Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

WORK IN PROGRESS N. 31
2 - 2024 mese di Dicembre
WORK IN PROGRESS
IL NARCISISMO DELL'ANALISTA E LE SUE VICISSITUDINI
di Mario Marinetti

Un problema difficile da affrontare

 

Il tema del narcisismo è da tempo diventato oggetto di vaste riflessioni teoriche e di profonde ricerche cliniche da parte degli psicoanalisti, con numerosissime pubblicazioni scientifiche ormai da diversi anni.

Del resto i pazienti con disturbi narcisistici bussano sempre più frequentemente alla porta degli analisti per chiedere aiuto.

In questo contesto spicca la scarsità di lavori sul problema del narcisismo dell’analista, sui suoi disturbi e sui suoi effetti sulla mente dell’analista e, quindi, sul lavoro analitico.

Una analoga scarsità di contributi è evidenziata da Gagliardi (1992) anche per quanto riguarda il problema delle analisi che si interrompono, connesso a mio parere a quello del narcisismo dell’analista.

Gagliardi sottolinea come i fallimenti analitici siano “una spina nel cuore di ogni analista” (p. 138) e ricorda con Meltzer (1967) che l’analista deve sapere accettare i limiti della propria scienza e della propria pratica di essa e quindi la propria responsabilità dei fallimenti analitici.

Per Winnicott (1955), quando si lavora con pazienti che hanno trovato nelle prime fasi di vita un ambiente incapace di adattarsi sufficientemente bene ai loro bisogni, è necessario ricordare che ogni resistenza al lavoro analitico segnala la presenza di un errore dell’analista, di una carenza che viene subito collegata dal paziente ad una sua carenza primaria. Se l’analista a sua volta si difende e non scopre e riconosce il proprio errore, l’analisi con questi pazienti può fallire. Penso che alla base di tali difese può esserci il narcisismo dell’analista.

A mio parere la scarsità dei contributi analitici sul narcisismo dell’analista e sui suoi disturbi rivela come anche questi aspetti siano una spina dolorosa nel cuore di ogni analista.

A tale argomento la Federazione Europea Psicoanalitica dedicò un Congresso nel 1978 (Estoril, 23-26 febbraio), ricco di interessanti contributi. Inoltre, diversi Autori fanno accenni a tale problema o lo trattano in modo più diffuso all’interno di diversi scritti.

Brenman (1978), riferendosi alla dinamica transfert-controtransfert, afferma che le esperienze dell’analista non dipendono solo da ciò che il paziente proietta dentro di lui, ma anche dall’interazione tra tali proiezioni e la personalità e la patologia dell’analista stesso. Questi deve fare i conti con una vasta gamma di sentimenti, dall’amore all’odio, ed anche col proprio narcisismo e con la propria onnipotenza. Brenman sottolinea come gli analisti svolgano il loro lavoro non solo a beneficio del paziente, ma anche proprio, e non si tratta solo di benefici di natura economica. Gli analisti traggono soddisfazione dai progressi del paziente: negare ciò è negare il contributo che i pazienti danno alla vita degli analisti. Tale negazione sarebbe il massimo del narcisismo, come quello di una madre che negasse di essere contenta della nascita del proprio bambino, dei suoi progressi, di trarne motivi di orgoglio, soddisfazione e gratificazione.

L’analista corre diversi rischi sul versante narcisistico, rischi generali, connaturati al processo analitico e alle particolarità del setting, ed altri connessi alla relazione tra determinati pazienti e determinati analisti. Per quanto riguarda i primi, Brenman afferma che l’empatia, elemento indispensabile per capire il paziente, abbisogna per realizzarsi di una partecipazione dell’analista, di un suo vivere il paziente come se fosse “il mio bambino”; ma è fondamentale anche attivare distanza e separazione, altrimenti “il mio bambino” corre il rischio di diventare il rappresentante del narcisismo dell’analista. Egli puntualizza più volte come sia difficile ma indispensabile trovare un equilibrio tra l’empatia ed il vivere una propria vita, tra un narcisismo sano e l’amore oggettuale.

È importante che l’analista accetti le proprie limitazioni: altrimenti, se non riuscisse ad accettare l’impossibilità di tollerare tutte le angosce del paziente, potrebbe essere spinto in una posizione di distacco narcisistico, con la conseguenza di presentarsi come un contenitore perfetto e incontaminabile, un essere superumano.

Per quanto riguarda i rischi che possono insorgere nella relazione con particolari pazienti, Brenman indica sostanzialmente due ordini di problemi: quelli legati ad una eccessiva idealizzazione e quelli legati ad una eccessiva svalutazione da parte del paziente.

Per ciò che concerne i primi, l’analista, stimolato dalle proiezioni e dalle idealizzazioni del paziente, può viversi e comportarsi come se fosse il seno ideale, negando valore autonomo al paziente.

Anche per Grumberger e Chasseguet-Smirgel (1978) l’analista può essere tentato di servirsi del paziente per i propri fini narcisistici: sedotto dalle idealizzazioni del paziente, che spesso mette il proprio destino nelle mani dell’analista, questi può crogiolarsi in una illusoria situazione di potenza, dimenticando in realtà che siamo tutti deboli, incerti e insicuri di fronte, aggiungerei, al mare magnum dell’inconscio. L’analista può quindi, inconsciamente, essere tentato di imprimere al paziente il proprio marchio, di formare un doppio della propria immagine.

Mi sembra che ci troviamo quindi davanti a quel sottile spartiacque tra il desiderio di conoscenza di qualcosa che comunque rimane altro da sé e il desiderio di possesso, talora di fusione o di incorporamento, di onnipotenza comunque.

Sia Brenman che Grumberger e Chasseguet-Smirgel sottolineano che interpretazioni eccessivamente elaborate, come anche l’eccessiva abilità, possono soddisfare il narcisismo dell’analista, e non corrispondere ai bisogni del paziente e dell’analisi. A tale proposito si veda quanto scrive Winnicott (1971) sul proprio modo di lavorare, sul suo astenersi talora dal dare interpretazioni, per consentire al paziente di formularle da solo, dandogli così spazio sufficiente per giocare e crescere.

Per Langs (1973-74) i terapeuti che intervengono troppo presto o frequentemente sono spinti da un narcisismo patologico, per cui amano troppo i propri pensieri, oppure vogliono sedurre e manipolare. Anche gli analisti che fanno troppe domande o interrompono i pazienti manifestano il bisogno narcisistico di dominare e controllare i pazienti.

È importante, quindi, che l’analista ottenga buone gratificazioni narcisistiche non dal paziente, ma grazie all’esercizio della psicoanalisi, cioè grazie, a mio modo di vedere, all’adesione alla prassi e all’etica psicoanalitica, che è un’etica di conoscenza e di rispetto per l’altro, e non di possesso (Langs, 1973-74; Grumberger e Chasseguet-Smirgel, 1978).

Anche altri Autori hanno sottolineato le difficoltà che incontra l’analista sul piano delle gratificazioni narcisistiche. L’accento è posto sulla solitudine, sulla difficoltà a vedere i risultati del lavoro analitico (Widlocher, 1978); sulle lunghe ore di lavoro in condizioni di relativo isolamento e sull’assenza di apprezzamenti e gratificazioni, oltre che sulla necessità di non usare i pazienti per soddisfare bisogni nevrotici (Langs, 1973-74).

Berry (1978) sottolinea che, comunque, l’analista non può evitare la sollecitazione dei propri nuclei narcisistici, perché, immerso nel gioco interattivo della coppia transfert-controtransfert, passa continuamente da vissuti di impotenza a vissuti di onnipotenza. Così egli potrà investire di significati narcisistici le interpretazioni, aspettandosi i loro effetti mutativi; o agire il bisogno di essere riconosciuto dal paziente nella propria funzione di analista e di figura positiva. L’interpretazione può diventare un tentativo di difesa narcisistica con pazienti narcisisti, che disconoscono l’analista come altro e lo escludono dal loro mondo interiore.

D’altra parte, penso che, se riandiamo al bisogno del paziente di ricreare ciò che lo fa soffrire, di comunicare la sofferenza all’analista, attraverso l’identificazione proiettiva, con la speranza di avviare una nuova esperienza e superare così la coazione a ripetere, appare inevitabile, con certi pazienti, sperimentare, da parte dell’analista, offese a carico del proprio narcisismo (v. anche Kohut, 1971).

Tornando a Brenman (1978), ciò che mette maggiormente alla prova l’analista è la situazione in cui ci si sente privi di significato, situazione che può intensificare l’onnipotenza. Diventa importantissimo il modo in cui l’analista affronta ciò, la sua capacità di distinguere ciò che è buono e valido da ciò che non ha valore, la sua capacità di incontrare la posizione depressiva.

 

Io credo che in ogni analisi, e specialmente in quelle con pazienti narcisisti, giunga il momento (o i momenti) in cui il paziente, consciamente o inconsciamente, è curioso di sapere come l’analista abbia affrontato il proprio problema con l’esclusione e con la separazione; come egli viva i momenti dell’incontro e del commiato, il trascorrere del tempo, e soprattutto come abbia affrontato il proprio narcisismo. Certamente l’analista non dirà niente su tutto ciò al paziente, ma credo che egli indirettamente fornirà tutta una serie di informazioni al riguardo che avranno a che fare con la qualità di ipotesi o no delle interpretazioni; con il grado di saturazione o di insaturazione delle interpretazioni; con il modo dell’analista di considerare e trattare le risposte del paziente, siano esse concordanti o divergenti dalle interpretazioni; con il modo con cui l’analista rispetterà e proteggerà il setting; con il modo con cui egli affronterà e interpreterà i desideri e le difese narcisistiche del paziente; con il ruolo che egli attribuirà alla realtà esterna del paziente. In ogni analisi arriva il momento in cui il paziente riconosce l’esistenza dei sentimenti dell’analista e si chiede come questi li affronta (Little, 1986).

Per Gagliardi (1992) è fondamentale che l’analista comprenda non solo il narcisismo distruttivo del paziente, nel senso di attacco al legame libidico e al bisogno di dipendenza, ma anche il proprio, comprensione resa difficile dai limiti dell’autoanalisi, quando questa si spinge a livelli molto primitivi. Gagliardi fa esplicito riferimento a Rosenfeld di Comunicazione e interpretazione (1987), in cui egli modifica notevolmente l’atteggiamento con cui guarda a fenomeni importanti, come la Reazione Terapeutica Negativa (RTN), ad esempio, ed in cui prende in considerazione i fattori terapeutici ed antiterapeutici dipendenti dall’analista. Per quanto riguarda la RTN, per Rosenfeld è molto importante differenziare quella parte della confusione del paziente che appartiene ad una RTN successiva ad un progresso, dalla confusione provocata dalla incomprensione dell’analista. Quando una situazione di stallo o la RTN sono dovuti ad un errore dell’analista, è importante riconoscerlo e mostrare al paziente che cosa è avvenuto.

Tra i fattori antiterapeutici dell’analista Rosenfeld include il suo narcisismo, con il bisogno di gratificazione dai progressi del paziente; l’interpretare come attacco l’identificazione proiettiva, quando invece è usata per comunicare; l’interpretare sempre come attacco invidioso le critiche del paziente, che può invece segnalare di non essere stato capito; la mancata tolleranza dell’incertezza, del non sapere, che porta a dare interpretazioni vaghe o frettolose.

Perché l’analista sia attento a cogliere i propri errori e a valutarne il loro impatto nel paziente è necessario, quindi, che egli faccia i conti col proprio narcisismo. Già Ferenczi (1924) aveva segnalato come il narcisismo dell’analista potesse essere fonte di errori e potesse indurre il paziente a lusingare l’analista o a reprimere critiche. Successivamente (1932), egli richiamò, con coraggio, l’attenzione sulle resistenze che nascevano nell’analista, sulla necessità di riconoscere francamente gli errori e di farsi aiutare dai pazienti a scoprirli; così come a scoprire i propri sentimenti di antipatia e odio verso i pazienti, in modo da evitare un atteggiamento ipocrita di cui il paziente si rende conto, per la sua sensibilità a cogliere i desideri, le tendenze e i sentimenti dell’analista.

Per Marucco (1998) il desiderio dei genitori, specie di tipo narcisistico, si inscrive nella psiche del soggetto attraverso l’identificazione primaria. Si crea così l’inconscio non rimosso, scisso, che ha alla sua base il diniego, soprattutto della differenza dei sessi, della mancanza del pene nella madre, del tempo. L’identificazione primaria, che costituisce per Marucco il narcisismo primario, precede l’investimento oggettuale, configura una scissione nell’Io e tra le diverse identificazioni dell’Io possono esservi dei conflitti. La relazione con l’altro è anche una relazione col desiderio dell’altro. Nell’identificazione primaria la garanzia dell’essere sta nell’essere dell’altro e l’identificazione è passiva: il soggetto è identificato dal desiderio dell’altro. Partendo da questa concettualizzazione, per Marucco la RTN può essere una difesa dal passaggio dall’immortalità narcisistica alla temporalità edipica; ma può essere necessaria e positiva quando permette al soggetto di separarsi dall’oggetto con cui è fuso/confuso (identificazione primaria).

La RTN può esserci anche quando si è soddisfatti del lavoro e si dà speranza al paziente: ma chi dà speranza? L’analista o l’analisi? L’analista, per Marucco, non può non veicolare un suo desiderio. Ma se questo fosse un desiderio/bisogno narcisistico ciò potrebbe comportare il diniego del desiderio del paziente (catturato dal bisogno narcisistico dell’analista), e quindi potrebbe suscitare una RTN che, in tal caso, potremmo definire positiva perché scioglie dall’abbraccio soffocante del desiderio narcisistico dell’altro.

 

Penso che situazioni collusive si verifichino in ogni analisi e che l’esito di queste dipenda dalla loro dimensione ed intensità. Per quanto riguarda il paziente, egli si rapporta all’analista con le proprie attitudini relazionali, che gli hanno permesso, quando era bambino, di percepire lo stato d’animo materno e di adeguarvisi. Ascoltiamo su questo punto, su cui ritornerò, quanto afferma la Mahler: “La nascita del bambino come individuo sopraggiunge quando questi modifica gradualmente il proprio comportamento in relazione alla risposta selettiva della madre ai suoi segnali vocali. È lo specifico bisogno inconscio della madre che attiva, tra le infinite potenzialità del bambino, in particolare quelle che creano per ogni madre il figlio che riflette i propri specifici bisogni individuali. Questo processo ha le sue radici, evidentemente, nello spettro della dotazione innata del bambino” (Mahler et al., 1975, p. 94).

Diversi Autori segnalano quindi come nascano problemi allorché l’analista, per quanto gli concerne, non è in grado di riconoscere i propri errori, i propri fattori antiterapeutici, specie se non sarà aiutato dalle collusioni del paziente.

Ma è possibile immaginare che un analista raggiunga la capacità di capire e di correggere in maniera completa i propri nuclei narcisistici? Dei limiti alla capacità di comprensione dell’analista si sono occupati diversi Autori. Già Freud aveva sottolineato la reciprocità tra gli esseri umani, l’utilizzazione da parte di tutti degli stessi meccanismi mentali, la differenza essendo solo quantitativa. Nel 1910 egli scrive che “Abbiamo acquisito la consapevolezza della ‘controtraslazione’ che insorge nel medico per l’influsso del paziente sui suoi sentimenti inconsci abbiamo notato che ogni psicoanalista procede esattamente fin dove glielo consentono i suoi complessi e le sue resistenze interne” (pagg. 200-201).

Per Gitelson (1952) in ogni analisi vi può essere l’incontro tra aspetti vulnerabili del narcisismo del paziente e dell’analista. Questi deve imparare a conoscersi e a non difendere ad ogni costo le proprie illusioni narcisistiche. L’analisi è interminabile e quando si schiudono o si incontrano territori inesplorati nella psiche dell’analista, ci possono essere in lui reazione difensive d’emergenza.

Sulla stessa scia si colloca Money-Kyrle (1956) quando afferma che la comprensione dell’analista “viene meno ogni qualvolta il paziente riveli una corrispondenza troppo stretta con qualche suo aspetto che egli non ha ancora imparato a capire” (p. 494). Bisogna ricordare e considerare che vi sono pazienti difficili da raggiungere, con cui sembra impossibile stabilire un autentico contatto emotivo.

Gabbard (2003), in un libro in cui diversi autori affrontano il problema dei limiti e dei confini della psicoanalisi, afferma come pazienti gravemente traumatizzati ed a rischio di suicidio possano spingere i propri analisti ad oltrepassare i confini dell’analisi quando incontrano una particolare vulnerabilità narcisistica dell’analista. Egli racconta la vicenda di un giovane analista che gli chiese aiuto perché in preda all’angoscia ed ai sensi di colpa per avere ceduto alle pressanti richieste di una paziente che minacciava di uccidersi se egli non avesse acconsentito ad avere con lei una storia d’amore ed un rapporto sessuale, unica cosa che, per la paziente, poteva salvarla dal suicidio.

La donna, bellissima, aveva molto colpito l’analista per i dolorosi traumi a cui era andata incontro fin da piccola: per anni, a partire da quando ne aveva 8, era stata abusata dal padre. Queste esperienze abusanti si erano spesso ripresentate nella sua vita con diversi uomini, quando non era lei a trattare male uomini affettuosi che si innamoravano di lei. Fin dal loro primo incontro la paziente aveva proposto di interrompere il rapporto clinico ed avere una relazione sessuale, proposta rifiutata dall’analista che aveva mantenuto la barra dritta sul rapporto professionale che era già iniziato sin dal primo incontro. Per due anni il lavoro era proseguito senza problemi, con una apparente remissione delle fantasie suicidarie. Quando si ripresentarono, accompagnate dall’informazione che la paziente aveva comprato una pistola, l’analista fu colto da un senso di disperazione anche perché aveva da poco subito la perdita imprevista di una sorella e di un amico molto caro ed era stato lasciato dalla fidanzata. Come confidò a Gabbard, sentiva che non poteva permettersi un altro lutto e che avrebbe fatto di tutto per salvare la paziente. Si era così instaurata una “folie a deux”, in cui la paziente proiettava la bambina abusata sull’analista e trionfava su di lui. Prima di giungere all’agito sessuale, l’analista, in preda all’angoscia e alla disperazione, aveva detto alla paziente che egli avrebbe fatto di tutto per salvarla e così la durata delle sedute era raddoppiata. Dopo il rapporto sessuale l’analista aveva interrotto l’analisi invitando la pazienta a contattare un altro analista.

Gabbard sollecita i lettori a non condannare quel giovane analista, sottolineando come a ciascuno di noi, in situazione dolorose e drammatiche, potrebbe accadere di incorrere in errori con pazienti che spingono a variazioni di setting perché, a causa dei profondi danni subiti nel loro senso di esistere, chiedono di essere risarciti in vari modi. Ma è proprio con questi pazienti così danneggiati dalle figure accudenti che bisogna mantenere in modo “affettivamente” rigoroso i confini.

 

A proposito dei limiti, per Brenman (1978) la capacità dell’analista di accettare i propri rappresenta un importante fattore terapeutico, se si accompagna al mantenimento della fiducia nella possibilità, comunque, di imparare dall’esperienza.

Per Gagliardi (1992) l’analista deve accettare e ricordare come, nonostante l’analisi personale e l’autoanalisi successiva, in ognuno rimangano in ombra aree non controllate, problemi irrisolti, aree in cui, quindi, l’analista funziona male. Spesso si tratta proprio di nuclei narcisistici, che più facilmente possono colludere con analoghi tratti dei pazienti: “ci sono pazienti capaci di comunicare con l’analista e di accettare le sue difficoltà a capire, interessati a osservare i propri processi mentali; ma, come ben sappiamo, ce ne sono altri, i quali sembrano invece incapaci o troppo spaventati per affrontare le ansie più profonde, che tendono quindi a evitare o a far finta di conoscere. Se l’analista si trova nella stessa situazione, perché anche in lui esistono aree nelle quali egli funziona male, scatta la trappola della collusione inconscia che blocca l’interazione e, di conseguenza, il processo analitico. In questa situazione l’analista diventa incapace di capire quello che il paziente gli sta dicendo perché è impegnato, a sua volta, a non pensare, a scaricare - attraverso interpretazioni che spesso sono superegoiche e suonano accusatorie - situazioni che non può accogliere e vedere con chiarezza dentro di sé in quel determinato momento.” (p. 143).

Condivido pienamente queste parole della Gagliardi, e penso inoltre che, specie con i pazienti gravi, l’analista a volte possa non pensare che alle proprie teorie “forti”, con cui si possono instaurare legami narcisistici.

La storia della psicoanalisi è stata contrassegnata da scontri sulle teorie di riferimento, scontri che hanno contribuito a rafforzare i legami narcisistici con le teorie e a rendere ciechi, talora, alle comunicazioni dei pazienti.

A Milano negli anni ottanta era molto forte l’influsso kleiniano e veniva assegnato un ruolo importante all’invidia. Molte interpretazioni erano rivolte a mettere in luce l’invidia verso l’analista-seno materno. Ricordo un gruppo di discussione di casi clinici in cui una giovane collega portava il caso di un paziente che per l’analista era affetto da un forte grado di invidia. Portava una seduta in cui l’analista continuava ad interpretare i moti invidiosi del paziente, finché questi le disse: “Aspetti un attimo, ché mi giro da quest’altra parte, perché qui sono cotto abbastanza”. Per l’analista, che non coglieva il messaggio ironico del paziente con cui le segnalava di non proseguire su quella linea interpretativa, quella frase del paziente era la conferma di quanto questi fosse invidioso.

Bion (1955), nel lavoro Criteri differenziali tra personalità psicotica e non psicotica, afferma che i fattori che favoriscono l’insorgenza della schizofrenia sono due: l’ambiente esterno, di cui non intende occuparsi, e la personalità del paziente, dominata da impulsi distruttivi. Più avanti afferma: “Prima di passare all’illustrazione clinica di un caso, desidero precisare che essa costituisce piuttosto un’esperienza derivante dalle teorie ora esposte che non, viceversa, la descrizione di un’esperienza dalla quale le teorie scaturiscono”. Che differenza tra questo giovane Bion ed il Bion maturo, che parla di rêverie e di senza memoria e desiderio, memoria e desiderio riferite anche alle memorie teoriche!

Questo lavoro di Bion è famoso tra gli analisti anche per la lettera che Winnicott (1955), presente nel momento in cui Bion legge questo lavoro a Londra, scrive a Bion.

Nella lettera Winnicott, esprimendo la stima che ha verso Bion, si rammarica inizialmente di non aver potuto esprimere il suo pensiero sul lavoro per il clima creato dal gruppo kleiniano, che impediva la possibilità “che qualcuno potesse alzarsi per mettere in discussione il lavoro presentato.” Successivamente, affronta il materiale della seduta partendo dal comportamento del paziente, che si muoveva continuamente sul divano per poi dire “avrei dovuto telefonare a mia madre”, per sottolineare che il paziente stava parlando del comunicare e della sua difficoltà a stabilire una comunicazione con la madre. Partendo da ciò Winnicott avrebbe detto al paziente che una madre ben orientata sui bisogni del proprio bambino avrebbe fatto qualcosa per accogliere la sua comunicazione. Con le sue comunicazioni corporee e con le parole il paziente segnalava che l’analista non era stato ben orientato a comprenderlo e, per questo, rientrava nella categoria della madre che fallisce “nel rendere possibile la comunicazione” (p.155).

 

Come in ogni lavoro, gli inizi dell’attività di psicoanalista sono contrassegnati da ansia e insicurezza legate alla ancora scarsa esperienza. Ma, a differenza di altri lavori, il “giovane” analista non può presentarsi né essere riconosciuto dai propri pazienti nella sua condizione di apprendistato e, comunque, non gli possono essere risparmiate le idealizzazioni dei pazienti. Tutto ciò facilita, a mio parere, la formazione di forti legami con le teorie, spesso rappresentate da quelle dell’analista didatta del giovane allievo, o dei suoi supervisori, legami di tipo anche difensivo, col rischio che prevalga l’imitazione.

Secondo Bolognini (1991) gli analisti impiegano molti anni per imparare a mettere insieme la capacità di sentire con quella di pensare. Per riuscire devono tollerare centinaia di ore difficili, in cui si ha la sensazione di lavorare male ma senza potere fuggire più di tanto, anzi dovendo attraversare questi inevitabili momenti per capire, per progredire nel lavoro analitico. Per fare ciò l’analista deve mettersi in gioco nutrendo fiducia nella propria identità, e deve affrontare un “lutto profondo, quello riguardante un’arcaica illusione onnipotente di poter controllare i propri affetti fino a poterli decidere” (pagg. 345-347).

Ricorderei a questo proposito il coraggio di Winnicott (1947), la sua capacità di riconoscere, tollerare e svelare anche i sentimenti di odio che l’analista può provare verso i propri pazienti.

Ancora Grumberger e Chasseguet-Smirgel (1978) affermano che agli analisti spetta il compito di elaborare il lutto di ottenere la completezza narcisistica attraverso la propria analisi o quella dei pazienti. Anche Searles (1965) si muove in questa direzione quando sostiene che l’analista deve rendersi conto che dovrà lottare sempre per raggiungere un grado di maturità, di integrazione e di separazione-individuazione sempre più elevate e profonde e che ogni esperienza analitica gli servirà per portare avanti questo lavoro: egli dovrà così fare il lutto dell’ideale della “maturità assoluta”, espressione dell’onnipotenza infantile. Posizione analoga esprime Schafer (1983) per il quale gli allievi non vogliono accettare che diventare analisti è un processo continuo e che ricevere il titolo è una tappa: il cambiamento è continuo.

Le angosce di separazione, che si attivano alla fine di ogni trattamento analitico e che comportano l’elaborazione del lutto per la fine dell’analisi, non risparmiano l’analista (Bonasia, 1990): egli perde il dono che il paziente gli ha fatto della propria segretezza ed intimità, passando da momenti di grande coinvolgimento emotivo reciproco ad una situazione di vuoto. Ma, soprattutto, la fine dell’analisi si accompagna ogni volta, quando autentica, alla perdita dell’illusione di atemporalità suscitata dalla immersione nell’inconscio, con l’ingresso nella dimensione del tempo, della precarietà della condizione umana, della morte.

Del resto penso, alla luce del contributo fondamentale di Grinberg (1963), che ogni perdita comporta la perdita di una parte del Sé e perciò è anche una ferita narcisistica rispetto all’ideale dell’interezza del Sé, della sua unità indistruttibile.

L’analista corre quindi il rischio di opporsi a ciò e di aggrapparsi coattivamente alle proprie certezze e ai propri modelli teorici.

Nissim (1991) ha trattato l’angoscia che l’analista prova di fronte alla prospettiva di cambiare il proprio modello scientifico di riferimento, con cui egli stabilisce intensi legami emotivi. La teoria di riferimento di ogni analista è secondo Béjarano (1978) parte costituente essenziale del “controtransfert globale”, che egli distingue dal “controtransfert specifico”, che si attiva in relazione ad ogni singolo paziente.

Come per altri movimenti scientifici anche la storia della psicoanalisi è ricca di episodi di guerre di religione, che ben poco avevano di confronto scientifico, ma che possono essere giustificate da questi intensi legami affettivi, oltreché dall’intreccio con le seduzioni del potere.

 

La vocazione dello psicoanalista

 

Ciò che finora abbiamo detto sul narcisismo dell’analista potrebbe essere esteso, in fondo, ad ogni ricercatore e al rapporto che questi stabilisce col proprio oggetto di ricerca. Ma, per quanto riguarda gli psicoanalisti, c’è qualcosa di specifico che sta al fondo dei loro problemi narcisistici? Se dei fattori abbastanza specifici esistono essi, a mio parere, stanno alla base della scelta professionale e della identità dello psicoanalista.

Per quali vie si è giunti a fare l’analista? Ogni analista, raccomanda Erikson (1956), dovrebbe chiederselo, soprattutto perché la vocazione terapeutica affonda le sue radici nella sofferenza. Il problema centrale è il destino di questa sofferenza. Carloni (1979), prendendo ad esempio la favola avente come personaggio Belfagor, che fa un patto col diavolo per fare ammalare signore danarose e quindi guarirle dietro lauto compenso, sottolinea come la motivazione nascosta del medico sia il narcisismo onnipotente: egli ha la capacità di fare ammalare e di guarire, ha la presunzione di potere curare, di penetrare con indiscrezione nell’intimità di un’altra persona “sapendo” ciò di cui ha bisogno.

A questa tentazione non sfugge di certo l’analista, che ha la possibilità, come pochi, di penetrare nell’intimità emotiva dei suoi pazienti.

Secondo Carloni lo psicoanalista deve possedere la capacità di soffrire e di responsabilizzarsi della malattia, della propria, aggiungerei, ma anche di quella del paziente, almeno rispetto a quanto accade nella relazione, nel gioco interattivo del transfert-controtransfert: “il primo motore della vocazione terapeutica fu la sofferenza del terapeuta e il desiderio di guarigione che ne derivò” (p. 42).

Secondo Miller (1978, 1979) quasi tutti gli analisti sono stati bambini particolarmente sensibili e capaci di sintonizzarsi sugli stati d’animo e sulle richieste inconsce dei genitori; bambini che hanno dovuto funzionare come protesi narcisistica quasi sempre per una madre depressa, la cui fragile sicurezza dipendeva proprio dalla capacità del figlio o della figlia di adattarsi ai suoi bisogni e alle sue richieste inconsce. In tale situazione questi bambini hanno dovuto nascondere i sentimenti che avrebbero potuto alienare loro l’affetto materno e non hanno potuto soddisfare i propri bisogni narcisistici primari. Anche per Kohut (1971) alla radice della capacità di preoccuparsi empaticamente di un altro vi sono ferite narcisistiche non gravi.

Prima ancora di questi Autori, Ferenczi (1932) si era occupato di analoghi aspetti, sottolineando l’importanza del fattore traumatico, a suo dire allora trascurato, e descrivendo come, in situazioni di difficoltà estrema, i bambini possano maturare precocemente delle attitudini ancora potenziali: “La paura degli adulti privi di inibizioni, e perciò, sotto un certo punto di vista, pazzi, fa per così dire del bambino uno psichiatra; per diventare tale e difendersi dai pericoli rappresentati dalle persone prive di autocontrollo, egli deve sapersi innanzitutto identificare completamente con esse. Oltre l’amore passionale e la punizione passionale, gli adulti dispongono anche di un altro mezzo per legare a sé i bambini: il terrorismo della sofferenza. I bambini hanno bisogno di appianare qualsiasi specie di disordine nella famiglia, per così dire di caricare sulle proprie fragili spalle il peso che grava sulle spalle di tutti. Una madre che si lamenta delle proprie sofferenze può fare della figlia la propria infermiera a vita, in sostanza procurarsi, per mezzo suo, un sostituto della madre, senza tener in alcun conto i veri interessi della figlia.” (p. 425).

Nei concetti elaborati e approfonditi da Winnicott (v. 1949) sembra trovarsi l’ideale proseguimento di questo scritto di Ferenczi: chi ha dovuto amplificare le funzioni dell’intelletto per sopperire alle deficienze dell’ambiente potrà anche, apparentemente, essere una “madre meravigliosa per gli altri”, o avere delle “proprietà guaritrici” sorprendenti, ma a prezzo dell’autenticità, col rischio sempre incombente di soggiacere ad una crisi, per l’autentico bisogno che qualcun altro sia il reale buon ambiente necessario alla vita.

Miller (1979) fa riferimento a Winnicott per affermare come il bambino che ella descrive costruisca un falso Sé adattativo, da cui scaturirà la sua attitudine ad occuparsi degli altri, la sua vocazione terapeutica.

L’analisi che il futuro analista affronterà dovrà necessariamente metterlo a contatto con la verità del suo passato, con i sentimenti di dolore e di rabbia per le ferite narcisistiche precocemente subite ma nascoste, così da integrare le parti scisse. Nobili (1981) ci ricorda infatti che a chiedere un’analisi, pur se all’interno di un progetto didattico di significato difensivo, è anche la parte più autentica del Sé, desiderosa di venire alla luce con la sua nudità e la sua impotenza.

Quali saranno i rischi, altrimenti, di una analisi che non sia stata sufficientemente autentica ed approfondita? Da una parte (Kohut, 1971) di fronte a pazienti con disturbi narcisistici della personalità si può attivare negli analisti una forte angoscia di essere invasi dalle richieste fusionali della figura materna arcaica; dall’altra si può cercare coattivamente (Miller, 1979) di trovare proprio nei pazienti quella madre comprensiva ed empatica di cui si è sentita la mancanza: ciò avverrà attraverso una collusione inconscia col paziente, il quale porterà materiale che si accorda con le teorie dell’analista, così da confermarlo nel suo valore.

Altri rischi vengono descritti da Racker (1948), che ha studiato a fondo il funzionamento mentale dello psicoanalista. Egli sottolinea come l’analista entri in gioco con l’intera sua personalità e che non è libero da nevrosi. Come ogni scelta professionale, anche quella di analista è basata su relazioni oggettuali infantili. “La professione di psicoanalista, nei suoi aspetti terapeutici e scientifici, ha il significato inconscio di negare ed evitare la situazione depressiva di base, ed ha per scopo quello di essere amati dagli oggetti introiettati e proiettati, quello di dominarli, e così via.” (p. 161). Ad esempio, Racker descrive come un analista uomo può, inconsciamente, desiderare di legare a sé, in modo dipendente, una paziente donna, vissuta come la madre o come una figlia che non si vuole far crescere e fare uscire di casa. Infine Racker (1957) sembra indicare nel bisogno di riparare il motore dell’attività analitica: l’analista si identifica con gli oggetti cattivi che danneggiano il paziente, perché l’immagine di questi si fonde con gli oggetti interni dell’analista, anche con quelli che egli, nella fantasia e a volte nella realtà, ha cercato di dominare, manipolare, distruggere.

Se torniamo al bambino descritto da Miller, diventare colui che “cura” una madre fragile e bisognosa, significherà anche ribaltare la situazione di dipendenza ed i ruoli generazionali, “diventando” genitore. Inoltre, potrà esservi la negazione dei propri bisogni, con l’affermazione dell’autosufficienza. Egli diventerà così il “poppante saggio piccolo terapeuta dei genitori” di cui parla affettuosamente Nobili (1981). Ad un livello più evoluto, edipico, a seconda del sesso la fantasia prevalente sarà quella di prendere il posto del padre accanto alla madre o di sostituirsi a questa. Certamente tutto ciò comporterà l’attivazione dell’onnipotenza, ma questa comporta un prezzo altissimo da pagare.

Il piccolo bambino che diventa, nella sua fantasia corrispondente alla fantasia materna, il terapeuta della mamma o della famiglia non solo ostacola la sua reale, autentica crescita, ma si fa anche carico dello stato di salute della madre. Se questa continuerà ad essere depressa, ad esempio, egli se ne sentirà colpevole e vivrà inoltre una ferita a carico della sua onnipotenza. Inoltre, si sentirà in colpa per le sue fantasie onnipotenti di manipolazione e controllo degli altri, di superiorità sugli altri, e, soprattutto, per i sentimenti aggressivi che proverà a causa della rinuncia ai suoi aspetti più autentici.

Tutto ciò è forse alla base di quel bisogno di riparazione che per Racker (1957) sta alla base della vocazione terapeutica analitica, bisogno coatto, perché continuamente alimentato dalla fantasia di essere indispensabile alla figura materna e che, attraverso l’analisi didattica, deve diventare bisogno autentico e libero (Nobili, 1981), affinché l’analista acquisisca una piena identità analitica. Identità che non sarà raggiunta una volta per tutte, ma che sarà continuamente messa alla prova, specie dall’incontro con pazienti che risveglieranno i problemi più intimi dell’analista, conosciuti e no.

Ciò che bisogna allora raggiungere è l’equilibrio descritto da Grumberger (1963), per il quale il fattore specifico della vocazione psicoanalitica è l’investimento narcisistico, quello buono, del lavoro psicoanalitico, integrato con l’amore oggettuale.


Cambiamenti, nel corso del tempo, della psicopatologia umana prevalente.


Fin dalla sua nascita la psicoanalisi ha dovuto continuamente affrontare cambiamenti a livello teorico e clinico, legati a nuove scoperte e a nuove patologie che si presentavano all’osservazione degli analisti. Basti pensare agli enormi cambiamenti che l’analisi infantile ha prodotto nella teoria, nella clinica e nella tecnica.

Questi cambiamenti hanno anche prodotto tensioni sugli assetti narcisistici degli psicoanalisti.

La psicopatologia umana, la forma con cui si esprime la sofferenza psichica, sembra risentire dei mutamenti storici e culturali del contesto in cui si vive.

Gaddini, nel suo importante lavoro Se e come sono cambiati i nostri pazienti fino ai nostri giorni (1984), nota come gli psicoanalisti avessero colto dei mutamenti nella patologia prevalente dei pazienti in concomitanza di straordinari e durevoli sconvolgimenti sociali, con una tendenza all’aggravamento nella psicopatologia individuale: «quando particolari eventi esterni intervengono a sconvolgere per un periodo di anni la vita e l’organizzazione sociale – così come è avvenuto per ben tre volte nel corso di questo secolo - ciò sembra catalizzare e scatenare, negli individui meno costruiti, il manifestarsi di una psicopatologia che, nelle condizioni di vita abituali, sarebbe stata meglio o del tutto contenuta, e perciò meno visibile» (p.  577).

Gli psicoanalisti notarono per la prima volta un cambiamento nei pazienti, con la comparsa diffusa e massiva di forti angosce fobiche e isteriche, proprio dopo la Prima Guerra Mondiale. Lo studio dell’angoscia che ne derivò introdusse importanti cambiamenti nella teoria freudiana.

Un secondo attacco alle difese dell’Io avvenne con la Seconda Guerra Mondiale e ancora una volta gli psicoanalisti notarono un cambiamento nei pazienti. Il cambiamento riguardò soprattutto un aumento quantitativo dei disturbi del carattere, su cui si stavano già appuntando le ricerche degli psicoanalisti, come anche su ciò che si incrociava coi disturbi del carattere, cioè la perversione, il narcisismo, i disturbi somatici.

La Seconda Guerra Mondiale fu un evento maggiormente catastrofico della Prima, perché per la prima volta le popolazioni civili vennero massicciamente coinvolte, i bombardamenti non furono diretti solo sulle prime linee, ma vennero scatenati anche contro le città, in modo altamente distruttivo. Inoltre, la Seconda Guerra Mondiale traumatizzò l’umanità con due enormi tragedie, la Shoah e la distruzione atomica, traumi ancora molto attivamente presenti nel mondo psichico. Per la prima volta l’impensabile diventava realtà, il mondo poteva veramente essere distrutto, intere etnie potevano veramente rischiare di essere cancellate.

Fu negli anni Settanta che, per la terza volta, gli psicoanalisti notarono un cambiamento nella patologia prevalente dei pazienti, costituita soprattutto da casi borderline e personalità narcisistiche. Gaddini ipotizza un legame tra ciò e gli sconvolgimenti sociali e culturali degli anni Sessanta, anni in cui si assistette ad una rivolta giovanile contro la cultura dominante ed il potere dei “padri”.

Penso che tale rivolta avesse radici profonde nei decenni precedenti, durante i quali le autorità che governavano il mondo, e per questo investite di un ruolo “paterno”, avevano mandato al massacro milioni di giovani (Raskosky, 1973).

Inoltre, gli anni Cinquanta e Sessanta videro, in molti paesi occidentali, un’industrializzazione diffusa che si accompagnò a intensi flussi migratori, in Italia dal Sud al Nord, con lo spopolamento delle campagne ed una disordinata e massiccia urbanizzazione.

Le conseguenze psicologiche che ne derivarono avevano molto a che fare col senso di sradicamento e con l’identità: bisognava affrontare colori, odori, suoni, paesaggi completamente diversi; per chi parlava solo il dialetto anche una lingua nuova; soprattutto si era senza punti di riferimento stabili e autorevoli. Quei punti di riferimento molto presenti e riconoscibili nella cultura contadina, in cui vi era una trasmissione continua dei saperi dai padri ai figli e valori profondamenti diversi da quelli che regolano le civiltà industriali, che nel loro sviluppo hanno generato una cultura consumistica.

 

Nel solco del lavoro di Gaddini, penso che l’enorme sviluppo scientifico e tecnologico degli ultimi cento anni, con le ricadute molteplici sulla vita quotidiana, sul lavoro, sulla cultura, sui rapporti umani, sull’antropologia umana, sia piombato sull’umanità come uno tsunami ripetitivo, difficilmente digeribile in un arco di tempo così ristretto. Mai come ora l’uomo è stato così dipendente dalle macchine e compenetrato con esse. Inoltre, forse è la prima volta nella storia umana che, per quanto riguarda la tecnologia digitale, i figli hanno più competenze dei genitori.

Un ulteriore cambiamento nelle forme della sofferenza mentale si è avuto a seguito della rivoluzione digitale degli ultimi decenni.

Per Amati Sas (1989, 2001) la società tecnologica di massa crea individui indifferenziati, alienabili rispetto a se stessi e mimetizzabili col mondo esterno, facilmente manipolabili dai mass-media, dalle statistiche, dalle varie propagande più o meno occulte, come quella pornografica o pedofila. Ciò avviene per la condizione di base dell’essere umano, che nasce impotente e si affida all’ambiente che lo accoglie, strutturando così un’adattabilità, un conformismo ed un opportunismo di base, di cui dovrà il più possibile liberarsi se egli vuole portare a termine il suo compito esistenziale: diventare una persona, capace di pensare ed a contatto col proprio mondo affettivo.

Assistiamo purtroppo all’offerta e alla ricerca di stati mentali eccitati, che riempiono sensazioni di vuoto angosciante, favorito dalle condizioni sociali attuali.

Viviamo in un mondo borderline, caratterizzato dall’idealizzazione della futilità, da abusi di varia natura, dalla frantumazione di strutture sociali, dalla caduta di idee, ideali e ideologie, con un concomitante sviluppo di vuoti mentali ed affettivi.

 

Mi sembra che la società odierna e molti dei suoi prodotti culturali finiscano per amplificare lo spazio di una delle polarità della vita psichica umana, il narcisismo, a cui si contrappone o si affianca l’alterità e la vita umana mi sembra possa essere rappresentata dalla continua tensione tra queste due polarità, all’interno delle quali ve ne è un’altra, quella tra “sano” e “patologico”.

La cultura post-moderna in cui siamo immersi descrive e documenta il tramonto delle ideologie e delle certezze che hanno sostenuto e provvisto di regole e leggi la convivenza umana negli ultimi settanta anni.

I vertiginosi accadimenti storici degli ultimi trenta anni hanno determinato la crisi dei garanti metasociali della società (autorità, gerarchie, famiglia, miti, ideali, religione) su cui si fondano le strutture sociali e culturali che regolano la vita collettiva (Kaës, 1998, 2005).

Le instabilità sociali del mondo moderno, il crollo delle grandi ideologie e dei miti collettivi, la crisi delle strutture sociali garanti della continuità e della sicurezza, la perdita del senso della storia, la difficoltà a strutturare una identità stabile, producono per reazione la nascita di nuovi idoli, di idee onnipotenti, di fondamentalismi sempre radicali.

Da qualche tempo il trauma è tornato al centro della riflessione psicoanalitica. Ma la cultura moderna tende a costruire un’assuefazione al trauma. «Contro la depressione, la post-modernità coltiva, di volta in volta, il catastrofismo, le promesse maniacali e i sogni di dominio e di controllo. È probabile che questa cultura dei limiti estremi, del pericolo e dell’urgenza abbia una qualche incidenza sulla struttura stessa dell’apparato psichico.» (Kaës, 1998, p. 124). Questa cultura che enfatizza il traumatico e le esperienze catastrofiche, protagoniste di tanta filmografia degli ultimi anni, «è al tempo stesso una cultura del pericolo, ma anche della prodezza. Superarsi, darsi un gran da fare (nel lavoro, nell’aver successo o nella droga, ma anche nelle formazioni del narcisismo di morte) sono un valore negativo la cui base comune è l’eroicizzazione della morte» (Kaës, 2005).

 

Ancora una volta spetta alla psicoanalisi essere contro-corrente nell’affermare l’importanza, per la vita psichica, di un universo simbolico e affettivo condiviso. «È un nostro dovere terapeutico, etico e culturale sostenere e difendere ciò che noi crediamo essere essenziale per i pazienti e per l’essere umano in genere. E se la nuova condizione umana ci presenta un soggetto tutta superficie, immerso in una rete di esperienze e immagini fugaci e molteplici, che non si può affidare agli insegnamenti del passato, la nostra cura non può essere che contro-corrente, perché per noi resta fondamentale lo spazio psichico, il vissuto del tempo, la memoria e il passato» (Chianese, 2005).

Penso che il compito che spetta agli psicoanalisti, in tutti i contesti in cui si trovano ad operare, sia quello di testimoniare l’esistenza e l’importanza del mondo affettivo, del pensiero e della capacità di rappresentazione: di testimoniare, in fondo, l’importanza della persona.



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