Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 29
2 - 2023 mese di Dicembre
CLINICA – IL CONTESTO SOCIOCULTURALE
ESPERIENZA EMOZIONALE CORRETTIVA IN UNA PSICOTERAPIA PSICOANALITICA. UNA RIFLESSIONE
di Roberto Carnevali

In questi ultimi tempi alcuni elementi convergenti mi hanno stimolato a una riflessione sul concetto di “esperienza emozionale correttiva” introdotto da Franz Alexander nel 1946 e da me proposto a più riprese in modo, lo confesso, altalenante in alcuni miei scritti. Vorrei pertanto in questa sede proporre quello che in questo momento ritengo essersi consolidato, ripercorrendo un mio percorso interno che mi ha portato alle considerazioni che seguono.

 

Una prima occasione per tornare sull’argomento è stata data dall’aver voluto riproporre, a distanza di vent’anni, il mio libro L’immaginario e il diavolo – Prospettiva relazionale e setting gruppale in psicoanalisi, uscito per la prima volta nel 2003, in una nuova edizione riveduta e ampliata, intitolata L’immaginario e il diavolo vent’anni dopo, con sottotitolo Le trappole della relazione compiacente [1]. Già nel 2014 avevo riproposto questo libro in una versione riveduta, e proprio il discorso sull’esperienza emozionale correttiva era stato oggetto di revisione.

 

Scrivevo nella prima versione, in un capitolo intitolato “Relazionale versus esperienziale”, parlando dell’importanza di quello che definivo “clima relazionale”:

 

In tutta la parte rimanente di questo volume si farà riferimento spesso al “clima” relazionale che si instaura fra paziente e analista.

[…]

Il clima relazionale diventa dunque molto importante, e questo sarà un aspetto che verrà ampiamente sviluppato nella parte che segue. Da qui a pensare però che nella mia proposta sia presente qualcosa che può portare all’idea di un’analisi intesa come “esperienza emozionale correttiva” ne corre parecchio, perché il “clima” non vuol essere altro che un presupposto a un lavoro che vuol essere principalmente incentrato (e i casi clinici or ora proposti vogliono esserne una dimostrazione) su aspetti squisitamente relazionali, nei quali il riferimento ad eventi accaduti fra persone, e caratterizzati da una possibilità di confronto con una qualche “realtà storica” di riferimento, si propone, come s’è detto, a garanzia di un evitamento di voli pindarici e di proiezioni dell’analista.

 

e dopo aver citato un caso clinico riprendevo il discorso dicendo:


Credo sia chiara da questo esempio la differenza rispetto a una prospettiva di “esperienza emozionale correttiva”: il “clima relazionale” è la condizione necessaria ma non sufficiente per consentire a chi mi sta di fronte di esprimere le sue risorse, e tanto più questo sarà possibile quanto più io mi porrò in una posizione rispettosa dei sentimenti dell’altro. In questo può aiutarmi il bagaglio di esperienza acquisito nella professione, sempre che non diventi, al contrario, uno strumento di potere che mi faccia partire sulla difensiva, con l’idea che, sapendo in partenza con chi avrò a che fare, io possa decidere a priori dove indirizzare il mio intervento.

 

Evidenziavo quindi che, benché attribuissi un’importanza fondamentale al clima relazionale che si instaura transferalmente fra paziente e analista nelle due direzioni, questo non bastava a garantire la sensatezza e l’efficacia dell’intervento, se questo non era supportato da un’interpretazione calzante che non fosse “campata per aria” ma fosse radicata su contenuti realmente presenti nello scambio dialogico.

 

Nella revisione del 2014 scrivevo invece, nella “Nota introduttiva” della nuova edizione:

 

Un punto su cui ho sviluppato un pensiero articolato in modo un po’ diverso rispetto a ciò che sostenevo nella prima edizione riguarda i due approcci che chiamo “esperienziale” e “relazionale”; mettendoli a confronto dichiaravo di propendere nettamente per quello relazionale e in particolare, quando parlavo del concetto di “esperienza emozionale correttiva”, ne vedevo alcuni aspetti riduttivi.

[...]

...nel corso degli anni sono arrivato a ritenere che il “clima” relazionale sia un aspetto fondamentale del lavoro terapeutico, e che possa risultare più efficace un’interpretazione anche poco pertinente, o addirittura nessuna interpretazione, in un clima relazionale che fa vivere un’esperienza emozionale correttiva, piuttosto che un’interpretazione pienamente centrata data in un clima relazionale che riproduce il mondo immaginario in cui è vissuto il paziente. Ho dunque eliminato il capitolo intitolato “Relazionale versus esperienziale”, perché non ritengo più opportuno proporre le considerazioni lì contenute.

 

Eliminare il capitolo significava rivalutare il concetto di “esperienza emozionale correttiva”, attribuendole significatività in sé, al di là dei contenuti dell’intervento e/o dell’interpretazione giocati nella relazione.

 

E in effetti, rileggendo il mio intervento alla giornata/convegno in ricordo di Guido Medri (cosa che ho fatto in questi giorni in occasione dell’invio a Simone Maschietto di alcuni riferimenti al materiale relativo a questa giornata di studio), contenuto in Pratica Psicoterapeutica n. 24 (1-2021), intitolato: Guido Medri, l’analista e l’uomo, mi sono reso conto di aver attribuito la caratteristica di esperienza emozionale correttiva a una modalità di relazionarsi dell’analista che oggi, benché il tempo trascorso non sia molto, non ritengo più di concepire in questo modo:

 

Guido, a volte inconsapevolmente, o meglio con la consapevolezza dell’intuizione, mi ha offerto un’esperienza emozionale correttiva nella quale ha rappresentato un padre che ha voluto sempre evitare di “farmi su”. Un padre che ha spesso dissentito sulle mie scelte senza per questo pretendere che rinunciassi a procedere se animato da una profonda convinzione; un padre che ha accettato le differenze rispettandole e a volte addirittura valorizzandole, riconoscendo che ci potessero essere altri spazi percorribili al di fuori dell’immaginario di padri prescrittivi che donano le gioie del paradiso terrestre a patto che non si mangi il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Spero che la metafora sia chiara.

 

Che cosa mi aveva indotto a rivalutare il concetto di “esperienza emozionale correttiva”, tanto da considerare tale un intervento del mio analista, che per me è risultato particolarmente significativo, che invece oggi non definirei più in questo modo?

In effetti, il complesso rapporto che ho avuto con Guido Medri ha giocato un ruolo importante in questa mia rivalutazione. Guido aveva una buona opinione dell’esperienza emozionale correttiva, e più di una volta, nei suoi gruppi formativi a cui ho partecipato, è emerso questo aspetto, che per me è risultato convincente, entrando in sintonia con la mia visione dell’importanza della relazione e del clima affettivo-emozionale che si instaura tra paziente e analista nei due versanti.

Recentemente mi sono però trovato a rivolgere la mia attenzione su quella che ho definito “relazione compiacente”, e a rivalutare l’importanza del contenuto delle interpretazioni, per evitare di instaurare un clima relazionale nel quale un malinteso senso di “rispetto” dell’assetto difensivo del paziente (coniugato all’inerzia potenziale dell’analista) porti a una staticità compiaciuta nella quale i due personaggi si crogiolino in una dimensione conservativa privata di ogni funzione terapeutica trasformativa. E questo è stato il motivo che mi ha indotto a riprendere a distanza di tanto tempo il discorso centrale proposto in L’immaginario e il diavolo, rilanciando l’importanza fondamentale della “funzione diabolica” dell’analista come principale elemento di trasformazione, che induce il cambiamento offrendosi come elemento di rottura della continuità.

Ho quindi deciso di riproporre, nella nuova edizione del mio libro, il capitolo “Relazionale versus esperienziale” dove presento una prospettiva critica nei confronti dell’esperienza emozionale correttiva, tenendo in considerazione, valorizzandola, a fianco dell’importanza del clima relazionale, anche e fondamentalmente la significatività dell’interpretazione come imprescindibile elemento trasformativo.

 

Voglio ora ampliare il discorso offrendo alcuni ulteriori spunti di riflessione, a partire dall’aver definito, in un modo che ora ritengo improprio, come esperienza emozionale correttiva l’essersi Giudo Medri proposto a me in analisi come figura alternativa di padre che evita di “farmi su” come mi aveva detto aver fatto mio padre; Intervento che io ricordavo come uno dei cardini della mia analisi mentre Guido attribuiva significatività ad altri aspetti, e forse l’aveva addirittura dimenticato.

 

Una caratteristica a mio avviso imprescindibile dell’esperienza emozionale correttiva è l’intenzionalità. L’analista che si prefigge di offrire al paziente un’esperienza emozionale correttiva assume un atteggiamento nel quale misura gli elementi relazionali che mette in gioco dimensionandoli su quello che ritiene sia opportuno per il paziente. La parola “correttiva” evoca un aspetto educativo, o addirittura pedagogico, che si colloca in una prospettiva manipolatoria. Usando un linguaggio mutuato dal pensiero di Diego Napolitani (che in questo aspetto ho fatto mio ed è uno degli elementi basilari del mio libro) correggere emozionalmente il paziente lo colloca nell’immaginario “forte” (questo aggettivo è mio) dell’analista. In questo senso, l’esperienza emozionale correttiva si pone in una prospettiva diversa da quella dell’offrire al paziente un’esperienza emozionale realmente alternativa nella quale esprimere le potenzialità che nel suo mondo originario sono state coartate. L’analista si erge a giudice di ciò che è bene per il paziente facendolo uscire dall’immaginario del suo mondo genitoriale per collocarlo in un proprio immaginario in fondo altrettanto prescrittivo. Il paziente, trovando in questo nuovo “paradiso terrestre” un clima relazionale più accogliente e, a volte, un po’ meno prescrittivo, almeno in apparenza, può tendere a farlo proprio e a rimanerci per il resto della vita, ritenendo di aver ritrovato il “vero sé” di winnicottiana memoria.

 

Sicuramente l’esperienza trasformativa che ho vissuto nella mia analisi con Guido Medri non è stata dunque fondata su un’esperienza emozionale correttiva, e se qualcuno può pensare che un effetto non voluto consciamente dall’analista tolga all’effetto e allo stesso analista la significatività e la rilevanza, relegandolo nell’ambito della casualità, io ritengo al contrario che ne esalti la grandezza e l’apertura, collocandosi in una dimensione relazionale di vera libertà e rispetto dell’altro, che sola può rappresentare l’elemento cardine per l’espressione più vera della peculiarità soggettiva di ciascuno. E sia le considerazioni che propongo in quel mio contributo, sia il sogno che racconto nel finale, ne sono testimonianza.

 

Porto un esempio personale, da analista, di quello che intendo dire, che ha una stretta analogia con l’esempio, da paziente, or ora citato.

Una paziente torna a trovarmi dopo aver concluso da qualche anno la terapia. Dice di stare bene, e le chiedo notizie del suo figlio più piccolo, che nel momento dell’incontro sarà stato adulto mentre nel periodo della terapia era adolescente ed era spesso al centro dei problemi che mi portava nelle sedute. Mi dice che sta davvero bene, e che è stato a suo tempo risolutivo un mio intervento, che mi riporta con un grande sorriso compiaciuto: «Penso che, malgrado i suoi interventi educativi, suo figlio crescerà bene». Il “malgrado i suoi interventi educativi” le è suonato in un primo momento come un pugno nello stomaco, poi ha stimolato in lei una riflessione che l’ha portata a un allentamento della sua prescrittività iperprotettiva, che ha favorito una crescita armonica e autonoma del figlio. Ci sono molte affinità fra l’intervento di Guido a me relativo al padre che mi ha “fatto su” e il mio alla paziente relativo al figlio che crescerà bene “malgrado” gli inteventi educativi che lei gli fa subire. Sono entrambi interventi “diabolici”, che rompono una continuità di pensiero e di “sentire” introducendo un’idea difficile da accettare, perché sovvertono un ordine costituitosi internamente. In entrambi i casi chi lo riceve ha un attimo di sconcerto ma poi comincia a rifletterci e avvia un processo trasformativo che incide profondamente sull’assetto generale della sua persona. In entrambi i casi l’intervento dell’analista è uscito spontaneo, senza uno studio preventivo, con un’immediatezza data da una situazione in cui ha colto qualcosa di vero che non ha temuto di esprimere al/alla paziente e che ha potuto essere “dimenticato” (anch’io ho un po’ faticato a ripescarlo, e non gli avevo attribuito la rilevanza attribuita dalla paziente) proprio per la sua immediatezza e spontaneità.

L’effetto di un intervento che va oltre le intenzioni dell’analista ne amplifica, non ne riduce, la portata. E comunque l’orizzonte è tutt’altro rispetto all’esperienza emozionale correttiva. L’analista che sollecita un’esperienza emozionale senza prefiggersi di “correggere” le emozioni del paziente può offrirgli l’occasione di accedere a un mondo nel quale muoversi con libertà, superando i confini nei quali è stato costretto dalle prescrizioni di un mondo immaginario genitoriale, senza peraltro inscriverlo nell’implicita prescrittività data da una pretesa di “correzione” del suo mondo emozionale. Possiamo, secondo me a buon diritto, ritenere che questo discorso rappresenti una valida espressione di ciò che Bion intende dicendo che l’analista ha da essere “senza memoria e senza desiderio”

 

Concludo citando una frase di uno dei più grandi registi della storia del cinema, Ingmar Bergman. Quando uno dei suoi attori preferiti, Max Von Sidow, venne scelto per interpretare la parte di Gesù nel film La più grande storia mai raccontata, i produttori di questo film gli dissero che la scelta era stata motivata dall’aver visto, nella scena del film di Bergman Il volto, in cui avviene una resurrezione, un significato simbolico che rimandava a Gesù Cristo. Bergman replicò che non ci aveva proprio pensato, e successivamente, in un’intervista, disse che dopo aver fatto un film capisce dai critici quello che ha voluto dire. E questo è un indice della sua grandezza e della portata del suo contributo non solo alla forma espressiva che ha scelto, il cinema, ma anche all’esplorazione delle profondità dell’animo umano.

[1] v. Carnevali R. (2003), L’immaginario e il diavolo. Prospettiva relazionale e setting gruppale in psicoanalisi, collana Psicoterapie, FrancoAngeli, Milano; e Carnevali R. (2023), L’immaginario e il diavolo vent'anni dopo. Le trappole della relazione compiacente, collana Psicoterapia e..., Psiche Libri, Milano.

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In questi ultimi tempi alcuni elementi convergenti mi hanno stimolato a una riflessione sul concetto di “esperienza emozionale correttiva” introdotto da Franz Alexander nel 1946 e da me proposto a più riprese in modo, lo confesso, altalenante in alcuni miei scritti. Vorrei pertanto in questa sede proporre quello che in questo momento ritengo essersi consolidato, ripercorrendo un mio percorso interno che mi ha portato alle considerazioni che seguono.

 

Una prima occasione per tornare sull’argomento è stata data dall’aver voluto riproporre, a distanza di vent’anni, il mio libro L’immaginario e il diavolo – Prospettiva relazionale e setting gruppale in psicoanalisi, uscito per la prima volta nel 2003, in una nuova edizione riveduta e ampliata, intitolata L’immaginario e il diavolo vent’anni dopo, con sottotitolo Le trappole della relazione compiacente [1]. Già nel 2014 avevo riproposto questo libro in una versione riveduta, e proprio il discorso sull’esperienza emozionale correttiva era stato oggetto di revisione.

 

Scrivevo nella prima versione, in un capitolo intitolato “Relazionale versus esperienziale”, parlando dell’importanza di quello che definivo “clima relazionale”:

 

In tutta la parte rimanente di questo volume si farà riferimento spesso al “clima” relazionale che si instaura fra paziente e analista.

[…]

Il clima relazionale diventa dunque molto importante, e questo sarà un aspetto che verrà ampiamente sviluppato nella parte che segue. Da qui a pensare però che nella mia proposta sia presente qualcosa che può portare all’idea di un’analisi intesa come “esperienza emozionale correttiva” ne corre parecchio, perché il “clima” non vuol essere altro che un presupposto a un lavoro che vuol essere principalmente incentrato (e i casi clinici or ora proposti vogliono esserne una dimostrazione) su aspetti squisitamente relazionali, nei quali il riferimento ad eventi accaduti fra persone, e caratterizzati da una possibilità di confronto con una qualche “realtà storica” di riferimento, si propone, come s’è detto, a garanzia di un evitamento di voli pindarici e di proiezioni dell’analista.

 

e dopo aver citato un caso clinico riprendevo il discorso dicendo:


Credo sia chiara da questo esempio la differenza rispetto a una prospettiva di “esperienza emozionale correttiva”: il “clima relazionale” è la condizione necessaria ma non sufficiente per consentire a chi mi sta di fronte di esprimere le sue risorse, e tanto più questo sarà possibile quanto più io mi porrò in una posizione rispettosa dei sentimenti dell’altro. In questo può aiutarmi il bagaglio di esperienza acquisito nella professione, sempre che non diventi, al contrario, uno strumento di potere che mi faccia partire sulla difensiva, con l’idea che, sapendo in partenza con chi avrò a che fare, io possa decidere a priori dove indirizzare il mio intervento.

 

Evidenziavo quindi che, benché attribuissi un’importanza fondamentale al clima relazionale che si instaura transferalmente fra paziente e analista nelle due direzioni, questo non bastava a garantire la sensatezza e l’efficacia dell’intervento, se questo non era supportato da un’interpretazione calzante che non fosse “campata per aria” ma fosse radicata su contenuti realmente presenti nello scambio dialogico.

 

Nella revisione del 2014 scrivevo invece, nella “Nota introduttiva” della nuova edizione:

 

Un punto su cui ho sviluppato un pensiero articolato in modo un po’ diverso rispetto a ciò che sostenevo nella prima edizione riguarda i due approcci che chiamo “esperienziale” e “relazionale”; mettendoli a confronto dichiaravo di propendere nettamente per quello relazionale e in particolare, quando parlavo del concetto di “esperienza emozionale correttiva”, ne vedevo alcuni aspetti riduttivi.

[...]

...nel corso degli anni sono arrivato a ritenere che il “clima” relazionale sia un aspetto fondamentale del lavoro terapeutico, e che possa risultare più efficace un’interpretazione anche poco pertinente, o addirittura nessuna interpretazione, in un clima relazionale che fa vivere un’esperienza emozionale correttiva, piuttosto che un’interpretazione pienamente centrata data in un clima relazionale che riproduce il mondo immaginario in cui è vissuto il paziente. Ho dunque eliminato il capitolo intitolato “Relazionale versus esperienziale”, perché non ritengo più opportuno proporre le considerazioni lì contenute.

 

Eliminare il capitolo significava rivalutare il concetto di “esperienza emozionale correttiva”, attribuendole significatività in sé, al di là dei contenuti dell’intervento e/o dell’interpretazione giocati nella relazione.

 

E in effetti, rileggendo il mio intervento alla giornata/convegno in ricordo di Guido Medri (cosa che ho fatto in questi giorni in occasione dell’invio a Simone Maschietto di alcuni riferimenti al materiale relativo a questa giornata di studio), contenuto in Pratica Psicoterapeutica n. 24 (1-2021), intitolato: Guido Medri, l’analista e l’uomo, mi sono reso conto di aver attribuito la caratteristica di esperienza emozionale correttiva a una modalità di relazionarsi dell’analista che oggi, benché il tempo trascorso non sia molto, non ritengo più di concepire in questo modo:

 

Guido, a volte inconsapevolmente, o meglio con la consapevolezza dell’intuizione, mi ha offerto un’esperienza emozionale correttiva nella quale ha rappresentato un padre che ha voluto sempre evitare di “farmi su”. Un padre che ha spesso dissentito sulle mie scelte senza per questo pretendere che rinunciassi a procedere se animato da una profonda convinzione; un padre che ha accettato le differenze rispettandole e a volte addirittura valorizzandole, riconoscendo che ci potessero essere altri spazi percorribili al di fuori dell’immaginario di padri prescrittivi che donano le gioie del paradiso terrestre a patto che non si mangi il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Spero che la metafora sia chiara.

 

Che cosa mi aveva indotto a rivalutare il concetto di “esperienza emozionale correttiva”, tanto da considerare tale un intervento del mio analista, che per me è risultato particolarmente significativo, che invece oggi non definirei più in questo modo?

In effetti, il complesso rapporto che ho avuto con Guido Medri ha giocato un ruolo importante in questa mia rivalutazione. Guido aveva una buona opinione dell’esperienza emozionale correttiva, e più di una volta, nei suoi gruppi formativi a cui ho partecipato, è emerso questo aspetto, che per me è risultato convincente, entrando in sintonia con la mia visione dell’importanza della relazione e del clima affettivo-emozionale che si instaura tra paziente e analista nei due versanti.

Recentemente mi sono però trovato a rivolgere la mia attenzione su quella che ho definito “relazione compiacente”, e a rivalutare l’importanza del contenuto delle interpretazioni, per evitare di instaurare un clima relazionale nel quale un malinteso senso di “rispetto” dell’assetto difensivo del paziente (coniugato all’inerzia potenziale dell’analista) porti a una staticità compiaciuta nella quale i due personaggi si crogiolino in una dimensione conservativa privata di ogni funzione terapeutica trasformativa. E questo è stato il motivo che mi ha indotto a riprendere a distanza di tanto tempo il discorso centrale proposto in L’immaginario e il diavolo, rilanciando l’importanza fondamentale della “funzione diabolica” dell’analista come principale elemento di trasformazione, che induce il cambiamento offrendosi come elemento di rottura della continuità.

Ho quindi deciso di riproporre, nella nuova edizione del mio libro, il capitolo “Relazionale versus esperienziale” dove presento una prospettiva critica nei confronti dell’esperienza emozionale correttiva, tenendo in considerazione, valorizzandola, a fianco dell’importanza del clima relazionale, anche e fondamentalmente la significatività dell’interpretazione come imprescindibile elemento trasformativo.

 

Voglio ora ampliare il discorso offrendo alcuni ulteriori spunti di riflessione, a partire dall’aver definito, in un modo che ora ritengo improprio, come esperienza emozionale correttiva l’essersi Giudo Medri proposto a me in analisi come figura alternativa di padre che evita di “farmi su” come mi aveva detto aver fatto mio padre; Intervento che io ricordavo come uno dei cardini della mia analisi mentre Guido attribuiva significatività ad altri aspetti, e forse l’aveva addirittura dimenticato.

 

Una caratteristica a mio avviso imprescindibile dell’esperienza emozionale correttiva è l’intenzionalità. L’analista che si prefigge di offrire al paziente un’esperienza emozionale correttiva assume un atteggiamento nel quale misura gli elementi relazionali che mette in gioco dimensionandoli su quello che ritiene sia opportuno per il paziente. La parola “correttiva” evoca un aspetto educativo, o addirittura pedagogico, che si colloca in una prospettiva manipolatoria. Usando un linguaggio mutuato dal pensiero di Diego Napolitani (che in questo aspetto ho fatto mio ed è uno degli elementi basilari del mio libro) correggere emozionalmente il paziente lo colloca nell’immaginario “forte” (questo aggettivo è mio) dell’analista. In questo senso, l’esperienza emozionale correttiva si pone in una prospettiva diversa da quella dell’offrire al paziente un’esperienza emozionale realmente alternativa nella quale esprimere le potenzialità che nel suo mondo originario sono state coartate. L’analista si erge a giudice di ciò che è bene per il paziente facendolo uscire dall’immaginario del suo mondo genitoriale per collocarlo in un proprio immaginario in fondo altrettanto prescrittivo. Il paziente, trovando in questo nuovo “paradiso terrestre” un clima relazionale più accogliente e, a volte, un po’ meno prescrittivo, almeno in apparenza, può tendere a farlo proprio e a rimanerci per il resto della vita, ritenendo di aver ritrovato il “vero sé” di winnicottiana memoria.

 

Sicuramente l’esperienza trasformativa che ho vissuto nella mia analisi con Guido Medri non è stata dunque fondata su un’esperienza emozionale correttiva, e se qualcuno può pensare che un effetto non voluto consciamente dall’analista tolga all’effetto e allo stesso analista la significatività e la rilevanza, relegandolo nell’ambito della casualità, io ritengo al contrario che ne esalti la grandezza e l’apertura, collocandosi in una dimensione relazionale di vera libertà e rispetto dell’altro, che sola può rappresentare l’elemento cardine per l’espressione più vera della peculiarità soggettiva di ciascuno. E sia le considerazioni che propongo in quel mio contributo, sia il sogno che racconto nel finale, ne sono testimonianza.

 

Porto un esempio personale, da analista, di quello che intendo dire, che ha una stretta analogia con l’esempio, da paziente, or ora citato.

Una paziente torna a trovarmi dopo aver concluso da qualche anno la terapia. Dice di stare bene, e le chiedo notizie del suo figlio più piccolo, che nel momento dell’incontro sarà stato adulto mentre nel periodo della terapia era adolescente ed era spesso al centro dei problemi che mi portava nelle sedute. Mi dice che sta davvero bene, e che è stato a suo tempo risolutivo un mio intervento, che mi riporta con un grande sorriso compiaciuto: «Penso che, malgrado i suoi interventi educativi, suo figlio crescerà bene». Il “malgrado i suoi interventi educativi” le è suonato in un primo momento come un pugno nello stomaco, poi ha stimolato in lei una riflessione che l’ha portata a un allentamento della sua prescrittività iperprotettiva, che ha favorito una crescita armonica e autonoma del figlio. Ci sono molte affinità fra l’intervento di Guido a me relativo al padre che mi ha “fatto su” e il mio alla paziente relativo al figlio che crescerà bene “malgrado” gli inteventi educativi che lei gli fa subire. Sono entrambi interventi “diabolici”, che rompono una continuità di pensiero e di “sentire” introducendo un’idea difficile da accettare, perché sovvertono un ordine costituitosi internamente. In entrambi i casi chi lo riceve ha un attimo di sconcerto ma poi comincia a rifletterci e avvia un processo trasformativo che incide profondamente sull’assetto generale della sua persona. In entrambi i casi l’intervento dell’analista è uscito spontaneo, senza uno studio preventivo, con un’immediatezza data da una situazione in cui ha colto qualcosa di vero che non ha temuto di esprimere al/alla paziente e che ha potuto essere “dimenticato” (anch’io ho un po’ faticato a ripescarlo, e non gli avevo attribuito la rilevanza attribuita dalla paziente) proprio per la sua immediatezza e spontaneità.

L’effetto di un intervento che va oltre le intenzioni dell’analista ne amplifica, non ne riduce, la portata. E comunque l’orizzonte è tutt’altro rispetto all’esperienza emozionale correttiva. L’analista che sollecita un’esperienza emozionale senza prefiggersi di “correggere” le emozioni del paziente può offrirgli l’occasione di accedere a un mondo nel quale muoversi con libertà, superando i confini nei quali è stato costretto dalle prescrizioni di un mondo immaginario genitoriale, senza peraltro inscriverlo nell’implicita prescrittività data da una pretesa di “correzione” del suo mondo emozionale. Possiamo, secondo me a buon diritto, ritenere che questo discorso rappresenti una valida espressione di ciò che Bion intende dicendo che l’analista ha da essere “senza memoria e senza desiderio”

 

Concludo citando una frase di uno dei più grandi registi della storia del cinema, Ingmar Bergman. Quando uno dei suoi attori preferiti, Max Von Sidow, venne scelto per interpretare la parte di Gesù nel film La più grande storia mai raccontata, i produttori di questo film gli dissero che la scelta era stata motivata dall’aver visto, nella scena del film di Bergman Il volto, in cui avviene una resurrezione, un significato simbolico che rimandava a Gesù Cristo. Bergman replicò che non ci aveva proprio pensato, e successivamente, in un’intervista, disse che dopo aver fatto un film capisce dai critici quello che ha voluto dire. E questo è un indice della sua grandezza e della portata del suo contributo non solo alla forma espressiva che ha scelto, il cinema, ma anche all’esplorazione delle profondità dell’animo umano.

[1] v. Carnevali R. (2003), L’immaginario e il diavolo. Prospettiva relazionale e setting gruppale in psicoanalisi, collana Psicoterapie, FrancoAngeli, Milano; e Carnevali R. (2023), L’immaginario e il diavolo vent'anni dopo. Le trappole della relazione compiacente, collana Psicoterapia e..., Psiche Libri, Milano.

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