, che il terapeuta si ostina a ritenere corretta, ritenendo al tempo stesso che sia il paziente a non riuscire a superare le sue “resistenze”. La situazione è affine a quella, che facilmente possiamo osservare nella vita di tutti i giorni, di molte mamme che, sulla base dell’idea (a mio avviso del tutto infondata) che “una mamma capisce quello che sente il suo bambino” (“cuore di mamma non mente!”), rispondono alle domande implicite del figlio neonato, o comunque in-fante (non ancora dotato della parola), sulla base delle proprie “sensazioni”, stupendosi nel caso in cui il bambino non entri in sintonia con queste risposte, attribuendo al bambino la responsabilità di quest’incomprensione. È un tipico esempio di risposta semplice a un problema complesso, e, come Shaw e Bolognini ci ricordano, “è sbagliata”. I sistemici parlerebbero di “risposta a corto circuito”, evidenziando, in modo del tutto analogo, che viene aggirata la complessità del processo in atto.


A rendere più comprensibile il rapporto fra l’empatia e la complessità contribuisce l’immagine metaforica, introdotta da Bolognini nel seminario di vent’anni fa e che mi sono permesso di riprendere nel dibattito, con il beneplacito dell’autore, della “gattaiola”. È questa una porticina che si apre a spinta nelle due direzioni e che si può trovare ancora oggi nelle porte di certe case di campagna che ospitano uno o più gatti. Senza che la casa venga invasa da estranei, la gattaiola permette ai gatti della casa di andare e venire senza avere le chiavi e senza dover chiedere il permesso, creando un flusso bidirezionale che favorisce la comunicazione fra i due spazi che la porta divide, permettendo al gatto di muoversi in libertà e al tempo stesso di sapere di avere un rifugio sicuro su cui contare. Mi sembra chiaro il senso della metafora. L’analista empatico non è quello che sulla base delle proprie sensazioni ritiene di capire tutto offrendo al paziente soluzioni di problemi complessi che ai suoi occhi appaiono semplici; l’empatia dell’analista consiste nel tenere aperta una gattaiola che permetta un passaggio di sentimenti ed emozioni nelle due direzioni, avendo comunque una porta che delimita i due spazi, e al tempo stesso un varco sempre aperto attraverso il quale il vissuto di un momento può scorrere e in quel momento essere condiviso e, forse, capito.

 

Un altro elemento su cui voglio soffermarmi, emerso nel dibattito che è seguito agli interventi, è incentrato sul tema della dipendenza, che, come alcuni sanno, è a me molto caro e ha stimolato in me molte riflessioni. La partenza è stata una domanda rivolta a Bolognini da un partecipante intorno al fenomeno della riduzione del numero delle sedute che col passare del tempo si è avuta in ciò che oggi può essere a buon diritto considerata un’analisi. Mentre in un passato recente (che i più anziani di noi, categoria a cui appartengo, ricordano per averlo vissuto personalmente) un’analisi era tale se comportava almeno tre sedute la settimana (qualcuno già riduceva a due, ma i puristi storcevano il naso), oggi terapie psicoanalitiche a una sola seduta la settimana sono, nella maggior parte dei contesti psicoanalitici ufficiali, considerate “valide”, omologabili a un trattamento psicoanalitico a tutti gli effetti. Prendendo atto di questo rivolgimento storico, Bolognini ha collegato questa tendenza, sul versante della richiesta da parte dei candidati pazienti, allo svilupparsi che si è avuto negli ultimi anni (e forse decenni) della paura che gli individui hanno a instaurare relazioni che comportino dipendenza. Tanto più se questa è una dipendenza affettiva, o nella quale comunque sono presenti aspetti legati all’affettività.


E qui torna il tema dell’empatia. L’analista “empatico”, nell’accezione proposta poco più sopra, che apre una “gattaiola” consentendo al paziente un movimento tra il dentro e il fuori, mantenendosi comunque in una posizione di disponibilità e garantendo la sua presenza, suscita facilmente, in una società come la nostra che mitizza l’autonomia, l’indipendenza e l’affermazione dell’individuo, una reazione di allontanamento e di fuga. La sola idea di un legame che instaura un rapporto di dipendenza viene vista come pericolosa, e invita il soggetto, pur nella condizione di muovere una richiesta di aiuto, a prendere fin da subito delle misure cautelative per mantenersi a una distanza sufficiente dall’analista, evitando che si possa creare uno spazio nel quale la sensazione di “mancanza” possa provocare dolore. Fin da subito (e possiamo vedere questo meccanismo anche in moltissimi rapporti di coppia, che sempre meno sfociano in un matrimonio) ci si cautela dalla dipendenza affermando che in un rapporto che nasce l’altro non è indispensabile e si può comunque farne a meno.

Quando, poco più di una decina di anni fa, mi venne chiesto di tenere un corso sui gruppi in una scuola di specializzazione, raccolsi e ordinai ciò che avevo scritto sull’argomento, aggiungendo alcune nuove considerazioni, e ne feci un volumetto che intitolai Scegliere la dipendenza – Compendio di psicologia sociale e dei gruppi per psicoterapeuti (ARPANet, Milano 2014). Il titolo mi fu suggerito da una considerazione di fondo che emergeva dalle mie riflessioni: in una prospettiva psicoanalitica radicalmente relazionale, qual è la mia, visto che il costituirsi della personalità di ciascuno si fonda sulle relazioni che attraversa e sui contesti relazionali in cui vive, la dipendenza è un fenomeno costitutivo dell’essere umano, e dunque non possiamo che accoglierla come tale e, attraverso lo svilupparsi della consapevolezza, scegliere da chi dipendere.

 

A questo punto ritengo doveroso evidenziare che un tema ampiamente trattato da Bolognini nel seminario a cui mi riferisco è stato il concetto di Sé, con la proposta di una sua estensione, in una prospettiva che ho trovato ricca, fonte di profondo interesse e non in contrasto con una prospettiva psicoanalitica relazionale. Ritengo peraltro che la ricchezza di questa trattazione richieda una lettura attenta e approfondita nella sua interezza, e invito chi legge a cercare lo spazio in cui l’intervento di Bolognini è stato pubblicato per coglierne le sfumature nella sua complessità.

 

L’ultimo argomento, trattato da Bolognini nella sessione del pomeriggio, che ho il piacere di riprendere, è il sogno. Al di là della prospettiva del sogno come soddisfacimento del desiderio e come (già Freud propone questa “eccezione” per soggetti che hanno subito traumi particolarmente rilevanti) ripetizione di un’esperienza traumatica, Bolognini ci offre qui una lettura che amplifica in modo rilevante il significato del sogno. Riporto l’espressione da lui usata: funzione del sogno di rendere possibili al soggetto nuove esperienze. Anche in questo caso si parla di un’estensione del concetto di Sé, introducendo peraltro, in relazione al sogno, l’idea di area esperienziale. E qui mi sento più a mio agio nel far riferimento alla dimensione relazionale. Rimandando comunque alla lettura del testo del seminario, altrove pubblicato ma reperibile, per cogliere la compiutezza del discorso, mi concedo la libertà di esprimere “con parole mie” il concetto proposto dall’autore.

 

Il sogno può essere l’espressione di un elemento che appartiene al mondo interno del paziente senza che il paziente ne abbia piena consapevolezza, e nel racconto sono rintracciabili degli elementi, non intenzionali ma presenti in modo significativo, che possono, attraverso il dialogo, essere portati alla luce e capiti in una forma nuova, che appare a questo punto pienamente consapevole. Possiamo riprendere il concetto, storicamente antico ma mai del tutto abbandonato nel pensiero di Freud, di preconscio. Il racconto del sogno può essere visto come il pescare da dentro di sé un’esperienza parzialmente sepolta ma non del tutto rimossa, facendola riaffiorare dal preconscio e portandola alla luce, e dunque alla coscienza, integrandola con la parte più consapevole di sé.

Anche qui, non vado oltre. Mi limito, per concludere queste brevi riflessioni, a raccontare un mio sogno, che è riaffiorato dentro di me mentre ascoltavo l’intervento sul sogno, e che non ho voluto portare nel dibattito perché ritenevo potesse essere visto come un’esibizione di qualcosa di troppo intimo per poter essere offerto a una platea, ma ho potuto raccontare a Bolognini in una pausa (ci tenevo a farlo) avendo da lui una manifestazione di interesse che mi ha piacevolmente colpito.

 

Il sogno, fatto qualche anno fa, prende origine in un’esperienza lontana nel tempo, all’epoca della mia preadolescenza. Coi miei genitori e con una coppia di loro amici che avevano due figli, maschio più piccolo e femmina mia coetanea, andiamo, in una località di montagna, alla cosiddetta “Pesca sportiva alla trota”. Le trote sono contenute in vasche in un numero così elevato che pescarle è facilissimo. Anziché comprarle dal pescivendolo, qui le trote vengono prima per l’appunto “pescate”, poi uccise da una signora che le sbatte su un sasso finché non sono morte, e poi acquistate e portate a casa per essere cucinate. Mi auguro che gli animalisti da tempo abbiano ottenuto che questa pratica crudele sia stata soppressa, ma allora era in voga e socialmente accettata. Già allora comunque una mia particolare sensibilità mi induceva a identificarmi con la trota, e la prima volta che, nella realtà, vidi la signora sbattere la trota sul sasso per ucciderla, provai una sensazione di dolore che mi rimase impressa e che ancora oggi riaffiora talvolta dentro di me. Mentre nella realtà non ebbi il coraggio, in quella circostanza, di oppormi a quanto stava accadendo, e accettai passivamente che tornassimo a casa con il sacchetto di trote morte che le madri avrebbero cucinato, nel sogno arrivo al momento in cui una trota abbocca al mio amo, ma anziché consegnarla alla tenutaria del luogo perché la uccida e me la dia da portare a casa, pago quanto c’è da pagare e poi le dico che adesso la trota è mia e posso disporne; dunque le chiedo di tenerla in vita e di mantenerla per il tempo a venire, dandole altro danaro per il suo sostentamento e impegnandomi a venire di tanto in tanto a verificare lo stato di salute della trota.

 

A commento del sogno, o meglio del ricordo e del racconto del sogno, dirò soltanto quello che ho detto a Stefano Bolognini dopo averglielo raccontato: l’ho sentito in sintonia con il discorso che da lui avevo ascoltato, attribuendogli il senso di una maggior consapevolezza di un qualcosa che avevo acquisito molti anni prima alla fine della mia ultima analisi, riconoscendo un confine implicito collegato alle prescrizioni raccolte nella mia storia personale, che da lì in poi ritenevo di avere avuto la possibilità, e il coraggio, di superare. Per il resto, lo considero un elemento comunicativo che oggi mi sento di condividere con chi avrà piacere di leggere questo mio scritto, accogliendo le associazioni e le chiavi di lettura che potrà suscitare.

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