Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 30
1 - 2024 mese di Giugno
CLINICA – IL CONTESTO SOCIOCULTURALE
A PROPOSITO DI “AUTO-SVELAMENTO” E “SOGGETTIVITÀ” NELLA TERAPIA PSICOANALITICA
di Secondo Giacobbi

Concentrerò il mio intervento, volendo essere sintetico, sul tema-problema dell“auto-svelamento” e della “soggettività” nella terapia psicoanalitica.

L’impraticabilità e l’ingenuità epistemologica della originaria macchina psicoanalitica, come metodo e prassi, supposti pre-condizione di un fare terapeutico oggettivo e scientifico, ci è ben nota da diversi decenni. Dobbiamo però riandare con la memoria storica al senso e agli obbiettivi che quella macchina presumeva di garantire. Ricordate? Specchio, neutralità, astinenza, anonimato e, naturalmente setting, il setting più rigoroso, erano le parole magiche a cui cercavano di ispirarsi quei nostri pionieri; parole magiche cui i giovani analisti degli Anni Settanta e Ottanta (quorum ego), a loro volta cercavano di tener fede. Era una “fede”, appunto. Faremmo però un torto ai nostri padri fondatori se li considerassimo solo degli ingenui scientisti. Il loro obbiettivo era chiaro, per quanto illusorio. Si trattava di aiutare il paziente a proiettare sull’analista la sua malattia e il suo transfert senza che l’analista stesso contribuisse al processo relazionale, analitico e terapeutico, inquinandolo con il suo contributo. Ed era soprattutto per questa protezione della relazione analista-paziente che il setting si caratterizzava per il suo rigore e per quelli che erano, se non veri e propri divieti, comunque consigli a cui attenersi quanto più possibile. Si trattava, ad esempio, per intenderci, di non rispondere alle domande del paziente o si trattava di fargli pagare gli appuntamenti mancati e, sul piano della metodologia dello scambio dialogico e mentale, si trattava di incoraggiare il paziente alle libere associazioni e  attenersi, in quanto analisti, ad un atteggiamento mentale di attenzione liberamente fluttuante. Due indicazioni metodologiche, come è ormai acquisito, entrambe pressochè inapplicabili.

Ricordo che un esponente della Psicologia dell’Io consigliava ai giovani analisti di presentarsi ai pazienti vestiti pressochè allo stesso modo! E infatti, per quanto silenziosi, posturalmente statici, imperturbabili, gli analisti trasudavano comunque stimoli relazionali, emotivi, fantasie, informazioni su di sé e di sé. C’era qualcosa di caricaturale (e infatti, quante vignette umoristiche!) ma anche qualcosa di “eroico” in quella impresa impossibile, che sembrava far rinascere in pieno Ottocento lo spirito della tragedia greca, con la sua unità di tempo, luogo ed azione.

E veniamo all’oggi. Dovremo pur ammettere che la psicoterapia e, soprattutto, la psicoterapia psicoanalitica, è davvero un mestiere impossibile. Si pensi solo al nostro ascolto: siamo attentissimi  al discorso del paziente su di un piano di realtà ma cerchiamo anche di cogliere in tale discorso l’ipotetico emergere di un altro discorso, quello dell’inconscio. Riferiamo tale discorso alla situazione relazionale in atto e, per di più, cerchiamo di abbandonarci a nostra volta, per quel che ci è possibile, a libere associazioni. Per non parlare di transfert e di controtransfert, che ormai sappiamo bene di contribuire attivamente a generare. Ebbene, non vi pare che, in una situazione di così estrema complessità, sia per lo meno saggio evitare, in linea di massima, di complicare ulteriormente una simile complessità situazionale e relazionale con interventi nei quali si parli al paziente di noi stessi, della nostra vita, dei nostri sentimenti, dei nostri ricordi, delle nostre opinioni? A tutto ciò alcuni danno il nome “soggettività”, ma io penso che la nostra soggettività, sempre comunque debordante, e la nostra “persona” (come precedentemente si preferiva chiamarla ) dovrebbe potersi  esprimere, solo passando attraverso il “ruolo” analitico e terapeutico. Così, abitualmente (non sempre ci riusciamo), prima di formulare un intervento, dovremmo, come ben sappiamo, valutarne l’appropriatezza e il possibile impatto sul paziente. E’ anche per questa necessità di prassi e di responsabilità clinica che, anche grazie ad un adeguato setting, cerchiamo, tra le altre cose, di rallentare la velocità e il ritmo delle interazioni con il paziente, introdurre pause di silenzio riflessivo, evitare il botta e risposta (a domanda del paziente risposta dell’analista). Abbiamo bisogno di pensare, sorvegliarci, proteggere un minimun di nostra tranquillità psichica, abbiamo bisogno di “empatizzare” senza, almeno in linea di massima, “simpatizzare” con il paziente. Abbiamo bisogno di accogliere il paziente con rispetto e senza giudizio, ma non di accettarlo in modo  approvante ( e tantomeno disapprovarlo”). Io credo che a curare il paziente siano il nostro ruolo terapeutico e la funzione analitica di cui il ruolo si avvale. La “persona” dell’analista sta dentro, dietro e al di sotto del ruolo. Se ne fuoriesce, per interventi attivi dell’analista, non può non introdurre elementi di ulteriore complessità, difficili da governare. Mi si può obbiettare che ci possono essere situazioni in cui l’autosvelamento non solo risponde ad una scelta clinica responsabile, ma produce effetti positivi. Innegabile. Per quanto mi riguarda, e per quel che vale la mia personale esperienza, sono due le modalità di autosvelamento da me utilizzate. Mi capita di comunicare al paziente una mia libera associazione al suo discorso, con l’esclusione però di libere associazioni che riguardino la mia vita privata presente o passata. Mi capita inoltre di comunicare al paziente, per la verità con grande prudenza, miei stati d’animo relativi all’andamento della seduta ed al mio rapporto con lui nel hic et nunc della seduta. Non sempre mi è andata bene anche se mi pare di avere comunque evitato gli errori più dannosi.

Mi avvio alla conclusione con un rapido e impressionistico spunto di riflessione sul concetto di “soggettività”. Mi pare di capire che la fortuna del termine  sia dovuta principalmente al fatto che il suo uso trasmette una sensazione di “agency”, cioè la sensazione di essere attivi, ma non nel senso dell’agito e della messa in atto e neanche dell’ enactment, bensì nel senso di una azione relazionale che comunica “autenticità” da parte dell’analista e produce, almeno potenzialmente, autenticità nel paziente. Se è così, ci sarebbe da riflettere a lungo. Come analisti sappiamo bene che la dimensione inter-personale è illusoria. In realtà non si tratta mai, negli scambi relazionali umani, di un rapporto inter-personale (non esiste la “persona” come entità intera e coerente) bensì di un rapporto sempre inter-psichico, cioè relativo a scambi tra “parti” della persona. Tra l’altro scambi alimentati e complessizzati anche da una inevitabile quota, seppur minima, di investimento transferale (per intenderci, entriamo in transfert anche con il nostro barista). Ci si può chiedere in che misura, invece, il rapporto analista-paziente possa porsi in una dimensione inter-soggettiva. Faccio rilevare come il “soggetto” sia un termine-concetto particolarmente potente anche perché ha uno statuto logico-grammaticale. Il “soggetto” è infatti, innanzitutto, colui che, nella frase sintattica, compie ( o non compie) un’ azione. Si potrebbe aggiungere che in una dimensione psicologica  il soggetto è anche colui che si assume la paternità e la responsabilità dell’azione. E noi psicoterapeuti di orientamento psicoanalitico sappiamo come per i nostri pazienti sia difficile accedere a tale responsabilità, protesi come sono, comprensibilmente, ad accusare gli altri (anche se, talora, giustamente e legittimamente) dei propri guai. Possiamo così, certamente affermare che l’esperienza psicoanalitica è anche una esperienza che aiuta il paziente a riconoscersi soggetto agente e responsabile. E, in questo caso, si tratta di una esperienza “soggettivante”, che nasce e si sviluppa all’interno della sua relazione con l’analista. E’ quindi tale relazione una relazione “intersoggettiva”? E possiamo quindi sostenere la possibilità di uno scambio inter-soggettivo tra l’analista e il paziente? L’espressione  “inter-soggettivismo” usata da molti, oggidì,  per denominare un’orientamento predominante nella psicoanalisi di contemporanea, sembra indicare una dimensione “paritaria” della relazione analista-paziente, nella quale i due attori si incontrerebbero su di un piano di orizzontalità. Ma la relazione analitica e psicoterapeutica non si pone su di un piano di “orizzontalità.   Non si tratta, ovviamente, della “verticalità” dei rapporti di potere, anche se le dinamiche di potere non ci sono estranee; bensì di una separazione di ruoli che, a mio avviso, posiziona i membri della coppia analitica in modo ineludibilmente e insuperabilmente differenziato e asimmetrico. E tale differenza di “posizione” riguarda anche la persona e la soggettività del paziente e dello psicoterapeuta.

Si può dunque parlare di “soggettività” dell’analista, cioè del clinico nel suo rapporto con il paziente? E se si, in quale senso, più precisamente? Continuerò a interrogarmi.

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