Un’analisi, una psicoterapia psicoanalitica, se ben condotta dal terapeuta e sostenuta da una profonda motivazione da parte del paziente, non può che essere un’esperienza emozionale. Credo che nessun analista avrebbe qualcosa da obiettare.
Il concetto di cui parla Roberto Carnevali nel suo articolo ha ovviamente più a che fare con l’idea che il cambiamento, che si spera avvenga in un’analisi, passi attraverso, e soprattutto grazie a, quella che Alexander definì esperienza emozionale correttiva. Alexander proponeva all’analista di mostrare al paziente la situazione per quella che era in modo da smentire le sue distorsioni e proiezioni. Una specie di intervento volto al miglioramento dell’esame di realtà relazionale che passa attraverso la modifica delle aspettative derivanti dalle strutture di interazione disadattive del paziente. Ovviamente si tratta di un modo relativamente ingenuo di intendere l’analisi, al confine con un intervento di tipo cognitivo, che elude le difese inconsce e sottovaluta l’importanza delle stesse in termini di economia psichica.
Il termine correttiva poi, rimanda a qualcosa che si ritiene sbagliato, che deve essere modificato: il terapeuta avrebbe dunque una funzione normativa. Un po’ come gli strumenti (fisici) che il padre del presidente Schreber proponeva per correggere i difetti del corpo dei fanciulli, difetti fisici che riteneva strettamente legati a quelli “morali”.
Siamo dunque nell’ambito della discussione su quali siano i fattori terapeutici che determinano il cambiamento: da sempre ci si interroga se a determinare il cambiamento sia l’interpretazione oppure la relazione, intesa come nuova esperienza che il paziente farebbe con il terapeuta.
Le riflessioni di Roberto Carnevali mi sembrano condivisibili, condivido pienamente la sua ultima posizione relativa all’esperienza emozionale correttiva così come trovo illuminante il concetto di “relazione compiacente”, un pericolo sempre in agguato nei nostri studi professionali (e non solo). Non mi soffermerò oltre.
Vorrei però riprendere brevemente due temi che emergono dallo scritto di Carnevali: il primo è la postura del terapeuta, ben descritta attraverso il ricordo di Guido Medri analista. Guido Medri aveva la grande capacità di essere sempre profondamente autentico e non si stancava mai di insegnarlo ai suoi allievi. Come analisti facciamo o non facciamo alcuni interventi perché abbiamo imparato qualcosa sul funzionamento psichico, sulla psicopatologia e sulla tecnica terapeutica. Ma dovremmo essere comunque autentici. L’incontro analitico è sempre un incontro autentico con un’altra persona, che suscita in entrambi emozioni ed affetti diversi. Ricordo ancora molto bene quando, all’interno di un gruppo clinico, una collega ci parlava delle difficoltà che aveva nell’entrare in relazione con un paziente, certamente molto disturbato, il cui atteggiamento era esplicitamente e pesantemente svalutante e offensivo. La collega le aveva provate tutte ed il gruppo si affannava per cercare di aiutarla, suggerendole di “sintonizzarsi” col bambino interiore del paziente, con quella “povera creatura” che cercava e chiedeva amore o una qualche relazione, anche se in modo perverso. Ad un certo punto Medri, dopo aver ascoltato, disse che probabilmente il modo più adeguato di trattare quel paziente sarebbe stato quello di dirgli che era un gran maleducato e che la cosa migliore sarebbe stata, se avesse continuato, di cercarsi un’altra terapeuta. Lascio immaginare la reazione di sconcerto che ebbe inizialmente il gruppo. L’idea di Medri era chiara, così come sono convinto che quasi tutti i suoi interventi da terapeuta fossero tutt’altro che non intenzionali: “non posso fare in modo che il paziente metta in discussione il suo modo di essere e di vedere il mondo e le relazioni, se non gli mostro che esiste qualcosa di diverso. E se non può pensarlo, faccio in modo che lo veda”.
Come Carnevali, non so se quel tipo di intervento descritto nel suo articolo rientrasse deliberatamente nell’ambito delle manovre volte a promuovere un’esperienza emozionale correttiva. Di sicuro era autentico. Quando Medri parlava di cosa fosse fare analisi dalla parte dell’analista, diceva che si trattava non solo di mostrare al paziente che desiderava un buon genitore, ma anche di esserlo. E, si badi bene, in questo discorso non vi è comunque spazio per una gratificazione diretta dei bisogni del paziente. Ed essere un buon analista (così come un buon genitore), significa anche e soprattutto non utilizzare il paziente per gratificare propri bisogni narcisistici. Solo così è possibile mostrarsi autentici ed offrire uno spazio di lavoro in cui il paziente possa pensare e riflettere in sicurezza.
Le nuove tecnologie comunicative hanno permesso di comunicare a distanza e dare una parvenza di presenza costante alle nostre assenze, di moltiplicare le interazioni in uno spazio caratterizzato da un profondo vuoto relazionale. Uno dei pericoli che questi mezzi presentano, e nel quale sembra ci si sia buttati a capofitto, è dato dalla possibilità di mostrare solo alcuni lati di se stessi, spesso per lo più artefatti e irreali. Come direbbe Sandler, il divario tra Sé reale e Sé ideale sembra ridursi e azzerarsi nelle immagini postate sui social. I social diventano così un vitale antidepressivo che produce dipendenza. Offrire autenticità nella nostra stanza d’analisi è quindi qualcosa di rivoluzionario, oggi più che mai. In questo senso la relazione, una relazione autentica, è un fattore terapeutico necessario. Sufficiente? Non credo. Ci deve essere altro: una grande motivazione da parte del paziente, il quale deve avere una struttura psichica in grado di beneficiare del lavoro psicoanalitico, e una solida preparazione del terapeuta.
Terapeutico è ciò che avviene in una stanza dove c’è autenticità nel rapporto con l’altro e dove, grazie all’aiuto competente del terapeuta, è possibile fare una nuova esperienza del modo di pensare a se stessi e ai propri pensieri, timori e desideri.
Il secondo elemento che vorrei mettere in evidenza emerge “in filigrana” dallo scritto di Carnevali. Potrei dire che ha a che fare con il processo più che con il contenuto. Se il contenuto dello scritto è il concetto di esperienza emozionale correttiva, il processo ha invece a che fare con il percorso interno che Carnevali sviluppa, un percorso che dura decenni e che lo porta, con grande naturalezza, a modificare, anche radicalmente, i propri convincimenti su importanti questioni teoriche. È un processo coraggioso che suscita in me grande ammirazione. Si tratta di qualcosa che non si osserva così frequentemente: spesso gli psicoanalisti si dividono in fazioni, tifoserie, chiese e, arroccati dietro le proprie posizioni, tradiscono l’essenza della nostra disciplina e del nostro lavoro: la ricerca continua di una verità, forse mai realmente raggiungibile. Carnevali è pronto a mettere in discussione il suo modo di intendere il proprio lavoro e gli strumenti che utilizza, e lo fa con grande coraggio ed entusiasmo. Addirittura mette per iscritto le sue idee salvo poi, anni dopo, eliminare un capitolo da un suo libro quando si accorge che le sue idee sono mutate e, successivamente, riproporlo nuovamente! Un viaggio infinito e autentico fatto di grande curiosità e autenticità. Come un’analisi dovrebbe essere.