Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 29
2 - 2023 mese di Dicembre
CLINICA
COMMENTO ALL’ARTICOLO DI ALBERTO LAMPIGNANO
di Silvia Corbella

Sono molto grata ad Alberto Lampignano che, facendo riferimento a due miei scritti, anche per me un po’ particolari, ha voluto definirli esemplari,  esemplarità intesa come possibilità di un modo di guardare e accogliere il proprio controtransfert e transfert, le proprie fantasie ed emozioni,  per poter comprendere e far comprendere al meglio ai pazienti o ai colleghi la situazione in atto. In particolare quando si tratta di una situazione difficile e dolorosa che, a livello inconscio, si vorrebbe bypassare o negare.

L’amicizia fra Alberto e me nasce da una reciproca stima e anche dalla curiosità di un confronto fra modelli diversi di riferimento. Nel suo scritto ci presenta il suo incontro con il termine controtransfert seguito da una attenta e profonda carrellata dei differenti e articolati significati attribuiti a questo termine e dell’uso che gli analisti ne fanno.

Credo che l’uso di questo termine un po’ ci differenzi.

Ho avuto la fortuna di avere come supervisore il dott. Davide Lopez che ha da sempre sostenuto che anche l’analista deve porsi nella relazione con il paziente come persona intera, con la capacità di gestire in modo costruttivo le proprie emozioni, permettendosi di vivere, riconoscere e saper utilizzare il proprio transfert nei confronti del paziente e non difendersene utilizzando il termine controtransfert, come se il transfert fosse una peculiarità solo del paziente e l’analista non potesse avere emozioni proprie verso il paziente che non sono sempre riducibili alla reazione al transfert del paziente. Solo in questo ultimo caso sarebbe legittimo definire il suo sentire con il termine controtransfert.

Anche Alberto Lampignano, riferendoci il pensiero di differenti autori, evidenzia che il termine controtransfert non viene sempre inteso in modo univoco. In particolare il pensiero di Bion mi  pare vicino a quanto sostenuto da Lopez.

Secondo Lopez (2011): “Vi sono emozioni e sentimenti forti che un’analista provvisto di salute psichica non solo non deve assolutamente soffocare, ma che dovrebbe lasciare fluire e contenere nell’alveo di un sano rapporto,quale può nascere e istituirsi fra due persone, l’analista e il paziente”.

Questo non significa la negazione della differenza fra paziente e analista, tuttt’altro.

Lampignano infatti sottolinea che la presenza di elementi transferali e controtransferali sia nell’analista che nel paziente non eliminano l’asimmetria fra di loro.

Anche secondo Lopez (Ibidem): “Proprio nell’asimmetria, nella distinzione di livelli di maturità e di sanità, di differenze di degré fra il sentimento di leggerezza, levità e piacevolezza mentale, di godimento di sé stesso e delle persone con cui è in rapporto, proprio in questo dislivello fra il modo di essere dell’analista e quello del paziente, risiede la potenzialità terapeutica del rapporto analitico”.

L’insegnamento di Lopez mi ha indotto e abituato ad accogliere le mie emozioni, il mio sentire, i miei transfert e controtransfert e ad usarli come aiuto a comprendere le situazioni in atto. Ciò però non toglie la particolare specificità dei miei lavori cui nel suo scritto Lampignano fa riferimento. In particolare quello in cui narro della supervisione a Roma dopo l’attentato al Bataclan, perché la situazione scatenante non nasceva nel qui e ora della supervisione ma da un evento traumatico inaspettato ed esterno alla situazione, non ancora elaborato da nessuno dei presenti. Nello specifico potrei dire che i miei vissuti sono stati in parte transferali e in parte controtransferali, forse inconsciamente vicino a ciò che la Spirà auspicava. Lo scritto di Alberto mi ha permesso di rivedere distinguere meglio i miei vissuti  e mi ha portato a ricordare la particolare fatica che mi è costata lasciarli emergere, riuscire a comprenderli, e utilizzarli costruttivamente, anche di questo ringrazio Lampignano.

Durante la supervisione di cui ho scritto nell’articolo “Pensieri frammentati” (2016) a cui Lampignano fa riferimento, sono stata invasa da fantasie transferali e da altre controtransferali che si scontravano fra di loro, creandomi un terribile mal di testa e il blocco del pensiero. Mi permetto di riferire in modo più esteso l’accaduto perché si possa comprendere meglio.

“La mia testa è una bomba a orologeria e fra qualche minuto esploderà.   La mia testa è una bomba a orologeria e fra qualche secondo esploderà. Pensieri frammentati, raggrumati qua e là in pezzetti di materia grigia. Ma quali pensieri? Non riesco a pensare, non riesco a dare un senso a questo ammasso di parole concrete. Non ho mai avuto mal di testa durante una supervisione di gruppo, un mal di testa così lancinante. Un malessere diffuso rende l’aria pesante, chiedo ai presenti di commentare il caso appena narrato. Disagio, silenzio. Un collega che a pranzo mi aveva comunicato serenità dice di non sentirsi bene, gli duole la testa, non riesce a pensare. La persona che ha portato il caso ha parlato di violenza familiare, innocenza violata, ha detto frasi respingenti nei confronti del paziente, ha usato parole forti, discordanti con il suo aspetto e la sua giovinezza. Mi passa un sentire di rabbia impotente, di impotenza rabbiosa.

Mi permetto di dar voce alla difficoltà di capire e di tollerare il senso profondo e dilagante di impotenza che avvelena l’aria. I casi da discutere sono due, proviamo a ragionare sull’altra situazione, ascoltiamo la collega che si era proposta per la seconda supervisione.  Rabbia e Impotenza prendono ancora la parola e, anche se declinate in modo diverso, invadono il campo.  Si parla di mancato riconoscimento, madre collusiva con l’aggressore, padre assente o violento. Di chi ci si potrà fidare se i genitori per primi non ti accolgono, non ti vedono, non ti riconoscono, se chi ti dovrebbe proteggere ti volta le spalle?

Fare supervisione in gruppo per me significa non solo provare a comprendere le dinamiche presenti nella relazione terapeuta-paziente o terapeuta-gruppo, ma anche capire quali sono le problematiche emergenti nel campo gruppale presente nel qui e ora dell’incontro.  

Anni fa scherzosamente gli allievi mi avevano riferito che in seguito alle mie supervisioni mi avevano dato il soprannome di maga perché ogni volta riuscivo a “beccare” il clima emotivo dominante nella classe. Mi chiedo dove sia andata a finire la mia magia … Torna la triade da me spesso sottolineata: impotenza-onnipotenza-colpa. Interrogo i presenti su questo senso dilagante di impotenza che cerca colpevoli, mi chiedo chi siano i genitori inadeguati, che non proteggono, che si alleano con l’aggressore…Di cosa mi sta parlando questo gruppo che con movimenti scomposti, silenzi, sbadigli, mi comunica disagio, di cosa è portavoce? Mi vengono in mente i cambiamenti in atto all’interno dell’istituzione di cui sia io sia i colleghi facciamo parte… Pongo una domanda: questa fase trasformativa che l’istituzione sta affrontando suscita timori e scontentezze? Prende la parola una terapeuta rimasta fino a quel momento in silenzio e si fa portavoce di una profonda rabbia, di ingiustizie subite, di delusione. Altri le fanno da coro e si instaura un clima di botta e risposta con toni di voce sempre più aspri. Non c’è un tempo per riflettere, le parole sembrano concretizzarsi in sassi lanciati contro l’Istituzione da lapidare. Il disagio e il mal di testa aumentano, sono fuori strada, non volevo creare un capro espiatorio, volevo aiutare a capire. È da una vita che sottolineo come nel gruppo si debba evitare la creazione del “capro espiatorio”, ma cosa sta accadendo? Di cosa stiamo parlando?

All’improvviso mi compaiono alla mente le immagini della tragedia accaduta a Parigi la sera prima al Bataclan… Ero stata piacevolmente a cena con amici e colleghi, avevamo messo a punto nuovi progetti, era stato un bell’incontro. Tornata in albergo telefono al consorte per augurargli la buona notte, lui mi risponde e con voce concitata mi dice: hai sentito cosa è successo a Parigi? Accendo la televisione e vedo immagini agghiaccianti: morti, dolore, sangue, e senza un senso. Perché quei ragazzi? Perché a Parigi? Per me Parigi fin da bambina è stata il simbolo della libertà di pensiero e la città del cuore della mia famiglia. È la città dove il mio papà avrebbe voluto comprare una casa, trascorrere la vecchiaia, una volta andato in pensione, se fosse vissuto fino ad allora. È la città di Pierre Naville, luogotenenete  di Trotzky , su cui ho fatto la tesi, dove mia figlia è stata un anno per la sua tesi.  Perché a Parigi? Perché ora? Perché? 

Mi addormento a fatica perché non riesco a smettere di chiedermi che senso possa avere, dopo quello che è successo, fare un seminario domani sul: “Il sogno nella pratica individuale e gruppale”.

 Si può sognare dopo una tale tragedia, o saremo tutti oppressi da incubi questa notte?

Al mattino, prima di iniziare il seminario, sento la necessità di ricordare quanto avvenuto a Parigi e accogliere l’impotente stupore, la paura e il dolore che quegli avvenimenti hanno suscitato in tutti noi e esprimo il mio imbarazzo a parlare di sogni anche in un’ottica rivolta al contesto sociale in cui viviamo, in cui accadono anche eventi traumatici inaspettati

Narro di sogni che mi sono stati portati sia in analisi individuale sia in gruppoanalisi, attraversati da un profondo bisogno di emancipazione e dalla famiglia di origine e da una società che esaltano e privilegiano il modello dell’homo oeconomicus a cui si contrappone, nei sogni riferiti ,il modello più sano e più naturale dell’homo reciprocus, con particolare attenzione alla nostra basica costituzione sociale.  Modello di cui in particolare il lavoro gruppoanalitico permette di fare esperienza diretta, ponendosi come ponte simbolico fra individuo e società, ponte sul fiume della storia, fiume in continuo divenire e denso anche di elementi tossici e inquinanti, traumatici, come gli attentati di Parigi (questo pensiero al momento non lo esprimo, non è ancora completamente presente nella mente).  Nel corso della mattinata ricca di una partecipazione particolarmente attenta e vivace, mi vengono poste domande sul titolo del mio libro “Liberi legami” (2014), legami che ipotizzo liberamente realizzabili fra individuo e società.  Dico che a mio parere i principi che regolano la cultura dei gruppi terapeutici analiticamente orientati, potrebbero assurgere a modello e per aiutare l’individuo nel suo transito verso un sociale sempre più allargato e per aiutare il sociale ad umanizzarsi.  Proprio gli esempi portati relativamente ai sogni raccontati sia in seduta individuale sia nel gruppo evidenziano come un contenuto che potrebbe sembrare assolutamente intimo e personale come il sogno è invece spesso portavoce di tematiche condivise e, come evidenzia bene il “Social   dreaming”, anche di dinamiche sociali.  Sottolineo che né la privatizzazione del proprio malessere, né crogiolarsi nella disperazione possono costituire risposte adeguate al malessere contemporaneo. È importante la condivisione e la consapevolezza che il bisogno dell’altro può con naturalezza e piacere trasformarsi in desiderio dell’altro, dove il legame non è solo un mezzo ma può divenire un fine, come si apprende nel lavoro di gruppo. Il clima è vitale e in molti, in particolare gli studenti, mi ringraziano delle possibilità prospettiche che il mio libro lascia intravedere. Non c’è un pensiero sul dramma accaduto a Parigi; soddisfatti del lavoro condiviso nella mattinata, andiamo a pranzare insieme. Nel ristorante c’è un televisore acceso ma è in un’altra stanza, non lo vediamo e non lo ascoltiamo, ci arriva qualche parola, che ci obbliga a ripensare alla tragedia avvenuta a Parigi, ma solo per pochi istanti. Nessuno riprende il discorso, parliamo con piacere dell’esito del lavoro del mattino, allargato ad un pubblico esterno, più vasto di quello che ci sarà nel pomeriggio. Ed eccoci alle supervisioni, al clima che ho descritto all’inizio. L’angoscia rimossa, cacciata dalla porta, è rientrata prepotentemente dalla finestra. Allora finalmente sento di capire quello che ci sta succedendo e dò voce e significato alla rabbia, al malessere, al dolore, al senso di spaesamento e di impotenza, all’attacco al pensiero che ha invaso le menti fino a quel momento.  La tragedia di Parigi può essere nominata, può essere oggetto di accoglimento e, se non ancora di pensiero, almeno di tentativi di riflessione. Silenzio e poi una sorta di sospiro di sollievo fanno da eco alle mie parole.  Il malessere diffuso e dilagante ha una sua più che legittima causa che va ben oltre le piccole beghe istituzionali, le tensioni si allentano, le persone si abbracciano, capiscono, mi ringraziano, e un clima affettuosamente dolente ma pacificato permette la chiusura dei lavori. Vengo accompagnata alla stazione da amici, ancora storditi insieme a me, dal violento quanto subdolo attacco alla possibilità di pensare che abbiamo sentito in atto nelle nostre menti nel pomeriggio. Niente di così grave, rispetto all’attacco concreto e mortale subito a Parigi, ma mi stupisce quanto tempo ci sia voluto perché mi rendessi conto di quanto stava succedendo e potessi condividerlo. Condividere, non sentirsi soli, aiuta.

Mi torna alla memoria l’intervento di Robi Friedman a un convegno a Milano in cui ci aveva narrato che alle 12 del giorno in cui si riunivano nel pomeriggio i pazienti nel suo studio per un lavoro di gruppo, a pochi caseggiati di distanza c’era stato un attentato ad un pullman della scuola ed erano morti dei bambini.  Nel gruppo pomeridiano tutti erano arrivati particolarmente puntuali ma nessuno aveva fatto parola del tragico evento pur essendo la seduta dominata da un clima pesante ed angosciato e c’era voluto molto tempo, prima che le persone riuscissero a fare oggetto di parola la tragedia accaduta. La nostra situazione era imparagonabile, decisamente meno drammatica, ma la risultante di una sommatoria di elementi transferali e contotransferali dominati da vissuti di impotenza e paura.

Durante il viaggio di ritorno continuo a pensare a quanto è successo, alla violenza dell’attacco a Parigi, alla difficoltà di pensare questo tipo di violenza che continuo a voler definire “insensata”. Sono contenta di tornare a casa, di sapermi accolta, di sentirmi voluta bene e protetta, di rinchiudermi nell’illusione di vivere in uno spazio in cui si vuole pensare di essere ancora in un tempo di pace.

Racconto con intensa emozione al mio consorte questa perturbante esperienza di supervisione. Condividere mi fa bene, ascoltare i suoi pensieri mi fa bene. Penso che cercherò di scriverne e di portare le mie riflessioni al gruppo “amico” de “gli argonauti”. Con questa prospettiva, che mi fa sentire il calore di aver costruito liberi legami, mi addormento in pace.  

Mi accordo poi con una collega perché mandi un sintetico resoconto della giornata romana: magari ne potremmo scrivere insieme.

Mi invia, dopo un periodo piuttosto lungo, una sintesi chiara della mattinata, ma scrive:

“Al pomeriggio, due giovani colleghe presentano i sogni di due casi seguiti uno in psicoterapia individuale e l’altro in psicoterapia di gruppo. Tali casi, supervisionati in diretta, appaiono molto interessanti ed i partecipanti al seminario grazie alle loro domande, riflessioni, considerazioni e grazie ai generosi contributi chiarificatori della Corbella, paiono aiutare l’intero gruppo a raggiungere una nuova visione sul migliore utilizzo dei sogni nella pratica clinica individuale e gruppale”.

Termina la email confermando la mia ipotesi iniziale rispetto alla cultura del piccolo gruppo come potenziale modello per il sociale.

Questa lettura mi lascia stupita: dove sono finiti il malessere profondo, la rabbia, l’angoscia, la confusione? E la tragedia del Bataclan?

Sono al lago a trascorrere le vacanze di Natale e il giorno seguente alla email che ho riportato, mi sveglio di prima mattina e nella mia mente risuona la sensazione con cui ho iniziato questo scritto: La mia testa è una bomba a orologeria e fra qualche minuto esploderà. La mia testa è una bomba a orologeria e fra qualche secondo esploderà. Pensieri frammentati, raggrumati qua e là in pezzetti di materia grigia. Per tre mattine di seguito mi risveglio con l’angoscia che la mia testa possa andare in pezzi e, fino a quando non decido di scrivere questa mia sensazione, continuo ad avere questa sorta di incubo. La terza mattina, un’alba baciata da un caldo sole invernale illumina il cielo di un bel rosso violetto che con piacere fotografo sul cellulare, quasi a segnalare l’alba di un nuovo giorno, un giorno da ricordare. Erano da poco suonate le sette, accompagnata affettuosamente dai miei gatti, mi alzo a scrivere queste parole sul pc, e mentre lo faccio ricollego la sensazione descritta all’esperienza “traumatica”della supervisione a Roma.

Mi rimetto a dormire e mi sveglio finalmente riposata. Da quel momento riprendo a fare sogni tranquilli. Mi ritorna alla mente uno scritto di M.O. Godard (2003) che ha lavorato con soldati francesi arruolati nella guerra di Algeria (1953-1962) e con dei sopravvissuti al genocidio del Ruanda, in cui sostiene la funzione positiva degli incubi che, riproducendo gli aspetti più angoscianti delle loro giornate, li rendevamo particolarmente vigili rispetto ai pericoli.

Sperimento su di me quanto sostenuto: gli incubi in alcune situazioni possono avere una funzione protettiva. Al risveglio, potevo sempre constatare che la mia testa era ancora sul mio collo e che ero ancora viva.

Finiti gli incubi, nei giorni seguenti, al momento di riaddormentarmi o al risveglio, in una sorta di rêverie, ho fantasie che definirei poetiche. Ancora una volta sento il bisogno di trascriverle quasi a creare una sorta di ponte comunicativo fra la negazione della collega, i tragici avvenimenti, i miei incubi e il mio riacquistato sonno sereno. Ponte formato da pensieri flessibili e leggeri che mi piace definire Bolle di sapone. Qualcosa di luminoso ed effimero, che ha breve vita nella realtà, ma resta nella memoria dei giochi infantili con gioioso stupore, stupore che si riscopre e si rinnova con figli e nipoti. Sento l’impulso di fermarli sulla carta prima che scoppino e svaniscano nella luce.

 

Mi permetto di condividerne qualcuna con i lettori perché mi sembra sia funzionale a quanto poi andrò a dire.

 

Il silenzio della quiete

Si apre ad un’illusione di eternità

E la malinconia si diffonde

Fino a evaporare

 

Le tue calde fusa

Coccolano il timore della fine

 e l’ascolto si appoggia alla vita

 

Nell’immenso respiro del tempo

Dolore e fatica si allontanano

Restano amore e speranza

Da donare

 

Le tue braccia avvolgono il mio cuore con fili di seta

Un aquilone è fra le stelle

 

Non togliete le rughe dagli occhi

Senza memoria non c’è futuro

Senza futuro non c’è oblio per sogni colorati

 

Dopo queste ultime parole sento il desiderio di sfogliare vecchi album di fotografie che ritraggono la giovinezza dei miei nonni, l’infanzia e la giovinezza dei miei genitori e la mia. E scrivo

 

Vividi ricordi da un futuro inatteso

Riscaldano il presente

Di antico amore

Per un tempo grato alla vita

 

Poi un episodio di gentilezza da parte di una persona sconosciuta, mi fa pensare

 

Un dono inaspettato

Per un sorriso di bambino

Disegna un arcobaleno di speranza

 

Collego emozionata quest’ultimo pensiero ad un verso di Ada Negri che è stata l’insegnante di mio nonno alle elementari e che nel mio ricordo, riferendosi al sorriso di un bimbo scriveva

 

Basti quel sorriso a farti lieve l’andar

Fino alla prima stella.

 

Al momento non mi è chiaro il motivo per cui sento il bisogno di fermare su carta queste bolle di sapone.  Grazie a loro mi sento in sintonia con gli affetti verso le persone e gli esseri viventi che amo, ponte forte, flessibile e lieve fra passato e futuro che contempla in modo pacificato anche la morte.

Il 24 gennaio vado a sentire alla Casa della cultura Kaës, che nella giornata della memoria ci parla del Lavoro psichico della memoria nei traumi collettivi. Del suo scritto molto denso e ben articolato alla cui lettura rimando, traggo alcuni spunti che mi hanno permesso di comprendere quanto mi era successo e in particolare quali erano stati i miei preconsci processi riparativi.

Mi sono permessa di condividere con i lettori queste bolle di sapone perché ipotizzo che scriverle sia stato un suggerimento del preconscio per poter riprendere, accogliere e trattenere nella mente la tragedia di Parigi e la situazione “perturbante” della supervisione.

Questa ipotesi mi è venuta alla mente ascoltando Kaës, si parva licet componere magnis .

“Se consideriamo i traumi psichici provocati da differenti manifestazioni di violenza, questi presentano molti tratti in comune…

la funzione della politica è di ripristinare la capacità delle istituzioni di restare garanti del diritto e di assicurare la capacità dei cittadini di resistere alla violenza con il pensiero e con l’azione per salvaguardare la propria integrità fisica e mentale”.

 Ripenso alla supervisione di quel pomeriggio romano. Alla rabbia verso genitori incompetenti e incapaci di schierarsi a favore dei soggetti più deboli e di difenderli. L’angoscia e il senso di impotenza hanno dato libero sfogo alla nostra parte infantile che pretende genitori onnipotenti. Non ci sentiamo protetti da una Istituzione e neppure da uno Stato che dovrebbe, nelle nostre fantasie, garantirci da tragedie impreviste e impensabili: non sembra esserci la possibilità di opporre difese adeguate a una distruttività che appare così insensata.

Infinitamente meno drammatica è stata a Roma la nostra sorte: nel nostro caso, per fortuna, l’evento traumatico non è stato direttamente esperito. La rabbia impotente era la risultante del fatto che:

“I nostri sistemi nervosi sono costruiti per essere catturati dai sistemi nervosi degli altri, al punto tale che noi possiamo sentire e fare esperienza degli altri come se ci trovassimo all’interno della loro pelle e allo stesso modo che se fossimo all’interno della nostra stessa pelle… questo è un potente agente di coesione sociale, frutto della selezione naturale che l’ha consolidato che però non ha soltanto una base biologica e materiale” (Molnar-Szackjas I., Wu A., Robles F., Iacoboni M., 2007)

“L’empatia e le sue conseguenze non sono processi strettamente biologici e meccanici, ma vengono invece filtrati dalla cultura e dalle sue tipologie e specificità, che determinano reazioni e percezioni distinte rispetto ai medesimi stimoli sensoriali. Quindi le affinità culturali ed emotive favoriscono e agevolano il processo di empatia e ne massimizzano l’efficacia” (Silvano Tagliagambe , 2014).

Quanto riferito permette di comprendere l’intensità della mia identificazione con le vittime degli attentati di Parigi. Come ho già detto, nella mia famiglia di origine, Parigi rappresentava la città ideale dove vivere. Potrei continuare all’infinito con ricordi e fantasie legati alla città del cuore.

Come non identificarmi a livello profondo con le vittime di Parigi, oltre a tutto proprio in una giornata in cui mi facevo portavoce del valore di costituire liberi legami fra individuo e società nella consapevolezza dell’ineludibilità dell’altro per la costituzione del sé, e della necessità di costruire significati condivisi per favorire il superamento di un narcisismo distruttivo e disgregante?

Kaës (2016) sostiene essere una caratteristica dei traumi collettivi “il fatto che sono provocati dalla volontà distruttiva di un insieme ben caratterizzato di soggetti umani nei confronti di un altro insieme caratterizzato di soggetti... Siccome il trauma è accaduto a quel determinato individuo come ad altri, lo colpisce anche attraverso gli altri a cui è legato e che si collegano tra loro tramite un unico   tratto identificatorio: il soggetto è vittima … insieme con altre vittime.

 Il trauma di origine sociale è transindividuale.. Il trauma fa subire al soggetto un’effrazione nello spazio interno e nello spazio comune e condiviso”.

Kaës analizza in modo profondo come le alleanze inconsce incidano sulla memoria relativa ad eventi traumatici che sconvolgono sia il mondo esterno che quello interno della vittima “producendo profondi cedimenti nei processi di trasformazione, di pensiero e di simbolizzazione… Come conseguenza di tale processo si ha una frammentazione dello spazio interno” (Ibidem).

 Non voglio né posso permettermi di paragonare il malessere del pomeriggio romano con l’impatto devastante dei traumi descritto da Kaës. Ma colgo una possibile continuità di pensiero quando l’autore sostiene che non serve rievocare il trauma, è importante saper ascoltare e costruire spazi di contenimento che aiutino il soggetto a riappropriarsi del tempo e dello spazio, per liberarsi dal sentirsi fuori dal tempo e dallo spazio, anche ancorandosi ad una genealogia. “La genealogia è inscindibile dalla forma fondamentale che caratterizza lo spazio umano, che è simultaneamente uno spazio psichico, sociale e culturale”(Ibidem). Ripenso alle mie bolle di sapone, all’iniziale bisogno di fare un vuoto, di lasciare andare l’angoscia e il dolore per poi ancorarmi agli affetti, alla vita, al futuro, all’amore, all’abbraccio e al sogno, anche alla morte, grazie alle fusa del mio gatto, e per finire, alla possibilità di recuperare la memoria e il valore del passare del tempo…Non togliere le rughe dagli occhi…

Non è un caso che dopo aver scritto queste ultime righe sono stata colta da un desiderio profondo di rivedere le fotografie dei nonni, dei genitori e della mia infanzia, nel tentativo preconscio di ancorarmi alla mia gruppalità interna ed esterna. Quanto sintetizzato mi ha portato nel lavoro sia individuale sia di gruppo ad accogliere momenti condivisi di impotente attesa e ad accettare che, come sostiene Kaes, è necessario assumere a volte il ruolo di portavoce degli aspetti difficili da riconoscere ma fondamentali per la ricomposizione simultanea di un tessuto psichico, sociale e interdiscorsivo, comune e condiviso.  Ancora una volta ripenso ad Ulisse che si commuove ascoltando la propria storia narrata ai Feaci dall’aedo cieco “capace di  pensare e fornire senso ad avvenimenti catastrofici riannodando con l’affetto i legami interni e di riattivare  funzioni figurative e rappresentazionali del Preconscio, perché sono proprio queste che vengono aggredite, paralizzate e messe fuori uso nell’esperienza traumatica” (Ibidem).

Kaës fa poi riferimento alla parola rimembranza e al suo valore e ricorda che  Rimembrare vuol dire “ri-memorare (remember). Rimembranza è dunque il ri-mettere insieme le membra di esseri dispersi, frammentati, … ed è anche un processo di corale com-memorazione” (Ibidem).

Per reggere alla distruttività e riuscire in qualche modo a metabolizzarla è fondamentale recuperare la propria storia, le proprie radici, la gruppalità interna ed esterna. È essenziale “poter contare sui fondamenti narcisistici dell’identità, nelle sue dimensioni autoreferenziali e in quelle che il contratto narcisistico ha instaurato nell’intersoggettività”(Ibidem). In queste situazioni drammatiche è più che mai evidente come si abbia bisogno degli altri per ritrovare il senso e il valore del nostro esistere e ridare nuova vitalità creativa al preconscio, affrontando insieme il lavoro del lutto e condividendo memorie diverse e incrociate da trasmettere non come elementi tossici, ma, rese pensabili, come riferimenti identitari che non ti inchiodano ad un presente senza tempo ma ti restituiscono passato, presente e futuro.  

 

Sulla lava rappresa dell’odio

un giorno si poserà una farfalla

 

Bibliografia

Corbella S.(2014), Liberi legami,Borla, Roma.

Corbella S.(2016), “Pensieri frammentati “ in gli argonauti n.149 (giugno).

Lopez D. (2011), La strada dei maestri, Angelo Colla, Costabissarra (Vicenza)

Kaës,R.(2016) “intervento del 24 gennaio, Casa della cultura, Milano.

Godard M. O. (2003), Rêves et traumatismes ou la longue nuit des rescapés,Toulouse, Erès.

Molnar-Szackjas I., Wu A., Robles F., Iacoboni M. (2007) “Do you see what I mean? Corticospinal Excitability During Observation of Culture Specific Gestures”, ‘PLoS One’, 2, 7, 2007.)

Tagliagambe S. (2014), Premessa”, in Liberi legami, Borla, (Roma).

Torna al sommario