Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 29
2 - 2023 mese di Dicembre
CLINICA
CONTROTRANSFERT ED ESEMPLARITÀ NEGLI SCRITTI DI PSICOANALISI
di Alberto Lampignano

Un inizio e un ricordo

 

Marcelle Spira già all’inizio degli anni ’80 affermava: “tra non molto si parlerà solo di controtransfert”, ritenendo che l’analista nel portare il caso clinico, sia al supervisore che alla comunità psicoanalitica di riferimento, non dovesse tanto parlare del transfert, ma soprattutto, o forse esclusivamente, parlare di sé, delle difficoltà incontrate nella relazione con il paziente, dei suoi pensieri e delle sue vicende sensoriali- affettive.  

In quegli anni Marcelle Spira decise di eleggere l’Isola del Giglio sua dimora d’elezione (in cui morirà nel 2006), mantenendo quella abituale a Ginevra. Le fu così possibile fissare i suoi seminari e le sue supervisioni a Viareggio. Così cominciai a seguirla, insieme ad altri compagni d’avventura, con alcuni dei quali sono ancor oggi in amicali rapporti. Con gli anni la sede si spostò da Viareggio a Rapallo, infine a Milano, rimanendo fisso il Giglio per i seminari residenziali; il Giglio che era per lei più che un buen retiro! Chissà se l’ha mai chiamato così? Non ricordo. Certo che parecchio c’era di ispanico dentro di lei, a cominciare dalla lingua. Parlava con noi un intreccio curioso di franco-ispano-italiano, che rendeva il suo eloquio arioso e, mi vien da dire, allegro.

Lo spagnolo l’aveva imparato, suppongo, in Argentina, dove era andata all’inizio della Seconda Guerra Mondiale e si era formata come psicoanalista a contatto con figure come Pichon-Rivière, i Baranger e Marie Langer, che era stata la sua analista. Al suo ritorno in Europa entra in contatto personale con Melanie Klein e diviene poi la messaggera nella società psicoanalitica svizzera delle nuove concettualizzazioni della psicoanalista viennese, e in seguito anche in Italia.

Nella letteratura psicoanalitica non mi pare venga citata, né ricordata come meriterebbe. È vero che Glauco Carloni, allora presidente della SPI, nella presentazione del saggio Creatività e libertà psichica, apparso nel 1986, le riserva parole di grande apprezzamento. Tuttavia chi, come lei, possedeva una sensibilità e una sapienza clinica incomparabile, che ha trasmesso soprattutto attraverso l’oralità, viene solitamente meno considerato rispetto a chi il suo sapere è capace di fermarlo sulla carta. Non va comunque sottovalutata la sua produzione saggistica, che consta della pubblicazione di vari libri, tradotti anche in italiano, e di parecchi articoli, alcuni dei quali comparsi anche sulla Rivista di Psicoanalisi. Va detto tuttavia che, a mio parere, il suo magistero legato all’oralità è stato decisamente più significativo e fuori dall’ordinario.

Ebbene sì, Marcelle Spira preconizzava l’avvento di un tempo (per lei assai prossimo), in cui si sarebbe parlato solo di contransfèr (così lo chiamava in quella sua lingua un po’ buffa e accattivante). Noi, che abbiamo avuto la fortuna di formarci con lei, facevamo fatica a recepire il messaggio, sovrastati dalla vulgata psicoanalitica, che manteneva nel racconto del “caso” il paziente al centro della riflessione clinica, sfumando la figura dell’analista sullo sfondo. Che l’approccio teorico-metodologico innovatore fosse quasi un’esclusiva dell’analista ginevrina mi era confermato dai Seminari novaresi – organizzati da Marcella Balconi – che per vari anni frequentai, sempre in quegli stessi anni, condotti da Donald Meltzer, che ricamava con rara perizia ipotesi di senso sull’oralità, sull’analità o sui meccanismi schizoidi del paziente. Sempre e solo il paziente. L’analista veniva preso in considerazione se aveva detto o fatto qualcosa di sbagliato, o non avesse compreso le dinamiche intrapsichiche del paziente. E cito solo lui, tacendo degli altri, per l’indiscussa autorità che gli era – e gli è – giustamente riconosciuta.  

 


Qualche cenno essenziale sul controtransfert

 

Parlare del proprio controtrasfert non è facile. Non è facile neppure definire esattamente cosa esso sia. Bion (1976, p.312) afferma:

 

Un termine tecnico molto usato, probabilmente a sproposito, è il ‘controtransfert’. E’ un termine, questo, che dovrebbe riferirsi al sentimento, motivato inconsciamente, che l’analista ha per il paziente nella situazione analitica. [E prosegue] Le interpretazioni analitiche che sono stimolate dal controtransfert hanno molto a che fare con l’analista. Se l’analizzato è fortunato hanno qualcosa a che fare con lui (p.317).

 

Il suo pensiero è inequivocabile:

 

Si dice controtransfert quel rapporto di transfert che l’analista ha verso un paziente, senza sapere di averlo. A volte gli analisti dicono: ‘Quel paziente non mi piace, ma posso fare un uso del mio controtransfert’. In realtà, l’analista non può usare il suo controtransfert. Può forse fare uso del fatto che il suo paziente non gli piace, ma questo non è controtransfert. L’unica cosa da fare con il controtransfert è farlo analizzare. […] Si tratta di sentimenti inconsci che abbiamo verso il paziente, e finché si tratta di inconscio non possiamo far niente al riguardo”.

 

Poco prima in modo più succinto, ma sempre perentorio: “Non c’è la possibilità di fare qualcosa per modificare il controtransfert” (p. 316). Insomma Bion non ha dubbi. Ripete più volte lo stesso concetto, perché sa che il suo auditorio, pensandola diversamente  ̵  doveva immaginare  ̵ facesse fatica a recepire le sue parole che prospettavano una realtà completamente differente. E aveva ragione, perché Freud (1910, p. 200) la pensava molto diversamente da lui:


Abbiamo acquisito la consapevolezza della ‘controtranslazione’ che insorge nel medico per l’influsso del paziente sui suoi sentimenti inconsci, e non siamo lungi dal pretendere che il medico debba riconoscere in sé questa controtranslazione e padroneggiarla.


Ma come si fa a padroneggiarla? Ferenczi (1919, p. 314) risponde in modo abbastanza esauriente. Prima di tutto sostiene che “è difficile generalizzare; esistono troppe possibilità”. Tuttavia indica un metodo:


nell’analisi [l’analista] deve svolgere incessantemente un duplice lavoro: da un lato deve osservare il paziente, verificare ciò che questi gli racconta, ricostruire l’inconscio del paziente in base alle sue comunicazioni e atteggiamenti; contemporaneamente deve controllare il proprio atteggiamento nei confronti del malato e se necessario correggerlo, cioè superare il controtransfert (Freud).

 

Insomma Ferenczi prospetta il metodo dell’autoriflessione, che è poi lo strumento principe della tecnica degli psicoanalisti relazionali, a cominciare da Mitchell (1997).

Nonostante le revisioni della letteratura, operate da Bassi (2010) e da Eagle (2015) e la gran quantità di saggi sul controtransfert prodotti nel corso del tempo, il suo significato rimane comunque non inequivocabile.  Secondo il mio punto di vista (Lampignano, 2002 e 2015) e per l’assunto che voglio dimostrare, si possono individuare, sinteticamente, tre significati:

1) sentimenti suscitati nell'analista dai personaggi, dalle emozioni, dai modi di essere del paziente.  E’ quello dell’analista un sentire che egli riconosce come reattivo (appunto contro) rispetto al transfert del paziente. L’analista avverte una certa cogenza a disporsi emotivamente nella disposizione dettata a lui dalle dinamiche transferali del paziente. Ciò che sente l’analista non è farina del suo sacco, ma del sacco del paziente, che gli ha riversato addosso parte del contenuto;

2) i sentimenti, sempre suscitati dalle dinamiche del paziente, che riguardano però la storia e la personalità dell’analista, non attraversati dalla coscienza – quindi non disponibili all’elaborazione - che si ripresentano in determinate situazioni con i caratteri della ripetizione. Questo più propriamente viene denominato transfert dell’analista. Se c’è un transfert dell’analista, di conseguenza, ci sarà anche un controtransfert del paziente, concetto che a quanto mi risulta è difficile reperire negli scritti psicoanalitici. E il motivo non è difficile da spiegare: il controtransfert del paziente è difficile da individuare, perché bisognerebbe prima cogliere il transfert dell'analista, che essendo inconscio sfugge quasi sempre all'osservazione conscia (l’enactment a volte permette di recuperarlo);

3) i sentimenti dell’analista, che pur suscitati nella relazione con il paziente hanno la qualità di abitare il mondo interno dell’analista in modo sufficientemente libero e autentico (Lampignano, 2002).

La tripartizione del controtransfert avanzata ora sembra non differire da quella di Heimann, contenuta nel famoso articolo del 1950, quando sostiene: “adopero il termine ‘controtransfert’ per includere tutti i sentimenti che l’analista sperimenta verso il paziente”. (in Albarella, Donadio, 1986, p. 86). Ma bisogna precisare che con “tutti i sentimenti” Heimann non comprende anche il transfert dell’analista, in quanto l’analista ben analizzato “non attribuirà al paziente ciò che gli appartiene” (p. 78). 

Da questa breve – e sicuramente insufficiente – sintesi si rileva che, contrariamente a quanto ritengano ancora una buona parte degli analisti (basta leggere i resoconti clinici), come afferma Eagle (2015, p. 545):


non è possibile sostenere che le proprie [dell’analista] reazioni a questi indizi [i contenuti mentali dell’analizzando] fungano sempre, o anche sistematicamente, da guida all’identificazione degli stati dell’altro. […perché quegli indizi] coinvolgono le costruzioni individuali del significato di quegli indizi, la storia personale e la massa ‘appercettiva’ [è l’insieme delle memorie entro cui ogni brano esperienziale viene inserito] che sottende quelle costruzioni.

 

Inoltre Eagle mette a nudo la questione sul controtransfert, quando non si perita di asserire, senza mezzi termini: “la letteratura psicoanalitica è piena zeppa di affermazioni, asserzioni, dibattiti su definizioni e ridefinizioni – in altre parole, di ciò che si potrebbe chiamare la soluzione di problemi tramite asserzioni” (p. 553). Analoga considerazione mi trovo spesso a fare anch’io di fronte a tanta sicurezza che viene esibita in una materia quanto mai spessa, complessa e misteriosa come è il continente che giornalmente ci troviamo ad esplorare, con mappe, per quanto buone, sempre purtroppo abbastanza approssimative. Per correggere lo spirito apodittico degli analisti, Eagle prospetta il correttivo delle ricerche empiriche. Ma, sinceramente, quelle che riferisce mi sembra che … scoprano l’acqua calda, come quella – che riporto a mo’ di esempio - che ha accertato che laddove c’è alleanza terapeutica l’analisi ha più efficacia. Non pare essere una scoperta epocale, ma forse lo scopo del suo discorso e delle pezze giustificative per corroborarlo è proprio quello di esortare alla cautela e alla modestia.

Alla fine di questa scorribanda sul controtransfert, contrariamente a quel che si è sempre creduto, risulta che le posizioni del paziente e dell’analista non sono poi così asimmetriche. Ognuno di loro può esprimere transfert, controtransfert e una relazionalità più o meno libera e autentica. La differenza dovrebbe risiedere nell’estensione delle zone libere da automatismi e ripetitività: quella dell’analista, crediamo e speriamo, dovrebbe essere più ampia. Di qui l’a-simmetria delle loro posizioni e della loro competenza relazionale. Un’ultima considerazione: dopo aver cercato di argomentare (chissà se Eagle le definirebbe “asserzioni”?) che l’analista in azione vive tutte e tre le configurazioni affettive-relazionali, a cui ho fatto riferimento, a seconda delle circostanze e delle dinamiche in atto, spetta alla sua auto-riflessione e/o al suo supervisore, o al gruppo di lavoro di riferimento, saper discernere, per quanto possibile, le varie componenti. Ho detto “per quanto possibile”, il che significa che ogni indizio che metta in dubbio la nostra convinzione dovrebbe essere capace di metterci in discussione e darci lo slancio per intraprendere una nuova ricerca, per fare ricerca, senza poggiare su consolidate conoscenze e rassicuranti autorità.



Il controtransfert negli scritti psicoanalitici


Sperando di aver fatto un po’ di chiarezza rispetto a un tema tanto controverso, possiamo affrontare un’altra difficoltà: la difficoltà di affidare alla pagina scritta annotazioni controtransferali, o ancora di più, narrazioni di vicende controtransferali. Non si scopre nulla di nuovo nell’affermare che quando ci si inoltra nella “selva” più o meno illuminata della nostra anima, si dovrebbe essere disposti, nella narrazione degli itinerari non sempre ben segnalati che vengono percorsi, a riconoscere con se stessi, quando  s’incontrano – e s’incontrano sempre – le proprie vulnerabilità, le proprie fragilità. La loro esposizione in pubblico rende l’operazione di verità difficile, per le ansie persecutorie che possono essere mobilitate, e per altri vari motivi. Per questa ragione vengono prodotti scritti in cui sul vissuto dell’analista si aprono solamente accenni, spiragli, più o meno ampi. Quasi sempre non sono, diciamo così, sistematici ed esclusivi, come auspicava Spira. Mitchell (1997), per fare un esempio illustre, è stato uno di quelli che ha mostrato, più di altri, come la sua storia personale, i suoi sentimenti andavano a comporre la sua disposizione analitica e di conseguenza il senso che egli attribuiva agli accadimenti che avvenivano nella stanza d’analisi. La lettura dei suoi casi clinici stupì per la trasparenza dei propri vissuti personali che egli riferiva rispetto ai resoconti degli interscambi tra paziente e analista che si era soliti leggere. Non mi pare che la strada tracciata dall’analista americano, troppo precocemente scomparso, abbia fatto scuola e sia divenuta dominante, come auspicava Spira.

Ancora oggi, scorrendo la letteratura psicoanalitica italiana, in cui si esamina il controtransfert, in particolare rispetto alla trascrizione di dialoghi analitici, si può constatare come l’oggetto considerato sia quasi esclusivamente il paziente e si accenni solo brevemente al portato esperienziale dell’analista, che appare cristallizzato in determinati stilemi, fissati dalla tradizione consolidata negli anni.

Devo ammettere che uscire dall’alveo scavato nel corso del tempo da un cospicuo materiale clinico, trattato secondo determinati schemi e stilemi, non è per nulla facile. Io stesso, quando nei miei scritti ho riportato brevi resoconti clinici, non sono riuscito a distinguermi dal mainstream. La difficoltà non riguarda solo, ed è già una grande difficoltà, il come riuscire a trasporre in parola il vissuto denso e a volte non consapevole del proprio sentire esperito in seduta. Limite che si dà per scontato e su cui ci si questiona solo rare volte. Il nucleo del problema concerne come viene concettualizzato e gestito il controtransfert, ossia come emozioni, sentimenti, suscitati dall’incontro con il paziente, non solo dal suo transfert, possa essere vissuto, elaborato, se è possibile, e come poi possa trasferirsi nella parola scritta a beneficio dei colleghi. Ciò che viene sentito e pensato viene solitamente riportato nella narrazione del caso clinico attraverso concettualizzazioni, nessi logici, intrecciati più o meno sagacemente ai contributi della letteratura psicoanalitica e non, componendo un quadro teorico spesso coerente e persuasivo, ma con una quota di astrazione che dissolve il contenuto personale dello scrivente. Quando viene riportata una vignetta clinica si ragiona sul controtransfert, non lo si narra come esperienza vissuta. Il percorso che l’analista fa per attraversare il suo mondo interno sollecitato dalle comunicazioni del paziente rimane coperto, sconosciuto a chi legge.  Ci vengono porti i tessuti già bell’e confezionati, in forma teorica, senza la trama sensoriale, emozionale, di fantasie e di pensieri, che ci avrebbero potuto far assistere alle vicissitudini, prevedibilmente non lineari, né esaurienti, dell’attraversamento del proprio mondo interno, in cui gli elementi sensoro-affettivi diventano pensiero e parola.  

L’approccio di Corbella, di cui parlerò tra poco, mi è sembrato sorprendentemente diverso e, a quel che so, inedito, rispetto al panorama che ho fin qui cercato di descrivere. In “Pensieri frammentati” (2016a) e in “Quale possibile intervento di cura di fronte ad eventi traumatici?” (2016b) la collega presenta una modalità innovativa di attraversare alcune componenti del suo controtransfert, che si situa in quell’alveo di ricerca prospettato da Spira.  Il panorama che dipinge non è animato solo da ragionamenti, ma da un intreccio di storie, di vissuti, di emozioni e di pensieri, che principiano da un’esperienza traumatica: una supervisione di gruppo fortemente disturbata da eventi altamente drammatici accaduti il giorno prima: gli attentati terroristici avvenuti a Parigi il 13 novembre 2015. Partendo dalla descrizione di alcuni passaggi dell’esperienza formativa, la sua indagine si snoda lungo un tracciato che prevede la visitazione della sua storia personale e delle sue relazioni di vita quotidiana, per cercare di dare senso e trasformazione al suo sentire. Corbella parla soprattutto del suo controtransfert, dei suoi percorsi erratici emozionali, per cercare di spiegare quanto è avvenuto di dissonante, illogico, penoso nel gruppo di lavoro, in se stessa e nel proprio contesto sociale, che quell’esperienza ha provocato, le cui conseguenze lei avverte si protraggono nella sua quotidianità per un tempo non esiguo.



I contributi di Corbella

 

Ripercorriamo ora in modo più dettagliato il cammino compiuto da Corbella, descritto nei due lavori citati sopra, per capire l’originalità del suo contributo e perché, secondo il mio parere, esso può offrirsi come esemplare, spiegando poi cosa intendo per “esemplare”.  

L’inizio è una seduta di supervisione di gruppo tenuta nell’ambito di una organizzazione formativa. Contrariamente a tante altre esperienze simili condotte in precedenza, la seduta viene vissuta con un disagio superiore al solito e immotivato: si sente circolare rabbia, impotenza, attacchi all’istituzione, non del tutto giustificati per la loro virulenza. La conduttrice registra questo malessere e ne è coinvolta tanto da non riuscire a pensare, e ha mal di testa. Il turbamento viene collegato successivamente ai fatti di Parigi, accaduti il giorno prima della seduta di supervisione, che hanno devastato mezza città, provocato morti innocenti, sconvolgimento, paura. Ciò che accade in seduta ha questo di peculiare: tutti sanno del grande impatto che quei fatti hanno provocato su ciascuno di loro, ma nessuno sulle prime collega ciò che sta provando durante la seduta di lavoro allo choc provocato dall’evento. Quindi nessuno riesce ad avvalersi del pensiero e della parola per esprimere il malessere.

Possiamo pensare che l’evento traumatico si sia incistato a vari livelli nella mente del gruppo di supervisione, conduttrice compresa. La forte emozione indigerita e dissociata crea durante la seduta disagi di vario genere, prima di tutto nel corpo, come poi apparirà evidente, provocando distonie, affetti deviati, aggressività ingestita e soprattutto distanza e freddezza relazionale. Insomma si assiste ad una situazione in cui si riscontra per un tempo non breve un chiaro e persistente disturbo della simbolizzazione.

Solo verso la fine Corbella è in grado, in parte, di collegare, di pensare, di dar voce e di spiegare ciò che i membri del gruppo hanno vissuto, mostrando che è capace, se non in modo definitivo, di superare l’isolamento emotivo. La messa in pensiero e la verbalizzazione producono un primo movimento affettivo ricompositivo all’insegna della condivisione e della trasformazione dello spaesamento, dell’aggressività in abbracci. Questo è l’inizio dell’elaborazione del “trauma”. Probabilmente si tratta di una proto-simbolizzazione, che passa principalmente attraverso la corporeità (abbracci).

Sul trauma, come si sa, esiste una florida messe di produzione saggistica. Corbella, stranamente, cita solo Kaës. Per di più non cita un’opera, un articolo dell’analista francese. Riporta, solo e unicamente, alcune frasi di una conferenza a cui ha assistito personalmente nei giorni del turbamento, dello sconcerto e dell’elaborazione del trauma. Quindi non libri, non parole scritte e lontane, insomma non teorie pure e semplici, ma la voce calda, persuasiva di un autorevole collega che offre un pensiero mentre si fa.

Abbiamo la conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che un affetto aggrumato, pesante e insieme esplosivo richiede per essere elaborato la fucina di fervide relazioni: la mente per ben funzionare ha bisogno, imprescindibilmente, del corpo nelle sue molteplici declinazioni sensoriali.

L’elaborazione continua. Corbella in macchina, verso la stazione, fa di quei fatti oggetto di parola con alcuni amici. Arrivata a casa, ne parla ancora con il consorte. E sembra che l’inquietudine si faccia meno assillante.

Nei giorni successivi riceve una comunicazione da parte di una collega, in cui constata che l’esperienza di supervisione viene descritta in modo distorto, non accennando minimamente al considerevole disagio patito dai partecipanti. La relazione della collega ripropone quindi di nuovo una relazione dissociata e improntata al diniego. Per Corbella significa incontrare ancora, seppur in modo attenuato, l’esperienza disturbante della supervisione. Che ciò significhi una nuova ritraumatizzazione è confermata dalla ricomparsa di mal di testa così forti da essere definiti esplosivi.  I mal di testa si susseguono per tre giorni di fila, fin quando Corbella decide di scrivere ciò che le sta accadendo. Con un nuovo atto di elaborazione - tradurre in parola scritta le brutte sensazioni - il sintomo psicosomatico si dilegua. Viene approcciato per ora solo la cuspide del grumo emozionale, che come vedremo avrà bisogno di una ulteriore e più profonda visitazione.

Invece del piccone, invece del martello pneumatico, per penetrare e cercare di dissolvere quella concrezione così compatta e incistata da non dar respiro, Corbella quasi senza avvedersene (all’addormentamento o al risveglio) si trova a giocare con “fantasie poetiche”, con cui poi forma delle “bolle di sapone”, ossia delle poesie che parlano di silenzio, malinconia, dolore che si ricompongono in “amore e speranza/ da donare”.

La memoria non si fossilizza. Non c’è solo la scena del Bataclan, della seduta di supervisione, ma l’orizzonte si dilata su altri eventi dolorosi: il grave incidente stradale occorsole anni prima, di cui porta ancora segni indelebili.  E di nuovo “bolle di sapone”: “senza memoria non c’è futuro/ senza futuro non c’è oblio per sogni colorati”.

La memoria intreccia, intesse: sofferenza, speranza, gioia. Insieme alle bolle di sapone sorgono desideri, ricordi che vengono risvegliati in un movimento spiraliforme, dove il movimento ritorna su se stesso (circolare), ma con spire sempre più ampie. E’ la volta delle fotografie, dell’infanzia con i genitori e i nonni. Intanto le bolle di sapone si colorano di luce gioiosa: “antico amore”, “dono inaspettato”, “arcobaleno di speranza”. Oltre alle sue bolle Corbella recupera una poetessa quasi dimenticata: Ada Negri.

Infine – ma non è la fine – c’è l’incontro con Kaes. Le concettualizzazioni (in particolare quelle riferentesi al contratto narcisistico, alla genealogia e alla condivisione sociale) permettono di mettere ordine nel subbuglio e garbuglio emotivo e di darne forma anche concettuale, di rendere simboli le emozioni esplosive, i pensieri frammentati, le fantasie rigeneranti.

Il cammino non è ancora arrivato alla meta: un tuffo nell’infanzia, una “regressione” affettiva permette di attingere a un serbatoio d’energia e di creatività, necessaria per riattraversare di nuovo il trauma. La figura dell’amorevole nonno affabulatore domina la scena. Una sorta di demiurgo trasforma la realtà: sa rendere vivi e animati gli oggetti di casa, rendendoli tanto concreti e reali, quanto nello stesso tempo mitici.

A questo punto l’anima prostrata e dolente appare purificata dalle concrezioni tossiche. E’ stata risanata. Anche nello scritto la percepiamo sgombra, distesa, pronta a disporsi a nuove esperienze. Ed è così che si sprigiona in lei un desiderio profondo e incoercibile di sapere. Corbella sente il desiderio di conoscere quel mondo da cui ha ricevuto, sia pur indirettamente, l’ingiuria. L’estate la vede immersa in una nutrita lettura di libri sull’Islam, perché come afferma: “se conosci il tuo nemico, non lo puoi uccidere”. È ciò che avviene nel film citato Joyeux Noël, in cui durante la tregua di Natale in uno degli anni della Seconda Guerra Mondiale le truppe francesi, tedesche e britanniche familiarizzano attraverso la visione delle foto dei propri familiari e poi non se la sentono più di combattere gli uni contro gli altri.

Anche Corbella si è pacificata dopo il lungo tragitto. L’elaborazione del trauma ha dato come risultato due scritti, che ritengo, come ho già detto, innovativi. Possiamo dire che, al di là dei validi contributi scientifici dei lavori di Corbella, a me sembra ancora più prezioso il suo contributo nel saper (operazione quanto mai difficile) descrivere i propri travagli, le cesure, gli andirivieni, gli intrecci e le tessiture tra emozioni, sentimenti di varia natura e l’architettura di un pensiero che spazializza, connette e forma.

En passant, mi piace accennare al messaggio etico contenuto in “Quale possibile intervento di cura di fronte ad eventi traumatici?”: se conosci, capisci e odi meno. Ma questo percorso non è possibile farlo solo sul binario della razionalità, ma deve sostare alla stazione dell’esperienza.  

In ragione di questa perigliosa e felice avventura dello spirito e della mente reputo i contributi di Corbella esemplari. E ritengo che il suo esempio dovrebbe essere seguito da chi sia capace di monitorare il proprio controtransfert, attraversare gli iati, i dinieghi, le sofferenze e le felici scoperte che l’incontro non solo con il trauma, ma con l’altro suscita.

 

 

Sull’esemplarità

 

Gli scritti, che ho preso in considerazione e su cui ho cercato di operare un’analisi quanto più accurata possibile, per tracciarne il labirintico percorso esperienziale, sono innervati precipuamente e sostanzialmente da vissuti controtransferali. La novità, come ho già affermato, sta nella modalità con cui il controtransfert è trattato: come strumento di ascolto, di osservazione e di ricerca, e non come esclusivo e decisivo (?) apparecchio rilevatore delle dinamiche dell’interlocutore analitico, come viene comunemente inteso attualmente.  L’aver formalizzato questa modalità in una narrazione atipica, forse anche un po’ “scandalosa”, sta, a parer mio, il valore degli scritti, che operano un capovolgimento di prospettiva. 

Prospettano un nuovo metodo: si passa da una epistemologia basata sull’elaborazione di concettualizzazioni che pretendono di avere un loro carattere oggettivo e in qualche modo generale a una epistemologia in cui l’oggetto di conoscenza, riconoscendo un intreccio complesso e anche misterioso tra soggetto e oggetto, difficile da cogliere nei suoi percorsi logico-emozionali, è costruito dall’intervento di chi fa esperienza – e non è solo osservatore -  secondo una sua peculiare vicenda  affettivo-cognitiva con l’oggetto preso in considerazione.

Questo nuovo percorso di conoscenza si basa sull’esemplarità, ossia sul fatto che chi avanza ipotesi di senso sa che sono originate dal complesso della sua persona, ma sa altresì che non sono arbitrarie; sente che l’oggetto di ricerca viene costruito attraverso un dipanarsi di matasse emozionali e di reti di concetti in uno stretto corpo a corpo con l’oggetto da esaminare e conoscere, approdando a una forma co-costruita di sapere.

L’“esemplare” non è l’esempio”, ossia un costrutto che ambisce a dimostrare un assunto. L’esemplare non è il “caso”, il quale rappresenta il materiale clinico che serve per corroborare determinati principi teorici, già determinati o intuiti a priori, nonostante quasi sempre venga presentato come dimostrazione di nuovi concetti che sono stati da esso desunti. L’esemplare” invece dovrebbe essere quello in cui chi fa esperienza propone concettualizzazioni che si sono venute a determinare cammin facendo con la consapevolezza che la conoscenza viene inferita da un’esperienza personale e che purtuttavia la trascende. Ossia, ciò che si secerne, in buona parte o solo in parte, non può prescindere dall’esperienza soggettiva, dal contesto vissuto e contingente da cui è risultata l’esperienza, ma la conoscenza non è determinata in modo totale e vincolante da essa, ma attraverso il contesto si può andare anche al di là di esso e proporre qualcosa in cui altri si possono rispecchiare. L’esemplare non parte da concettualizzazioni già intuite e formalizzate, ma ambisce, seppur prudentemente, ad avanzare ipotesi di senso e nuove possibilità conoscitive.

Qui non si tratta di discettare sulla scientificità della psicoanalisi, su cui di tanto in tanto si sono sollevati non pochi dubbi. A me pare che, con più modestia, si possa di volta in volta, proprio partendo da esperienze personali ben documentate e da concettualizzazioni sufficientemente fondate, ampliare il campo delle conoscenze, che sappiamo necessitano di conferme e sono sempre suscettibili d’essere sconfermate. Presentare da parte degli analisti resoconti di percorsi personali in relazione a esperienze cliniche più o meno implicanti, più o meno difficili da gestire significa non perdersi nel regno della soggettività, che potrebbe assumere connotati esibizionistici, ma, come ho già affermato, essere esemplare, perché “esemplare è ciò la cui cogenza trascende il contesto d’origine” (Griffero, 2009).

Ritengo perciò che l’esemplarità possa – non solo nell’ambito del controtransfert – costituire una modalità concettuale e operativa capace di produrre una ricerca in cui si coniughi rigore, spirito di libertà, collegati con una moderata sicurezza che ogni acquisizione umana ben fondata debba avere, senza pretendere una incontrovertibilità, che neppure le scienze della natura, sappiamo, non rivendicano più. Tuttavia tra scienze dello spirito e scienze naturali si prospettano certamente delle differenze, che Gadamer (1960, p. 269 ̵ 70) così riassume:

 

Come essere storico, egli [l’uomo] incontra delle realtà storiche, che sono sempre anche qualcosa di cui l’individuo stesso partecipa, in cui egli si esprime e si ritrova. Come tali, esse [le barriere costituite dall’esperienza di ostacoli, pressioni, resistenze] non sono “rigide barriere”, ma oggettivazioni della vita. […] Tutto ciò ha un significato metodologico decisivo per definire il carattere proprio  delle scienze dello spirito. Il concetto di dato ha qui una struttura radicalmente diversa. Caratteristico della datità nelle scienze dello spirito, rispetto alle scienze della natura, è che “in questo campo bisogna prescindere da tutti gli elementi di fissità e di estraneità che il concetto di dato ha nelle rappresentazioni del mondo fisico”.

 

Possiamo dire che la datità delle scienze dello spirito prescinde da una evidenza apodittica, propria delle scienze della natura, che le fa assumere, almeno per un certo tempo, il carattere di “fissità e di estraneita”, rispetto al soggetto, che è mobile e a sé familiare. A me sembra di capire che Gadamer metta in discussione un metodo che pretenda di possedere “gli elementi di fissità e di estraneità” che in modo improprio si vuole attribuire alle scienze dello spirito. L’analista, sempre seguendo il pensiero gadameriano, incontra realtà storiche, in cui egli stesso è inserito e attraverso cui si esprime e comprende chi egli sia. Non c’è dubbio che le conoscenze che egli si costruisce sono di per sé storiche, ma non arbitrarie, se ben argomentate e ben fondate.

Mi piace allora concludere questa serie di argomentazioni con il brano finale di Verità e metodo:

Non esiste certamente alcuna comprensione che sia libera da ogni pregiudizio, per quanto la nostra volontà possa proporsi di sottrarsi, nella conoscenza, al dominio dei pregiudizi. Dall’insieme della nostra ricerca è risultato chiaro che la sicurezza fornita dall’impiego di metodi scientifici non basta a garantire la verità. Ciò vale in particolare per le scienze dello spirito, ma non significa una diminuzione della loro scientificità, bensì la legittimazione della pretesa di particolare significato umano che da sempre esse avanzano. Che nella conoscenza propria di esse entri in gioco l’essere stesso del soggetto conoscente è un fatto che indica in realtà i limiti del “metodo”, ma non quelli della scienza. Ciò che non è dato dallo strumento del metodo, deve invece e può effettivamente essere realizzato attraverso una disciplina del domandare e del ricercare, che garantisce la verità.

 

I limiti del metodo, a cui si riferisce Gadamer, riguardano quelli delle scienze dello spirito se paragonate a quelle delle scienze naturali. Ma non c’è dubbio che anche le prime hanno un metodo, i cui caratteri distintivi il filosofo tedesco riconosce in una “disciplina” (guarda caso, uno dei criteri stabilito da Mitchell (1997), quando individua i nuovi principi a cui l’analista deve attenersi per fare una buona analisi, dopo aver abbandonati gli anacronistici: neutralità, anonimato, astinenza), “una disciplina del domandare e del ricercare”. È ciò che fa Corbella, quando ripetutamente si domanda le ragioni del disagio esperito nella seduta di supervisione, senza darsi frettolose e superficiali risposte, ma “ricercando” le possibili e reali motivazioni, seguendo un sentiero accidentato, dal tracciato non sempre ben visibile e a volte disorientante. Al di là del contenuto di verità che i suoi scritti possono contenere, cosa per altro di una certa importanza, essi assurgono comunque ad “esempio”, nella misura in cui chi li legge sente che la psicoanalista ha compiuto un itinerario esperienziale, un percorso formativo professionale e di crescita personale, affrontando difficoltà, insignificanze, turbolenze emotive, sintomi psicosomatici, per approdare a un sapere che prima non era dato.

Chi leggendo condivide l’esperienza dell’analista, che si descrive nelle sue vicende controtransferali, sente che quel percorso gli è congeniale, sente che può rispecchiarsi in quello, per poter accedere a una nuova conoscenza, che non deriva da operazioni cognitivo-razionali, ma da un universo esperienziale e simbolico, fattosi narrazione, che può essere guida nel percorso di conoscenza. In questa nuova prospettiva l’acquisizione del nuovo sapere avviene attraverso un processo d’identificazione, che permette d’introiettare non solo le strutture logico-razionali dell’esperienza, ma anche quelle affettive, intimamente intrecciate ad esse.



BIBLIOGRAFIA

 

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