Nel libro di Simone Maschietto, La sessualità nella Psicoanalisi Contemporanea: aspetti teorici e clinici, Ed. NeP, 2024, che è ricco di spunti interessanti, si sottolinea l’attuale “desessualizzazione” della psicoanalisi: una tendenza che toglie pregnanza e profondità al pensiero psicoanalitico. È innegabile che la nostra disciplina abbia preso negli ultimi decenni direzioni piuttosto divergenti da quella del modello classico; d’altro canto, è evidente che ci confrontiamo con una popolazione sempre più distante da quella che incontravamo in passato. Si potrebbe pensare, ma non è affatto ovvio, che queste due cose siano necessariamente legate, che la “vecchia” psicoanalisi centrata sulla sessualità non si adatti al “nuovi” soggetti. Che non si tratti di dover ampliare la teoria e adattare la tecnica, ma che si debba rinunciare alle premesse che ci hanno guidato in passato, annacquando inevitabilmente, insieme alla teoria, il metodo psicoanalitico.
La desessualizzazione, ci viene detto da molti interventi nel libro, sarebbe stata facilitata dagli orientamenti relazionali nella nostra disciplina: una svolta che, nelle sue varie forme, considera la ricerca dell’altro come la motivazione centrale dell’attività psichica e che ci ingaggia, in quanto analisti, sempre più come persone reali nel rapporto con i pazienti e sempre meno come oggetti di transfert.
Dobbiamo però chiederci se sia teoricamente corretto stabilire una gerarchia fra le motivazioni e scegliere fra pulsione e oggetto. Se, dunque, il fatto di riconoscere il nostro bisogno primario di relazioni sia ciò che ci ha autorizzato negli ultimi decenni, in modo più o meno esplicito, a sbarazzarci delle pulsioni.
Freud cambiò più volte idea sul ruolo della realtà esterna, e dunque dell’oggetto, nella causalità psichica. Inizialmente lo considerò come un fattore traumatico, poi lo ridusse all’ “elemento più variabile della pulsione”; la relazione oggettuale, nella forma del complesso edipico, divenne infine, nella fase più matura, del suo pensiero la materia fondamentale con cui si costruisce il mondo interno. La storia delle relazioni umane si deposita nella nostra mente attraverso le identificazioni consce e inconsce con le persone significative che da bambini incontriamo nella vita e in cui investiamo le nostre pulsioni, prima di tutto i nostri genitori. Queste identificazioni si stratificano su altre, ipotizzate come più antiche, risalenti alla primissima infanzia, che Freud non ebbe ovviamente modo di studiare.
Lo studio dei pazienti gravi e dei bambini piccoli, tutti soggetti situati in qualche modo al di qua dell’Edipo, ci ha presto costretti a considerare con attenzione il ruolo traumatico o facilitante delle prime relazioni e a pensarci in quanto analisti nei nostri aspetti materni e non solo in quelli paterni. Questo, però, non ha di necessità comportato per tutti un appiattimento su di una concezione meramente relazionale. Almeno, non da subito. Ferenczi, nella centralità che diede al trauma ambientale e al ruolo traumatico o riparativo dell’analista, non ebbe mai di questo una concezione “lineare”, come di qualcosa che prescinde dalla soggettività; non mise mai dunque da parte le pulsioni. Non lo fece Anna Freud, molto attenta all’interazione fra mondo esterno ed interno che è alla base della creazione delle strutture intrapsichiche, né con lei lo fecero Spitz, Mahler, Pine e altri studiosi della psicologia psicoanalitica evolutiva. Tutti loro mantennero una visione complessa della motivazione umana. Lo stesso vale per Winnicott, che rintracciò una doppia sorgente della creatività infantile: da un lato l’illusione sostenuta dalla relazione primaria, dall’altro l’istintualità del bambino. È nell’incontro fra queste due correnti, una di origine esterna e una interna, che il soggetto può nascere. Spesso si ritiene che nel modello di Winnicott la pulsione come fattore motivante sia stata messa da parte a favore del Sé, ma questo non è corretto. Fu piuttosto Kohut ad andare in questa direzione.
Senza pulsione, dunque, non ci può essere un soggetto. Almeno, questo è stato vero per tutto il Novecento. Sarà ancora vero per le generazioni ipermoderne, la cui soggettività sembra a volte frantumata e ricombinata in un modo per noi inconsueto? Persone la cui domanda riguarda istanze identitarie (non solo di genere), più che conflitti attorno a un desiderio che è spesso difficile da rintracciare? Parlo di coloro di cui si tratta in molti contributi di questo libro, in particolare i bei lavori di Rita Corsa. Parlo però anche delle persone, adolescenti e giovani adulti, che incontriamo nella nostra pratica, che non sanno bene di cosa soffrono e che sembrano non desiderare nulla. Giacobbi, nel suo scritto, cita Zoja, che ci parla appunto del declino del desiderio nelle nuove generazioni. Ritornerò su questo punto.
Nel panorama internazionale, sembra che sia solo la psicoanalisi francese ad aver raccolto ed elaborato in modo rigoroso una complessità di vedute che articola la pulsione e la relazione a rendere conto delle motivazioni umane. In quest’ottica, non è mai la relazione di per sé a essere un fattore traumatico o strutturante, indipendentemente dalla posizione del soggetto. Non esiste dunque un trauma assoluto, non esiste una madre, o un’analista, assolutamente buona.
Maschietto, nella sua prefazione, cita Laplanche, che vede la matrice intersoggettiva come il luogo nel quale la pulsione viene attivata. L’adulto “seduttore” risveglia la pulsionalità del bambino in forma enigmatica: solo alla pubertà, in après-coup, questo enigma sarà interpretabile. Vi è un periodo di incubazione, in cui la pulsione e il soggetto prendono forma.
Che possiamo fare, se manteniamo questa posizione “classica”, con le persone disorientate che vediamo oggi nei nostri contesti di cura? Non certo coccolarli e gratificarli, come spesso vediamo fare, nella speranza di farli fiorire con il nostro amore materno.
Dobbiamo cercare di rintracciare in loro e con loro le piccole scintille di desiderio che sanno esprimere, attaccandoci a qualunque interesse, idea personale, prospettiva, per quanto lontana dalle nostre e a volte incomprensibile per noi, mantenendo l’attitudine che propone Correale nel libro. Essere curiosi del loro mondo, quello in cui crescono e che a volte ci ripugna, mostrare che sappiamo mantenerci aperti a ciò che sarà, anche se siamo diversi. Investire in ciò che di loro ci piace, nel rispetto della loro soggettività, senza intrusioni, ma senza false neutralità. Dar loro tempo, e a volte ne occorre molto. Senza un buon uso della nostra sessualità, e senza il riconoscimento della loro sessualità, tutto questo non si può fare.