Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 30
1 - 2024 mese di Giugno
CLINICA – IL CONTESTO SOCIOCULTURALE
IL BAMBINO IN CERCA DEL SUO SPAZIO. UN’EDUCAZIONE CHE FAVORISCA LO SVILUPPO AFFETTIVO-EMOZIONALE NEL PROCESSO DI CONOSCENZA DEL MONDO
di Roberto Carnevali

Educare alla consapevolezza e alla reciprocità

 

Parlare di psicologia dell’educazione significa porre le basi per un rapporto tra l’adulto e il bambino in cui il primo si relazioni al secondo favorendone lo sviluppo, offrendogli le opportunità di crescita che incontra nel mondo attraverso la valorizzazione delle risorse che lo caratterizzano.

Nel mio lavoro di psicologo, che dura da più di quarantacinque anni, ho avuto in varie occasioni l’opportunità di misurarmi con lo stile educativo che era imperante nel momento storico che stavo di volta in volta attraversando, e tenendo presente questo principio di fondo ho cercato, a seconda delle opportunità che il contesto mi consentiva, di portare un pensiero costruttivo in tal senso.

 

Nell’appena costituito Corso di Laurea in Psicologia che ho frequentato dal 1971 al 1975 presso l’Università di Padova, tra gli esami del primo anno c’era Psicologia dell’età evolutiva, e il titolare del corso era il professor Guido Petter, noto, fra l’altro, per aver portato in Italia il pensiero di Jean Piaget, ritenuto uno degli psicologi più illuminati in psicologia dell’educazione. I testi di riferimento per l’esame erano di Piaget e dello stesso Petter, e il discorso che complessivamente veniva proposto mi colpì profondamente. In un periodo quasi concomitante, per un altro esame, ero entrato in contatto col pensiero di Giampaolo Lai che, in un libro che è rimasto per me illuminante, Gruppi di apprendimento, proponeva la differenziazione fra “orientamento manipolatorio” e “orientamento identificatorio”, evidenziando la fecondità del secondo ed esprimendosi in senso fortemente critico nei confronti del primo. Questa lettura risultò per me chiarificante, facendomi comprendere in modo più consapevole il significato del disagio che avevo provato leggendo Piaget e Petter: capivo che il pensiero sotteso alle opere di questi autori era fondato sull’idea di un implicito orientamento manipolatorio portato a metodo! Dalla logica del fanciullo alla logica dell’adolescente, Di J. Piaget e B. Inhelder, Lo sviluppo morale del fanciullo, di J. Piaget a cura di G. Petter, e Conversazioni psicologiche con gli insegnanti, dello stesso Petter, mi avevano colpito per la scontatezza del presupposto da cui partivano: poter generalizzare alcune caratteristiche del bambino a seconda della fascia di età, per poter strutturare interventi attraverso i quali “far passare” in modo convincente valori ritenuti “giusti” in senso assoluto. Nessun riferimento all’ascolto e all’opportunità di cogliere le caratteristiche individuali peculiari di ciascun bambino, ma tabelle divise per fasce d’età in cui venivano esposte le modalità di pensiero del bambino, del fanciullo e dell’adolescente, e il modo in cui sarebbe stato opportuno proporre pensieri e valori perché venissero accettati e rendessero il più possibile “normale” lo sviluppo fino all’età adulta. E le “Conversazioni psicologiche con gli insegnanti” applicavano questa logica offrendo suggerimenti che favorissero la comunicazione da parte degli insegnanti nei confronti degli alunni nel senso di “colonizzare” le loro personalità instillando dentro di loro princìpi ritenuti giusti per un loro sviluppo “armonico”, teso ad acquisire una personalità il più possibile “normale”, e cioè corrispondente a quello che le tabelle, frutto di ricerche “scientifiche”, avevano evidenziato. L’idea di Giampaolo Lai dell’infecondità di un orientamento manipolatorio, quale era quello di Piaget e di Petter, a cui finalmente davo un nome, e della fecondità di un orientamento identificatorio, teso all’ascolto della persona come unica e irripetibile e a un operare fondato su questo ascolto e sulla valorizzazione di questa unicità e irripetibilità della persona, mi aiutò a configurare un pensiero articolato sull’argomento, che mi accompagnò da lì in poi nel mio lavoro.

La mia tesi di laurea, discussa nel dicembre del 1975, si intitolava “Il metodo dei gruppi eterocentrati in un seminario di aggiornamento per insegnanti di scuola media inferiore”, e tracciava un percorso basato su due fondamenti: l’orientamento identificatorio e la fecondità del lavoro di gruppo nel favorire questa modalità di relazione. Questi due fondamenti sono ancora oggi per me dei punti cardinali di riferimento.

 

Il mio lavoro di psicoterapeuta si è rivolto principalmente al contesto psichiatrico e a un’utenza di adulti, ma ho avuto modo, a volte anche per periodi relativamente lunghi, di lavorare in ambito scolastico e di collaborare con insegnanti e genitori in ambito clinico, scolastico o sociale.

Ho sempre rivolto la mia attenzione ai princìpi su cui si fondava la modalità relazionale di chi chiedeva il mio aiuto, e ho potuto assistere, non senza turbamento, allo svilupparsi, nel corso degli anni, di una logica tesa al controllo e alla “protezione” del bambino, eleggendo il genitore a tramite di tutta la conoscenza che il bambino può mettere in atto nei confronti del mondo circostante. Il “parental control”, l’indicazione nelle trasmissioni televisive della necessità della presenza di un adulto perché il bambino possa assistere a certi programmi o spettacoli... tutto tende a configurare un adulto “mediatore” del processo di conoscenza del bambino, che stabilisce quando, come e fino a che punto è opportuno che il bambino entri in contatto con elementi della realtà, intervenendo a circoscriverla o edulcorarla, o addirittura ad impedire un contatto diretto, eliminandola del tutto o filtrandola secondo criteri pre-concetti, fondati proprio su quelle generalizzazioni care a Piajet e a Petter.

Come ho potuto, ho cercato di offrire a genitori e insegnanti che si collocavano in questa prospettiva qualche spunto di riflessione, con un costante invito a chiedersi cosa può albergare nella mente, e soprattutto nel cuore, dei loro figli o allievi; ma spesso il compito era arduo, tanto più da quando l’ideologia del “parental control” è diventata imperante.

Cito qui il lapsus, a mio avviso significativo, di una mamma che, quando tenevo dei colloqui in un servizio di “sportello scolastico”, uscì candidamente con questo discorso: «Non capisco di che cosa si lamenti mio figlio, quando io faccio di tutto per metterlo a mio agio».

Immagino fosse un lapsus (e anche in questo caso comunque esprimeva il sentire profondo della madre), ma forse era invece scientemente convinta che la cosa più sensata per il figlio fosse agire in modo tale da non comportare alcun disagio per la madre.

 

Esistono comunque, anche in questo momento storico in cui l’orientamento manipolatorio nei confronti del bambino sembra aver raggiunto vertici preoccupanti, modalità relazionali terapeutiche nelle quali l’orientamento identificatorio è invece centrale, e si offre come metodo per trasformare costruttivamente relazioni familiari complesse, introducendo elementi che stimolano alla riflessione e al cambiamento.

 

Un esempio illuminante è dato dalla terapia multifamiliare applicata a famiglie nelle quali un figlio riceve una segnalazione al tribunale perché portatore di aspetti problematici. Nella terminologia sistemica la persona portatrice del disagio viene definita “paziente designato”, e si ritiene che sia quella su cui converge il disagio del sistema familiare nel suo complesso. L’intervento sistemico cerca di riequilibrare la “designazione” attivando un processo di cambiamento relativo all’intero sistema.

Nella terapia multifamiliare esistono varie modalità di intervento, accomunate dal partire da un confronto fra due o più famiglie, nelle quali vengono proposti dei “giochi” relazionali tesi a ristrutturare l’assetto del sistema favorendo un cambiamento di prospettiva che apre l’insieme delle relazioni a un processo trasformativo.

Il mio interesse per la terapia multifamiliare nasce dalla collaborazione, iniziata nel 1979 e che continua a tutt’oggi, col dott. Riccardo Canova, che è oggi uno degli interpreti più accreditati in Italia nell’applicazione della terapia sistemica e in particolare della terapia multifamiliare, secondo i fondamenti del pensiero del prof. Eia Asen, che io stesso ho avuto modo di conoscere in alcuni incontri formativi organizzati in Italia dallo stesso Canova in varie occasioni.

L’esempio che voglio descrivere in modo diffuso può fungere da paradigma di una modalità che, fondandosi su un orientamento identificatorio, ha lo scopo di favorire lo sviluppo nel bambino di una consapevolezza relativa al proprio mondo interno di pensieri e sentimenti che gli permetta di relazionarsi al mondo esprimendo le proprie caratteristiche peculiari.

 

Al congresso MFT-V sulla terapia multifamiliare tenutosi a Bruxelles nel 2011, ho partecipato a un Workshop tenuto dal dott. Canova in cui veniva proposta una modalità applicativa della terapia multifamiliare che iniziava con l’invito rivolto ad alcuni partecipanti a un role playing nel quale erano tenuti a interpretare i personaggi in gioco.

La situazione era la seguente: due famiglie che non si conoscevano prima dell’incontro, e i cui figli erano stati segnalati per comportamenti che avevano richiesto l’intervento dei servizi sociali, venivano invitate a confrontarsi in un gioco relazionale nel quale avveniva da parte dei genitori uno scambio di famiglie (ciascun genitore assumeva il ruolo corrispondente al proprio nell’altra famiglia) e i figli assumevano il ruolo di autori e di registi della situazione che veniva messa in scena, dando ai genitori dell’altra famiglia, che interpretavano i loro genitori, precise indicazioni su quello che avrebbero dovuto rappresentare.

 

Schematicamente possiamo configurare la situazione come segue.

Esistono due famiglie, composte ciascuna da tre persone: madre, padre e figlio. Avremo dunque la famiglia UNO, composta da A1 (madre), B1 (padre) e C1 (figlio) e la famiglia DUE, composta da A2 (madre), B2 (padre) e C2 (figlio). Il conduttore dà la consegna a C1 e C2 (i due figli) di ricordare una situazione vissuta da loro con i propri genitori e di metterla in scena con i genitori dell’altra famiglia. C1 spiegherà ad A2 e B2 quale scena devono “drammatizzare”, cercando di far emergere i sentimenti che dal suo punto di vista erano in gioco nella scena che viene rappresentata, e altrettanto farà C2 con A1 e B1.

Cerchiamo ora di vedere i meccanismi identificatori che si creano. C1 ricorda un evento per lui significativo e cerca di trasmetterne il contenuto e i vissuti sottesi a una coppia di genitori (A2 e B2) che non hanno vissuto l’evento, e che possono rappresentarselo solo alla luce della descrizione che ne fa loro C1. La stessa cosa accade nell’altra triade (C2, A1 e B1), dove C2 deve mettere in scena una situazione che lui ha vissuto, attraverso persone (A1 e B1) che devono farlo sulla base della sua descrizione, interpretando la parte dei suoi genitori in quella circostanza. Per di più, i due figli giocano anche il ruolo di “registi”, dando suggerimenti e “correggendo il tiro” fino al momento in cui ritengono che i genitori dell’altra famiglia siano sufficientemente credibili ai loro occhi nel riprodurre quello che ritengono sia realmente successo nella situazione di riferimento.

 

Trascorso un certo tempo, stabilito dal conduttore, si procede alla rappresentazione dei due eventi. In questa seconda fase, ai processi identificatori già messi in atto nella prima se ne aggiungono altri estremamente significativi: i genitori, nel simulare una situazione che è stata loro descritta e che ora recitano in prima persona, si trovano ad essere collocati in una posizione che è per certi versi affine alla loro consuetudine, essere il padre o la madre che interagisce con l’altro genitore e col figlio, ma per altri versi è del tutto inconsueta, perché appartenente a un altro contesto familiare nel quale si trovano collocati improvvisamente senza conoscerne, se non attraverso una descrizione avvenuta in breve tempo, i presupposti e la storia in senso esteso.

I figli rivivono una situazione che loro stessi hanno messo in scena sulla base del loro ricordo, dando delle indicazioni agli interpreti su come devono giocare la parte, arrivando però ad incontrare, quando la messa in scena si compie, sviluppi inimmaginati che possono condurre a risvolti imprevisti.

 

Potremmo continuare a lungo nel trovare elementi identificatori che si attivano in questo gioco di ruoli estremamente complesso. Possiamo constatare che attraverso questo tipo di esperienze, che si fondano sul presupposto che sapersi mettere nei panni degli altri arricchisce la persona, amplificando la sua capacità relazionale e la sua attitudine alla riflessione, situazioni problematiche che riguardano minori che vivono in famiglie problematiche trovano frequentemente sbocchi di comprensione che preludono a significative trasformazioni. E il fondamento di questo processo trasformativo risiede nel far emergere consapevolezza attraverso esperienze nelle quali il bambino o il fanciullo è parte attiva nell’acquisire conoscenza e nel poter esprimere certe sue caratteristiche peculiari, senza la necessità della presenza di un adulto “mediatore”, offrendo anzi all’adulto opportunità di ampliamento della conoscenza di se stesso e dell’altro.

 

Anche se il pensiero più diffuso oggi in campo educativo va nella direzione del “parental control”, non mancano iniziative che si muovono in direzioni diverse, più legate all’obiettivo di formare giovani responsabili e consapevoli, che non necessariamente devono prima di tutto essere protetti dalla possibilità di incontrare fonti di turbamento. Lo stesso Riccardo Canova è il referente per l’Italia di un progetto Erasmus a livello europeo in corso di realizzazione, in cui viene proposta una formazione degli insegnanti di scuole elementari e medie fondata su un approccio sistemico multifamiliare, con la costituzione di “Laboratori Kidstime” nati come “intervento sociale multifamiliare per gli effetti della malattia mentale dei genitori” ma estesi anche ad altri ambiti, secondo un’impostazione che viene ben definita attraverso i titoli dei primi capitoli del manuale relativo:

 

BASI CONCETTUALI E TEORICHE DEI LABORATORI KIDSTIME

Far incontrare i bambini e i genitori intorno al tema della malattia mentale

Un evento sociale ed educativo per genitori e bambini

- Separatamente e insieme, piuttosto che una "terapia"

Il principio del lavoro di gruppo multifamiliare

Il gruppo dei genitori

I gruppi per bambini e ragazzi

Offrire opportunità di sviluppo delle relazioni attraverso le famiglie

 

Possiamo facilmente constatare anche da queste poche frasi, che definiscono argomenti di base del metodo, quanto questa impostazione sia lontana dall’idea di un controllo che deve essere esercitato dagli adulti sui bambini per proteggerli ed evitare che entrino in contatto con contenuti proibiti. Ciò che si promuove è la condivisione (quella vera, che presuppone reciprocità, non quella che avviene sui social, dove “condividere” è diventato sinonimo di “diffondere”, in una totale mancanza di reciprocità), l’apertura di un dialogo che va oltre l’idea di terapia, in una dimensione dove il confronto è di per sé possibile fonte di consapevolezza e dunque di arricchimento.

 

 

Psicoterapia infantile

 

Potrà sembrare strano che il discorso che qui propongo faccia riferimento a un approccio sistemico e non a quello al quale mi sono formato, la psicoanalisi, con un interesse particolare rivolto ai gruppi e alla dimensione relazionale. Non ho cambiato bandiera. La mia è una scelta ponderata dovuta al fatto che ritengo che quando si tratta di bambini e di ragazzi la psicoanalisi vada applicata solo in termini di un’eventuale chiave di lettura (e solo in una prospettiva relazionale e non metapsicologica) ma non vada applicata come terapia, se non in casi del tutto eccezionali e come ultima ratio.

Malgrado qualche passo avanti sia stato fatto rispetto al periodo in cui ho cominciato a lavorare (la metà degli anni ’70) in cui esistevano le scuole “speciali” dove i bambini “handicappati” (questo è il termine che si usava, e i servizi che si occupavano di questi temi si chiamavano NOZH - Nucleo Opertivo Zonale Handicap) venivano ghettizzati per permettere ai “normodotati” (altro termine terrificante) di poter tenere ritmi di apprendimento consoni alle loro capacità; e in cui comparivano i primi “insegnanti di sostegno” (che non avevano alcuna preparazione specifica e potevano essere formati in qualunque materia) che andavano a prendere i bambini a cui erano assegnati, portandoli con sé in un’aula vuota in cui veniva praticato un apprendimento individualizzato, che li toglieva dalla possibilità di socializzare e di condividere l’esperienza scolastica con i compagni...; malgrado, dicevo, qualche passo sia stato fatto, l’idea di intervenire sul singolo per ricondurlo il più possibile a una “normalità” è ancora imperante, e in questa prospettiva l’approccio psicoanalitico è fortemente collusivo, rinforzando l’idea che l’oggetto dell’intervento sia il bambino in quanto portatore di un difetto che va diagnosticato e curato, e non, come invece ritengo che sia, il sistema in cui è nato e cresciuto, che non gli ha offerto strumenti adeguati per crescere e per espandere e coltivare le proprie risorse. Al contrario la prospettiva sistemica, e tanto più quella multifamiliare, centra il problema alla radice, e offre una modalità operativa, anche in campo educativo, fondata sul dialogo, sulla condivisione e sulla reciprocità, allentando le maglie di un controllo protettivo che può risultare sterile e paralizzante.

 

 

Educazione e insegnamento

 

Concludo facendo riferimento a un intervento di Vito Mancuso (che, da non credente, ritengo essere l’intellettuale cattolico più illuminato che abbiamo) che qualche tempo fa, ospite di Massimo Gramellini alla trasmissione “In altre parole”, evidenziava la differenza fra “insegnare” e “educare”, sostenendo che l’adulto ha da essere “e-ducatore”, nel senso etimologico di “e-ducere”, e cioè “far uscire” dal bambino il prodotto del suo mondo interiore, più che “in-segnante”, nel senso etimologico di un “mettere dei segni” della propria egemonia culturale dentro al bambino ponendolo così all’interno di confini che potrebbero essere, e concordo pienamente con questo pensiero, troppo angusti e limitativi della sua libertà di espressione.


 

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