Introduzione
L’articolo di Simone Maschietto mi ha stimolato a riprendere in mano e riordinare vecchi appunti di due seminari che avevo tenuto nel 2015 alla Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica (SPP) sulla storia della psicoanalisi italiana e la nascita del Gruppo Milanese per lo Sviluppo della Psicoterapia, in cui affondano, in parte, le radici da cui proveniamo come psicoterapeuti formati alla SPP di via Pergolesi. Mi ero posto l’obiettivo di tracciare la complessa rete storico-genealogica coerente col fatto che, a quanto pare, nella psicoanalisi si nasce come in una famiglia o piuttosto in una specie di tribù. Per esempio, se guardiamo l’appartenenza al movimento psicoanalitico nella prospettiva della genealogia i miei antenati analitici sono i seguenti. Entrambi i miei analisti furono analizzati da Diego Napolitani, analizzato in un primo tempo da Ernst Bernhard (come vedremo, analizzato da Jung) e in seconda analisi da Franco Fornari, che era stato analizzato da Musatti, a sua volta analizzato da Benussi, analizzato da Otto Gross a Gratz in Austria, analizzato da C. G. Jung al Burghölzli. La mia analista fu analizzata in seconda da Davide Lopez, Lopez da Lothar Rubinstein, Rubinstein da Eva Rosenfeld, la Rosenfeld da Sigmund Freud. Nelle pagine seguenti sfoglierò dunque un grande album di famiglia basato su tracce di microstoria raccolte da libri, articoli, documenti e ricordi di incontri fortunati, da cui ho ascoltato aneddoti e resoconti storici. Non mi soffermerò sui contenuti, perché l’aspetto teorico non dà l’idea della dimensione umana, e perciò racconterò qualcosa sulle persone e sulla rete di rapporti. Si tratta di personaggi e di snodi storici decisivi per lo sviluppo della psicoterapia in Italia, ma anche di analisti e supervisori (i “nonni”, “bisnonni” e “trisnonni” – se vogliamo) che stanno alle radici della nostra identità professionale.
Gaetano Benedetti e Pier Francesco Galli
Iniziamo con Gaetano Benedetti (1920-2013). Siciliano d’origine, emigrò in Svizzera nel 1947 per lavorare al Burghölzli con Manfred Bleuler (figlio del grande clinico Eugen Bleuler) e con Medard Boss. Il Burghölzli è l’Ospedale psichiatrico dell’Università di Zurigo diretto un tempo dall’entomologo psichiatra kraepeliniano Auguste Forel (1848-1931) e in seguito dal suo allievo Eugen Bleuler (1856-1939). Non sono necessari rilievi sull’importanza del Burghölzli nella storia della psicoanalisi: all’interno di quella clinica si formarono durante il primo decennio del secolo scorso Carl Gustav Jung (è al Burghölzli che curò Sabina Spielrein e Otto Gross), Alphonse Maeder (1882-1971), Karl Abraham (1877-1925), Max Eitingon (1881-1943), Abraham Brill (1874-1948), Ernest Jones (1897-1958), Ludwig Binswanger (1881-1996) e molti altri (Nunberg, Rorschach, ecc.).
Al Burghölzli Benedetti aveva frequentato il corso di formazione alla psicoanalisi (la frequenza era libera e gratuita) che Manfred Bleuler (1903-1994) aveva organizzato a partire dal 1948 affidandone la direzione a Gustav Bally e a Medard Boss, due membri dell’Associazione internazionale di psicoanalisi (IPA). Di Bally dirò tra poco; Medard Boss (1903-1990) aveva fatto qualche seduta a Vienna con Freud quando era ancora studente. Entrò poi in analisi con lo svizzero Hans Behn Eschenburg a Zurigo e fu supervisionato da Karen Horney a Berlino. Con Binswanger fondò la psicoterapia fenomenologica-esistenziale, orientamento da cui – anche tramite Boss – Benedetti dichiarava di avere imparato molto.
Durante gli anni di permanenza a Zurigo, Benedetti intraprese due analisi. La prima con Rudolf Brun (1885-1969), l’altra con Gustav Bally. L’esperienza con Brun durò solo sei mesi. Bisogna spendere qualche parola anche su Brun perché fu l’analista di altri nostri antenati. Fu analizzato tra il 1925 e il 1926 da Philipp Sarasin, il quale aveva fatto la prima analisi con Franz Riklin (analizzato a sua volta da Jung tra il 1902 e il 1904). Sarasin fu analizzato in seconda da Hanns Sachs e per tre anni da Freud, dal 1921 al 1923. L’idealismo trascendentale dell’analisi fenomenologico esistenziale era una presenza culturale molto forte a Zurigo e poiché Brun cercava di definire la propria identità professionale per contrapposizione, egli esasperò di conseguenza una concezione dell’essere umano in contrasto a quella esistenziale. Brun riconduceva tutto alle pulsioni e le conseguenze cliniche di una tale riduttiva posizione teorica non convincevano Benedetti. Ma c’era un'altra questione che alimentava lo scetticismo di Benedetti sul metodo del suo analista: il fatto che il transfert non fu mai analizzato lo motivò a interrompere con Brun per iniziare una seconda analisi, che durò sei anni, con Bally.
Gustav Bally (1893-1966) fu analizzato nel 1928 a Berlino da Hanns Sachs (1891-1947). Sachs era un avvocato che diventò analista nel 1909; fu il primo didatta, a Berlino nel 1920; suoi pazienti furono Alexander, Balint, Karen Horney, Erich Fromm, Rudolf Loewenstein, Sylvia Payne, Ella Sharpe, e molti altri. Terminata l’analisi con Sachs, Bally strinse rapporti di collaborazione e amicizia con Erich Fromm (1900-1980) e Franz Alexander (1891-1964). Sia Benedetti che Cremerius ricordavano Bally come un analista sensibile e capace di quell’atteggiamento positivizzante verso il paziente su cui entrambi fondarono la propria tecnica analitica. «Positivizzare» significa uscire dalla posizione speculare e offrire al paziente – soprattutto al limite o psicotico – un’immagine positiva, differente dalla rappresentazione che questi ha di sé. Cremerius, interessato alla tecnica del trattamento di pazienti nevrotici, non usa il termine «positivizzare» ma il metodo è quello. Per controbilanciare la dimensione infantilizzante del setting analitico egli proponeva di far leva sulla forza del paziente, se possibile sugli aspetti fallici, rimandandoglieli come una ricchezza che egli possiede (interessante il caso di Paula ne Il futuro della psicoanalisi). Più in generale, Cremerius insegnava a offrire un clima relazionale in cui il paziente può fantasticare, nel rapporto col suo terapeuta, il suo “bel giardino in fiore”, fino a quando egli capisce che non può realizzarlo. E contemporaneamente, però, consigliava di cercare in lui le parti sane, nascoste, di speranza e le risorse per un buon sviluppo, per mostrargliele nei momenti più opportuni del processo terapeutico: un modo particolare di unire la tecnica dell’insight con l’esperienza emotiva nel qui-e-ora. Nella relazione analitica si esprimono sempre due linee: la linea della realtà e la linea regressiva della fantasia (che entra in analisi come transfert e deriva dalla ricoloritura edipica che il paziente ha dato ai suoi vissuti infantili e alle sue fantasie).
Tornando a Bally, egli cercò di coniugare sul piano teorico la psicoanalisi con la sociologia, l’antropologia e la psicologia animale. E questa apertura scientifica del suo analista, Benedetti la ricordava sempre con gratitudine. Nel corso di una seduta in fase avanzata di analisi, Bally gli comunicò che si sarebbe dovuto assentare da Zurigo per un paio di mesi. Siccome non poteva abbandonare un paziente a rischio di crollo psicotico, gli chiese disponibilità a continuare, al suo posto, la conduzione del trattamento. Benedetti accettò. Al ritorno di Bally, il paziente dichiarò già alla prima seduta di essere intenzionato a rimanere in analisi con Benedetti, da cui si sentiva capito meglio. Nella seduta con Benedetti, Bally lavorò su un doppio livello: si complimentò perché aveva lavorato meglio di lui, e nel contempo analizzò l’inconscio compiacimento di Benedetti per essere stato più in gamba del suo analista (cioè nel transfert analizzò la competizione col padre). Potremmo forse commentare di sfuggita che, nel raccontare il caso, Benedetti non prende in considerazione la plausibile difesa del paziente, che capovolge (vendicativamente) in attivo l’abbandono che aveva subito passivamente.
Comunque sia, mentre era in analisi con Bally, tra il 1950 e il 1951, Benedetti si trasferì a New York per studiare nove mesi con John Rosen (1902-1993), l’inventore della tecnica dell’analisi diretta, buon amico di Manfred Bleuler. Tornato a Zurigo, lavorò con Christian Müller (1921-2013), con cui fondò, nel 1955, il principale congresso internazionale sulla psicoterapia delle psicosi, il Simposio Internazionale di Psicoterapia della Schizofrenia. Conobbe Jung e poté confrontarsi settimanalmente con lui e con Marguerite Sechehaye (1887-1964); da tutti imparò molto, com’è evidente nei libri Paziente e analista nella terapia delle psicosi, Alienazione e personazione nelle malattie mentali, Paziente e terapeuta nell’esperienza psicotica. Marguerite Sechehaye aveva da poco introdotto la tecnica psicoterapeutica della realizzazione simbolica nel trattamento della schizofrenia (andrebbe riletto il Diario di una schizofrenica e rivisto l’omonimo film del 1968, diretto da Nelo Risi e supervisionato da Franco Fornari).
Gaetano Benedetti ha proposto un efficace modello di trattamento e di comprensione delle psicosi. Mi limiterò a una sintesi stringatissima.
1) Nella psicoterapia con lo psicotico, occorre stare molto tempo col paziente, con una presenza “dialogica”, mostrargli solidarietà, affetto e fiducia nella sua esistenza, un’esistenza di cui il paziente è vittima.
2) Nel dialogo con uno schizofrenico non è terapeutico cercare le cause della sua patologia nel passato. È utile, al contrario, rintracciare “nessi” e corrispondenze fra la malattia e la storia pre-psicotica del paziente. Per esempio (dice Benedetti) a un paziente delirante si può comunicare qualcosa come: “Sono certo che anche da adolescente, o prima, tu costruivi nella tua mente una parte di realtà, un tuo mondo privatissimo”; a un paziente che vive una fase di ritiro autistico, si può dire: “C’erano momenti nel tuo passato in cui ti ritiravi dalla realtà sociale…” Queste operazioni, ripetute all’infinito, favoriscono nel paziente la costruzione della propria identità; agli occhi del paziente, il proprio vissuto psicotico diventa comprensibile: egli scopre che il proprio passato dà un senso condivisibile alle esperienze attuali.
3) Un altro obiettivo mira a de-responsabilizzare, de-colpevolizzare, il paziente rispetto ai sintomi psicotici. È utile – insegnava Benedetti – considerare che i sintomi indicano conflitti e traumi del passato. A noi serve capirlo, perché ci permette di costruire un modello entro cui orientarci mentre siamo in rapporto col paziente, smarriti tra i molti aspetti incomprensibili del suo comportamento.
4) Occorre positivizzare continuamente i vissuti psicotici (ecco l’insegnamento di Gustav Bally), ribaltarli dal negativo al positivo, a conferma che la vita del paziente è importante e ha un senso. Per esempio, a un paziente che si sente invaso da esperienze incomprensibili, si può dire: “Qualcosa di profondo, di importante, desidera essere accolto da te”. È importante positivizzare tutto. E mostrare al paziente che anche nelle sue fantasie di onnipotenza e grandiosità si esprime il suo bisogno di valorizzarsi.
5) Un altro passo utilissimo è quello di indicare – al momento giusto! − che le “voci” allucinate provengono da introietti familiari.
6) È indispensabile riconoscersi nel delirio e nella psicosi del paziente (ecco l’insegnamento di Binswanger e di Medard Boss) e identificarsi con lui. Cercare nel rapporto la nostra psicosi. Rimanere sempre, costantemente consapevoli della reciprocità (l’intersoggettivismo è nato con Husserl, Heidegger, con Binswanger che si era formato con Jung, Eugen Bleuler e Freud).
7) Nello schizofrenico, dice Benedetti, c’è un’identità estranea (il paziente la vive come “Gli altri”, “L’altro”) che riduce a oggetto il suo l’Io. Qualcuno – “gli altri”, “l’altro” − lo guida, lo influenza, lo domina, eccetera. Noi dovremmo sempre rapportarci al paziente da soggetto a soggetto.
8) Dobbiamo ascoltarlo con sincerità, cercare di capirlo, almeno sforzarci di farlo.
9) E creare simboli che possano essere condivisi. Benedetti fa l’esempio di un paziente che racconta un sogno (uno di quelli che segnalano il terribile vissuto di non-esistenza) in cui si trova in uno spazio vuoto, seduto su una bara dal contenuto sconosciuto. In questo caso, possiamo dire al paziente che nella cassa da morto forse si nasconde una lettera di famiglia, un importante documento perduto da cui dipendeva la sua vita. Ovviamente si tratta di un semplice modello di interpretazione.
10) Il punto di vista esistenziale del modello clinico di Benedetti è molto affascinante e, per chi lavora in psichiatria, del tutto condivisibile. Propone di vedere la psicopatologia del paziente non come una regressione, ma come un’esperienza progressiva, in cui questi cerca di riparare e curare ferite passate, di comunicare, di essere ascoltato.
11) Un altro aspetto ancora riguarda gli impulsi. È importante incontrare e accettare la distruttività del paziente, verbale o diretta agli oggetti inanimati, con la comunicazione implicita che essa non ci distrugge. La distruttività del paziente è segno della sua fragilità. Ma se l’aggressione è fisica, è necessario comunicargli la nostra paura, rimandandogli che anche lui è spaventato.
Riassumendo, i punti essenziali della psicoterapia di Benedetti agli schizofrenici sono:
1) trasformare in positivo l’esperienza psicotica;
2) fare in modo che il paziente ci viva come una possibilità di vita – c’è un luogo anche nello schizofrenico dove la pianta vuole germogliare direbbe Cremerius (Benedetti lo chiama “transitivismo intersoggettivo”);
3) considerare la malattia del paziente nei termini di una psicopatologia progressiva e non regressiva.
Ma torniamo alla nostra storia. Ottenuta l’abilitazione in psichiatria nel 1953, Benedetti fu chiamato a Basilea per la cattedra universitaria di Igiene Mentale e Psicoterapia e l’anno dopo iniziò una collaborazione con l'Istituto di Psicologia dell'Università Cattolica. Fu durante le giornate di studio alla Cattolica che Benedetti e Pier Francesco Galli si incontrarono.
A questo punto la storia di Benedetti si incrocia con quella di Pier Francesco Galli (1931).
A 24 anni si trasferì a Milano da Nocera Inferiore, dov’era nato. Era il 1955. Nocera ospitava un grande Ospedale psichiatrico, di tremila e più posti letto, diretto allora da Marco Levi-Bianchini (1875-1961), il quale aveva conosciuto Freud nel 1915 e fu allievo di Cesare Lombroso. Levi-Bianchini è una figura storica della psichiatria italiana: a pochi mesi dalla morte disse di avere praticato nella sua vita professionale 10.000 elettroshock, centinaia di shock insulinici e dozzine di narcoanalisi. Nel 1915 introdusse in Italia la traduzione di Freud, alcuni testi li aveva tradotti lui stesso dal tedesco. Col triestino Edoardo Weiss (1889-1971), fu tra i primi divulgatori della psicoanalisi in Italia. Weiss si era formato nel 1910 a Vienna sul lettino di Paul Federn (1971-1950), grande pioniere, assieme a Gertrud Schwing, della psicoterapia delle psicosi. Di Federn va letto Psicosi e psicologia dell’Io, e della Schwing il bellissimo La pazzia e l’amore. Tornando a Levi-Bianchini, nel 1921 fu nominato direttore del manicomio di Teramo e nel 1925 a Teramo fondò un’associazione denominata Società Psicoanalitica Italiana (SPI). Sì, Levi-Bianchini fu il fondatore del nucleo originario della SPI. Tra i suoi allievi famosi ricordo Federico Navarro di Napoli, che fu in analisi con lui e prese la via della formazione reichiana. Navarro fondò la rivista Quaderni Reichiani, su cui appare la prima traduzione italiana di Materialismo dialettico e psicoanalisi, di W. Reich.
Il manicomio diretto da Levi-Bianchini costituiva per i nocerini un punto di riferimento lavorativo. E i cittadini avevano buoni rapporti con i pazienti della psichiatria, tanto che gli insegnanti accompagnavano regolarmente le scolaresche a visitare l’Ospedale psichiatrico.
Fu appunto tramite Levi-Bianchini che Galli conobbe la psicoanalisi. Quando frequentava le scuole medie andava a fare i compiti a casa degli zii, e lì, spesso, era ospite con la moglie anche quest’uomo, alto col barbone, che sorseggiando il tè discorreva di psicoanalisi con gli zii di Galli, che era un ragazzino e ascoltava affascinato. Sognava di studiare filosofia all’Università, ma alla fine rinunciò, a malincuore, per iscriversi a medicina secondo la tradizione di famiglia – suo padre, gli zii materni e i cugini erano medici. Ma gli rimase la passione per la psicologia e, completati gli studi universitari, cercando un’occasione per trasferirsi a Milano, alla Cattolica, venne a sapere che a Sorrento c’era un tizio, Gustavo Jacono, che insegnava psicologia sociale (una disciplina per nulla studiata in Italia in quegli anni) all’Università Cattolica di Milano come assistente di padre Gemelli. Galli contattò Jacono e grazie a lui partecipò a un concorso per un posto alla Cattolica. Con Galli c’erano Francesco Alberoni, Enzo Spaltro e Assunto Quadrio. Padre Gemelli li assunse tutti e quattro. Tutte le settimane partecipavano ai “venerdì della Cattolica” organizzati dallo stesso Padre Gemelli, per discutere con altri colleghi, e personalità internazionali attive in clinica e ricerca, invitati a presentare i propri lavori.
Padre Gemelli, frate francescano, ufficiale medico pilota durante la prima guerra mondiale, fu assistente del neuroistologo Camillo Golgi (che scoprì l’apparato reticolare delle cellule, deputato alla sintesi delle proteine e dei grassi), frequentò la clinica di Emil Kraepelin a Monaco e fondò nel 1921 il Laboratorio di psicologia all’Università Cattolica. Durante il fascismo appoggiò le leggi razziali del 1938 e fu teorico controverso dell’antiebraismo spiritualista che caratterizzava l’ideologia del razzismo fascista.
Alla Cattolica, Galli inizia a fare ricerche in psicologia, utili per la carriera universitaria. Finché, alla conferenza sugli orientamenti psicoanalitici nella psicoterapia delle psicosi conobbe Gaetano Benedetti, il quale parlava di un tema che incontrava pienamente il suo interesse: coniugare la psichiatria con la psicoanalisi clinica; e poi raccontava le esperienze di psicoterapia degli schizofrenici che lo entusiasmavano. Era il 1957.
La ricchezza dell’insegnamento di Benedetti sta, a mio parere, nella felice integrazione critica di orientamenti differenti all’interno del modello freudiano. Nel suo pensiero troviamo, assieme ai concetti fondamentali di Freud, della Klein e dei pionieri della terapia psicoanalitica delle psicosi, la tecnica di Frieda Fromm-Reichmann, la psicologia analitica di Jung, l’interpersonalismo sullivaniano, l’esistenzialismo di Heidegger e la fenomenologia di Husserl e Jaspers, il loro incontro operato da Binswanger e poi da Boss, la psicologia dello sviluppo cognitivo di Jean Piaget, e così via. D’altronde è importante osservare non solo che Benedetti si arricchì degli scambi culturali con i rappresentanti di diverse scuole, ma anche il fatto decisivo per cui negli anni cinquanta la Svizzera costituiva un territorio culturale privilegiato di dialogo interdisciplinare e interscolastico tra filosofi, antropologi, medici, psichiatri e psicoanalisti di tutte le scuole. Zurigo, ad esempio, era in quel periodo una vera e propria fucina per la clinica e il trattamento psicoterapeutico delle psicosi. Oltre all’importante gruppo della scuola junghiana, lo Jung Institute, a Zurigo erano attivi gli psichiatri dell’analisi fenomenologico esistenziale di Binswanger e gli analisti freudiani della Società svizzera di psicoanalisi. Ma su questo torneremo più avanti. In Italia, invece, erano gli anni in cui dominava la psichiatria biologica. Gli articoli nelle riviste scientifiche di quel periodo erano incentrati sulla possibilità di comparare le diverse psicosi con zone corticali in cui si sarebbe dovuto riscontrare il danno. Come oggi, anche allora, l’organicismo dominava indiscusso la scena culturale della formazione psichiatrica istituzionale. I medici in specialità psichiatrica studiavano sul Manuale di psichiatria di Giulio Moglie, pubblicato nel 1940 a Roma dall'Editore Luigi Pozzi, dove ogni sintomo psichiatrico era collegato all’anatomia patologica. Adamo Mario Fiamberti (1884-1970), lo psichiatra che inventò la tecnica della lobotomia transorbitale nel 1937 e dal 1964 fu direttore del manicomio di Varese, nelle conferenze che teneva qua e là per l’Italia, sosteneva più o meno che: “Fare una psicoterapia a uno psicotico è come voler spegnere una lampadina soffiandoci sopra”(!).
Per Galli l’incontro con Benedetti fu illuminante. Decise di interrompere l’analisi con l’omegnese Giovanni Carlo Zapparoli (1924-2009), che era iniziata da pochi mesi, e si trasferì a Basilea per entrare in analisi con Benedetti. In quel periodo lavorò come assistente presso la Clinica psichiatrica universitaria Friedmatt e iniziò la formazione con Raymond Battegay (1927-2016), esperto in psicologia sociale e analisi di gruppo. Battegay insegnava all’Università dov’era docente anche Benedetti. La clinica era diretta da Kielholz, di cui dirò più avanti. A Basilea, Galli imparò molto dall’analista junghiano Norman Elrod (1928-2002), che frequentò Benedetti dal 1957 al 1959 dopo essersi formato al Burghölzli di Zurigo dal 1951 al 1957 e prima di trasferirsi alla clinica Bellevue di Kreuzlingen per lavorare con Binswanger dal 1960 al 1968.
Quando Benedetti ricevette la nomina per una cattedra a Heidelberg, nel 1961, avrebbe desiderato portare con sé quattro giovani colleghi: uno di questi era Galli. Il gruppo si sarebbe trasferito a Heidelberg in autunno. Tuttavia nel giugno dello stesso anno (mentre Galli era a Montreal, in Canada, come relatore al III Congresso mondiale di psichiatria), durante il giro di saluti agli amici cattedratici, Benedetti incontrò il grande neurologo Paul Vogel (allievo di Victor von Weizsäcker) e gli confidò alcuni disturbi che riconduceva alla situazione stressante di quel periodo. Vogel gli chiese di camminare davanti a lui e, guardandolo, gli diagnosticò un neurinoma dell’acustico (un tumore che è benigno ma molto invasivo e va operato d’urgenza). Benedetti si fece operare a Zurigo e non partì alla volta di Heidelberg. Dopo la convalescenza rimase a Basilea, proseguì l’insegnamento universitario alla Facoltà di Medicina e continuò a lavorare presso il Servizio di Psicoterapia e Igiene Mentale della Clinica psichiatrica universitaria (sino al pensionamento nel 1985).
Conseguenza della malattia di Benedetti fu che Pier Francesco Galli rientrò a Milano, dove − con Enzo Spaltro, a cui era legato da un rapporto di amicizia iniziato durante il periodo di insegnamento alla Cattolica, e con Mara Palazzoli Selvini e Berta Neumann, che aveva conosciuto in Svizzera nel 1959 al Simposio Internazionale per la Psicoterapia della Schizofrenia − decise di organizzare un gruppo che si dedicasse alla formazione alla psicoterapia, il Gruppo Milanese per lo Sviluppo della Psicoterapia (noto anche come Centro di Piazza S. Ambrogio).
Dunque, il nucleo originario era formato da Galli, Spaltro, Selvini e Neumann. Enzo Spaltro (1929-2021) aveva lavorato con Galli come assistente presso l'Istituto di Psicologia dell'Università Cattolica dal 1955 al 1959, sotto la direzione di padre Gemelli. Attivo nell’ambito della psicologia sociale e della psicologia del lavoro, fu tra i pionieri della psicoterapia di gruppo in Italia (con Leonardo Ancona) e nel 1962 fondò l'AIPG (Associazione Italiana di Psicoterapia di Gruppo) che diresse fino al 1966. Mara Palazzoli Selvini (1916-1999) si dedicava in quegli anni alla terapia dell’anoressia mentale e in base alla sua esperienza scrisse il libro L'anoressia mentale, pubblicato nel 1963 da Feltrinelli. Com’è noto, divenne la pioniera italiana della terapia familiare. Berta Neumann (1893-1976) rimane una figura quasi leggendaria. Parlava in un italiano intedescato. Per dire che gli avvocati hanno un carattere un po’ anale diceva: “Tutti gli avvocati hanno col culo a fare” (il tedesco ha il verbo in fondo). La Neumann era bravissima col Rorschach, sembra che interpretare un Rorschach con lei significasse capire tantissimo del paziente. Analizzata da Benedetti, apprese la tecnica improntata sulle parti funzionanti del paziente più che sui difetti, imparò molto e, come vedremo più avanti, lavorò con Virginio Porta alla Clinica Villa Fiorita. Trattava solo psicotici gravi, anche nel suo studio privato. Uno era Francesco: quello ricordato in modo particolare per l’episodio dell’esibizionismo. Lui si cala i pantaloni, lei si alza dalla poltrona, prende un’enorme lente di ingrandimento dalla scrivania, va a vedere, si china e dice: “Tutto a posto”. Questa era Berta Neumann. La domenica portava in giro con un pulmino i suoi pazienti psicotici, che amava tanto. Quando uno di questi la fece cadere, si ruppe un femore e da quel giorno deambulava con una stampella. Una volta andò a trovare un suo paziente che aveva fatto ricoverare in una clinica e questo durante la notte aveva defecato sporcando il letto. Tutte le infermiere erano piuttosto seccate, e la Neumann: “Ma poverino, lui piange con il corpo!”
La rivista Psicoterapia e Scienze Umane ha pubblicato il diario sul caso clinico di Federico, un avvocato schizofrenico con cui la Neumann strinse un rapporto umano intenso e complesso, utilizzando la tecnica interpretativa con la realizzazione simbolica. Il caso clinico che la Neumann aveva presentato al corso di aggiornamento al Museo della Scienza nel 1962 (Psicoterapia e Scienze Umane, 4, 2016) suscitò una discussione sulla tecnica del trattamento analitico dello psicotico, da cui estraggo un passaggio interessante. Un collega si chiede fino a che punto si possa parlare di tecnica in quella psicoterapia, perché il successo terapeutico ottenuto dalla Neumann era forse più dovuto alle sue straordinarie doti di terapeuta che alla tecnica usata (è il problema tipico delle psicoterapie degli schizofrenici). Virginio Porta risponde così: «In realtà una tecnica non viene fuori, e non si può neanche dire che sia dipeso tutto solo dalla capacità di sintonia della dottoressa Neumann: certo, c’è qualcosa in lei, che l’aiuta indubbiamente, ma non c’è niente di esoterico, la dottoressa si è sempre sforzata di creare un fondamento tecnico sin dal primo caso che ha trattato, un fondamento razionale al suo modo di agire. In un caso grave, regredito su un livello catatonico, la dottoressa aveva adottato il metodo dell’alimentazione simbolica (la Sechehaye) e indubbiamente, in quel caso, le ha giovato molto per stabilire un contatto col paziente e ha influito sullo sviluppo della psicoterapia. Successivamente si è giovata di una tecnica più razionale. Si trattava di studenti: una studentessa di architettura, due studentesse di lingue; la dottoressa Neumann, giovandosi intanto della psicoanalisi e della capacità di dedizione (basti dire che si è messa a studiare architettura, storia dell’arte e persino [gli argomenti di] un esame di matematica), riuscì a portare quella ragazza alla laurea. In altri casi è stata facilitata dalla sua conoscenza delle lingue: una studentessa che si era arenata lungo il corso universitario di tedesco, è stata curata dalla Neumann in veste di professoressa di tedesco e non di psicoterapeuta. L’ha seguita per parecchio tempo, l’ha portata anche questa brillantemente alla laurea e questa ragazza si è trovata poi libera dai suoi disturbi quasi senza accorgersi di essere stata curata. (…) In quest’ultimo caso [quello presentato al convegno] i risultati hanno superato ogni speranza. Io mi accontento di seguire i suoi risultati e di cercare di darmene una ragione, anche se, confesso, non sono riuscito finora a dare una ragione logica. Quello che ho constatato è che l’elemento veramente essenziale e indispensabile è stabilire un rapporto umano col paziente, mantenerlo e portarlo avanti. (…) Le questioni teoriche e di teoria della tecnica hanno un interesse relativamente secondario. Secondario sul piano pratico; è ovvio che sul piano poi della scienza e della psicoterapia è indispensabile anche questo momento. Ma sul piano della guarigione dell’ammalato ci si può arrivare lo stesso, senza capire sempre quello che si fa tecnicamente, purché si dedichi al paziente quella dedizione profonda che una persona come la dottoressa Neumann è in grado di dare» (Atti del II corso di aggiornamento su problemi di psicoterapia. La psicoterapia delle psicosi schizofreniche, pp. 199-200).
Il Gruppo Milanese per lo Sviluppo della Psicoterapia era improntato sulla pianificazione di una serie di interventi formativi per medici e psichiatri, per cercare di vincere le loro resistenze verso la psicoanalisi; una psicoanalisi pensata come metodo centrato sulla relazione e attento al controtransfert – qualcosa di impensabile alla SPI in quel periodo. Il gruppo era formato da colleghi critici sulle modalità istituzionali della formazione psicoanalitica, che rendevano gli analisti una specie di casta chiusa ai problemi sociali, agli strati sociali "inferiori" della popolazione, agli operai, e alle psicopatologie psichiatriche. Il modello per la formazione fu il metodo Balint. Una novità assoluta in quel periodo, in Italia: la discussione in gruppo dei casi clinici con l’approccio ai dati “per problemi”. Galli scoprì la tecnica dei gruppi Balint nel 1958 a Basilea leggendo il libro Medico, paziente e malattia, pubblicato in Italia nel 1961 da Feltrinelli con una sua preziosa prefazione basata sulla relazione, dal titolo “La medicina psicosomatica e il rapporto medico-paziente”, che aveva presentato al Simposio del Passo della Mendola (TN). Com’è noto, il metodo Balint nacque nel 1949 alla Tavistock, quando Michael Balint, con la seconda moglie Enid, provò a riunire e coordinare gruppi di medici generici nella discussione dei loro casi clinici. Il Gruppo Milanese per lo Sviluppo della Psicoterapia fu il primo in Italia a utilizzare il metodo Balint per la formazione degli psichiatri e dei medici generici. E alcuni analisti della SPI vi partecipavano. Ma lo facevano in gran segreto, perché Cesare Musatti si oppose al fatto che i membri della SPI (era direttore della sezione milanese) frequentassero il gruppo di Galli.
Al Passo della Mendola, presso il Centro di Cultura dell’Università Cattolica, Galli e Leonardo Ancona avevano organizzato nel 1960 un simposio sui rapporti tra psichiatria e psicologia cui parteciparono, tra gli altri, Edoardo Balduzzi, Silvio Brambilla, Danilo Cargnello, Marcello Cesa-Bianchi, Adamo Mario Fiamberti, Mario Gozzano, Giovanni Enrico Morselli, Cesare Musatti, Virginio Porta, Assunto Quadrio, Enzo Spaltro. Il convegno diede il via all’esperienza italiana dei gruppi Balint, tenuti a Roma dagli junghiani Mario Moreno e Gianfranco Tedeschi, a Genova da Franco Giberti e Romolo Rossi e a Bologna da Renzo Canestrari.
La strategia del Gruppo Milanese per lo Sviluppo della Psicoterapia si fondava sulla assunzione che Galli descrive così: «Operare a cuneo, partendo dal concetto dello psicoterapeuta come catalizzatore, cioè una figura oppure un gruppo che catalizza delle forze in modo che si orientino in una determinata direzione per poi scomparire, per cui il gruppo era costituito in modo da potersi dissolvere in qualsiasi momento. Non volevamo diventare un’istituzione permanente, di gestione, ma una istituzione di movimento che provocasse aggregati di forze. Questa è stata la nostra logica, la logica per cui non abbiamo voluto fare una scuola ma trasmettere uno stile di lavoro.» Visto in un’ottica politica, il gruppo seguiva il modello “movimentista” ed era contrario a quello partitico. Da questo stile di lavoro, ma non da questa logica, è nata la SPP.
Tra l’altro, era il momento storico giusto per introdurre in Italia testi di psicoanalisi e di psichiatria psicoanalitica già diffusi in altri stati europei e soprattutto in America. Ecco l’idea della collana "Biblioteca di psichiatria e di psicologia clinica" per Feltrinelli. Anche in questo senso, va sottolineato che Galli fu pioniere a introdurre in Italia le forme e le esperienze cliniche della psicoanalisi internazionale; e non solamente tramite le ricche proposte formative, ma anche attraverso iniziative editoriali che rimangono fondamentali nella cultura di tutti noi. Mi riferisco alle collane di libri per Feltrinelli e per Boringhieri (molti dei quali sono purtroppo, oggi, difficilmente reperibili) e, naturalmente, alla rivista Psicoterapia e scienze umane, senza dubbio tra le più prestigiose nel panorama nostrano delle riviste del nostro settore.
Negli anni sessanta la cultura scientifica italiana iniziò a superare i limiti del provincialismo in cui l’avevano confinata l’orientamento filosofico idealista (si pensi a Croce e Gentile), ma soprattutto il fascismo e la Chiesa cattolica. Erano gli anni del boom industriale fondato sugli sviluppi tecnocratici e del “miracolo italiano”; quegli “anni ‘60” che hanno rivoluzionato la cultura e il costume. E Milano, con la conquista dell’Amministrazione della città da parte della coalizione di centro-sinistra, svolse una funzione pionieristica per tutto il paese. I democristiani e il mondo cattolico milanese riuscirono a determinare l’apertura della Chiesa verso la modernizzazione culturale ed economica. La società civile fu stimolata, come non era mai successo precedentemente, da circoli culturali e da nuove riviste di diverso orientamento politico. Iniziava la sperimentazione a tutto campo di nuove politiche assistenziali e della cura. (Lo vedremo più avanti, quando accennerò a Basaglia, Piro, Jervis e così via). La scoperta degli psicofarmaci e la venuta, o il ritorno, in Italia di clinici e psicoanalisti formatisi all’estero (soprattutto in Svizzera, negli Stati Uniti e in Inghilterra) contribuirono a dare una spinta vitale allo sviluppo della psicoterapia. Era il momento opportuno per stimolare le Amministrazioni provinciali e i direttori degli ospedali a investire sulla formazione degli psichiatri, perché, come sosteneva Galli nell’incipit della relazione alla giornata di studio del 1966 sulla formazione degli psichiatri: «Curare psichiatricamente, con la psicoterapia, significa avere molti uomini capaci di farlo, e quindi, dal punto di vista della spesa pubblica, compiere il principale investimento sulla loro formazione.»
La Chiesa aprì alla psicoanalisi, anche se non a quella dichiaratamente freudiana (considerata “pansessualista”). All’apertura dei cattolici alla psicoanalisi, fortemente osteggiata da Gemelli, contribuì nel 1963 il libro La psicoanalisi di Leonardo Ancona, successore di padre Gemelli alla Cattolica. Cattolici erano i lacaniani Giacomo Contri e Armando Verdiglione, che studiò dai Gesuiti e poi in Cattolica. E molti nomi che hanno segnato la storia della psicologia, della psichiatria e della psicoanalisi. Oltre a Leonardo Ancona, Marcello Cesa-Bianchi, Giancarlo Trentini, Enzo Spaltro, Francesco Alberoni, Assunto Quadrio, e anche Pier Francesco Galli, diversi psicologi e studiosi di psicologia sociale fecero i primi anni di formazione all’Università Cattolica con Agostino Gemelli.
Ben presto i mass media si impossessarono dei termini psicoanalitici e una sottocultura psicoanalitica si diffuse nella piccola borghesia non intellettualizzata. Gli intellettuali, d’altro canto, rimanevano nella posizione ideologica di critica e rigetto della psicoanalisi. Ma in quegli anni presero il via pionieristiche proposte di liberazione della psichiatria dai limiti dell’organicismo neurologico. Molti neuropsichiatri dalla mente aperta avevano lavorato nella clinica universitaria di Carlo Lorenzo Cazzullo. Alcuni presero la via di Psichiatria Democratica, altri (ne è un esempio il nostro Medri) diventarono psicoanalisti. Cazzullo (1915-2010) fu il primo neuropsichiatra a ottenere la cattedra universitaria di Psichiatria. La prima in Italia. Era il 1959.
A conclusione di varie vicissitudini conflittuali con l’associazione dei neurologi, Cazzullo e colleghi riuscirono a scindere la Scuola di Specializzazione in Malattie Nervose e Mentali in due Scuole, di Neurologia e di Psichiatria, discipline che vennero riconosciute legalmente solo nel 1966 (ma la separazione definitiva tra neurologia e psichiatria fu decretata nel 1976). Gli insegnamenti della prima cattedra di Psichiatria in Italia erano comunque improntati sull’organicismo e sulla neonata psicofarmacologia. È vero che si stavano sperimentando in Italia le prime psicoterapie delle psicosi, ma le esperienze (benché clinicamente importantissime: si veda il lavoro di Berta Neumann a Villa Fiorita diretta da Virginio Porta) erano del tutto impopolari.
Mentre in Germania, in Francia, Svizzera, Inghilterra e Paesi Bassi, la psichiatria aveva ben recepito la psicoanalisi e i medici erano aperti a una formazione in psicoterapia già da qualche decennio, i medici e i neuropsichiatri italiani, in grandissima parte, erano resistenti a ciò che consideravano “innovazione”, tra cui la psicoterapia e la psicoanalisi. Anch’essi, non diversamente da molti psicoanalisti della SPI, si arroccavano su teorie già allora obsolete per proteggere il proprio ruolo di depositari del sapere. Per capire lo scenario, dobbiamo considerare che la psicoanalisi era appannaggio esclusivo della SPI. La SPI, unica detentrice dell’oro puro, assumeva un atteggiamento elitario, autoritaristico, esclusivista ed escludente nei confronti degli psicoterapeuti formati alla psicoanalisi con training esterni a quello istituzionalizzato. Tuttavia, come ho detto, proprio perché si stava diffondendo un certo disagio tra i neuropsichiatri, quando Galli fondò il gruppo a Milano molti di loro vi affluirono. La proposta del Gruppo Milanese per lo Sviluppo della Psicoterapia portava una ventata di aria nuova. Da un lato, però, gli analisti della SPI non potevano dire al loro didatta che partecipavano al gruppo di Galli, e dall’altro i neuropsichiatri che entravano in analisi non potevano farlo sapere ai primari con cui lavoravano. Alcuni psichiatri si erano infatti messi in analisi, ma l’oscurantismo dell’ambiente neuropsichiatrico continuò per diversi anni. Carlo Ravasini, ad esempio, allora assistente di Cesa Bianchi, era in analisi con Franco Fornari (1921-1985), ma non lo poteva dire ai colleghi con cui lavorava in clinica perché sarebbe stato dileggiato. Anni dopo, Sommaruga fece un’analisi con Galli, ma Dario De Martiis gli aveva consigliato di non farlo sapere a Cazzullo, direttore della clinica dove Sommaruga lavorava e De Martiis era aiuto primario. Anche l’analisi di Galli con Zapparoli, quando insegnava alla Cattolica, era “segreta”, e così la collega con cui lavorava era in analisi “segreta” con Fornari.
Gli anni sessanta segnarono grandi mutamenti e passi avanti nello sviluppo della psicoterapia e della psichiatria sociale in Italia, in una fase pionieristica all’inizio del decennio con isolate proposte di liberare la psichiatria dai limiti dell’organicismo neurologico, e poi, verso il sessantotto, sulle onde di un fiume in piena di rinnovamenti socioculturali. Per lo più, tuttavia, i mutamenti avvennero sulla base di iniziative individuali, dalle quali il Gruppo Milanese per lo Sviluppo della Psicoterapia si distingueva, perché tendeva a fare lavori formativi di gruppo. Inoltre era strategicamente improntato alla collaborazione teorico-clinica fra psicoterapeuti di vari orientamenti. Il dialogo interdisciplinare era già metodo di lavoro nel dibattito internazionale, ma era totalmente assente all’interno della SPI. Per fare un esempio, quando nel 1965 Diego Napolitani, Franco Fornari, Tommaso Senise e Pierfrancesco Galli proposero di fondare una società di psicoanalisi di gruppo (sulla scia di Siegmund Heinrich Foulkes, che aveva fondato l’analisi di gruppo nel 1952), la SPI vietò che si usasse il termine “psicoanalisi” per i gruppi, e nel contempo prese corpo, differenziandosi da quello di "psicoanalisi di gruppo", il concetto di "gruppoanalisi", introdotto da Foulkes e fatto proprio da alcuni psicoanalisti italiani interessati ai gruppi, che lo importarono in Italia. Tra questi Diego e Fabrizio Napolitani, che nei primi anni '80 fondarono la Società Gruppo Analitica Italiana (SGAI), che riuniva l'Istituto di Gruppo Analisi di Milano (IGAM) e l'Istituto di Gruppo Analisi di Roma (IGAR), nati nel 1974, in un'unica Società, centrata sulla gruppoanalisi foulkesiana, che si differenziò in modo rilevante dalla psicoanalisi.
La SPI, negli anni sessanta, aveva tre centri – due a Roma, diretti da Perrotti e Servadio, e l’altro a Milano, diretto da Musatti – e questi tre istituti erano spesso in conflitto tra loro. Tanto che nel 1962 l’IPA, la società internazionale di psicoanalisi, inviò in Italia tre supervisori (Morgenthaler, Parin e De Saussure) per ricucire i rapporti dei gruppi romani tra di loro e tra loro e quello milanese, e per riesaminare le modalità con cui si era svolto il training dei cinquanta membri della SPI, lavoro che terminò sei anni dopo, nel 1969. È precisamente in questo contesto – di opposizione ideologica della SPI, dei medici in generale e della neuropsichiatria alla declinazione pratica della psicoanalisi nel tessuto sociale e nella clinica psichiatrica – che prende le mosse quel processo di rinnovamento delle tendenze psicoterapeutiche e socioterapeutiche che sono storicamente fondamentali e da cui è nata la SPP.
Le esperienze socioterapeutiche e psicoterapeutiche comunitarie sorte nell’ambito della psichiatria negli anni ’60 sono molto interessanti e meritano approfondimenti che in questo contesto non potrò fare.
Nel 1961, l’allora direttore dell’Ospedale psichiatrico di Gorizia Franco Basaglia (1924-1980), con un gruppo di medici e di infermieri motivati, aprì le porte a un reparto per lungodegenti, ponendo le basi per la sua trasformazione in comunità terapeutica “autogestita” dai pazienti. Era la prima volta nella storia dei manicomi in Italia. A quella esperienza pilota ne seguirono altre: a Perugia, con Carlo Manuali nel 1965, poi a Nocera con Sergio Piro nel 1968 e, da lì, sempre sulla spinta politica delle lotte operaie e studentesche, le esperienze di deospedalizzazione e lavoro territoriale si diffusero a macchia di leopardo sul territorio italiano. Tra le più interessanti ci fu l’avventura iniziata e coordinata da Giovanni Jervis a partire dal 1969. Con Jervis lavoravano come psichiatri “sul territorio” anche Giorgio Antonucci (che ha scritto un bel libro: Il pregiudizio psichiatrico) e Eugenia Omodei Zorini (docente SPP), che si era formata con Galli, Cremerius, Benedetti, Neumann. Oltre a condurre psicoterapie individuali, Omodei Zorini organizzava incontri con i famigliari dei pazienti a domicilio, con i vicini di casa, i datori di lavoro, i sindacati e con tutte le persone e le figure di autorità che in un modo o nell’altro avevano a che fare con i pazienti psichiatrici. Cercava di evitare gli internamenti in manicomio secondo la linea iniziale del servizio diretto da Jervis e partecipò alle visite popolari (le “calate”) all’Ospedale psichiatrico S. Lazzaro di Reggio Emilia.
Nel 1961 Diego Napolitani aveva inaugurato a Milano una comunità terapeutica diurna gratuita per giovani psicotici. Analizzato da Franco Fornari, Napolitani era già esperto nell’analisi di gruppo sulla scia del già citato Siegmund Heinrich Foulkes. La comunità era una specie di Hospital Day per venti pazienti. Oltre al fondatore vi lavoravano uno psichiatra, un assistente sociale e un infermiere. Il tempo era scandito quotidianamente da riunioni, sedute di analisi di gruppo, sedute individuali, e lavoro manuale retribuito. L’esperimento terminò nel 1964, sconfitto dalle pressioni dell’Amministrazione Provinciale e della stessa Società di Psicoanalisi (SPI), che non accettava la coniugazione del lavoro di gruppo e la terapia analitica degli psicotici. Ma Napolitani non si diede per vinto e, tornato da un viaggio-studio presso le comunità di Maxwell Jones e di Thomas Maine, l’anno seguente fondò la comunità terapeutica Omega. Il nome della Comunità fu scelto in base alla posizione “omega”, l’ultima, nello schema sulla formazione di un gruppo di lavoro proposto dal terapeuta Raoul Schlinder (alfa: leader; beta: esperto; gamma: membro qualsiasi; omega: il membro più debole). Nel 1968, grazie all’appoggio dell’amministrazione provinciale, organizzò e diresse la comunità socioterapica Villa Serena, situata vicino all'Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano. Sotto la direzione di Napolitani lavorarono inizialmente tre medici – Gustavo Pietropolli Charmet, Franco De Masi, Maria Grazia Bernetti (ai quali si unì, tra gli altri, la mia analista Elena Schiller) – sette socioterapisti, e lo scultore omegnese Annibale Lanfranchi, che fece un magnifico busto di Napolitani incidendo alla base l’epigrafe leopardiana: “Sapere non più di tanto per poter immaginare”. E quando la comunità si aprì al territorio, al quartiere in cui era inserita, la Provincia di Milano riuscì a sottomettere la Comunità alla direzione dell’Ospedale Psichiatrico, che la inghiottì, col risultato che Napolitani e il suo gruppo di collaboratori furono costretti ad abbandonare l’esperienza.
Un’altra esperienza pionieristica di quel periodo fu la comunità terapeutica fondata a Roma nel 1963 da Fabrizio Napolitani, e supervisionata all’origine da Ignazio Majore, analista didatta radiato dalla SPI nel 1965.
Apro una parentesi. Nel 1965 Ignazio Majore e Claudio Modigliani (1916-2007) furono espulsi dalla SPI per “comportamento eticamente scorretto” (o per ragioni di natura teorica, secondo i diretti interessati). Claudio Modigliani aveva partecipato alla ricostruzione della SPI nel 1946 (con Perrotti, Servadio, Musatti e Tomasi di Lampedusa). Fu accusato di avere fondato con Bernhard, nel 1961, l’AIPA (Associazione italiana di psicologia analitica) mentre stava nella SPI. Tra i suoi allievi vengono ricordati Fornari, Jervis e Carotenuto. Tra i pazienti noti di Modigliani vi fu Vittorio Gassman (che racconterà qualcosa sulla propria analisi nel romanzo Memorie del sottoscala). Ignazio Majore si era formato a Roma con Servadio, a partire dal 1952. Nel 1960 diventò didatta. Con Majore fu in trattamento l’attrice e scrittrice Goliarda Sapienza, che fece un resoconto della sua analisi nel libro Il filo di mezzogiorno. La scrittrice racconta che l’analista riconduceva all’intrapsichico con interpretazioni accademiche tutto quello che lei diceva. Ma quel che più colpisce sono le importanti trasgressioni del setting. (Tra i vari resoconti autobiografici dell’esperienza analitica di pazienti non psicotici segnalo anche Le parole per dirlo di Marie Cardinal e La malattia chiamata uomo di Ferdinando Camon).
Tornando a Fabrizio Napolitani, durante l’analisi con Iracy Doile a Rio de Janeiro lavorava come assistente psicologo in una clinica psichiatrica privata. Nel 1957 decise di lasciare l’Argentina per la Svizzera, dove si formò con Ludwig Binswanger e Carl Gustav Jung. Binswanger lo nominò primario di un reparto della clinica Bellevue di Kreuzlingen, situata vicino alla spiaggia sul lago di Costanza e diretta dai Binswanger per quattro generazioni. Il Bellevue Sanatorium, chiuso nel 1980, è tra i luoghi che hanno segnato la storia della psichiatria e della psicoanalisi. Vi fu ricoverata nel 1882 Bertha von Pappenheim dopo il fallimento della psicoterapia con Josef Breuer (era la famosa Anna O.), presa in cura poi da Robert Binswanger nella stessa clinica. Otto Binswanger, zio di Ludwig, vi curò Friedrich Nietzsche nel 1921. Là Fabrizio Napolitani aveva trasformato il suo reparto in una comunità terapeutica che diventò una meta formativa di psichiatri e psicoanalisti italiani. La comunità si chiamava Villa Landegg ed era autogestita dai pazienti. Le assunzioni erano decise dall’assemblea dei pazienti, cui spettava l’accettazione o il rifiuto dei medici e degli infermieri che inoltravano domanda di tirocinio o di lavoro. La comunità ospitava anche diversi pazienti italiani. Mario Isotti aveva lavorato in quella comunità (Isotti ha scritto Amore mio nemico, un romanzo che attraversa la psicoterapia, andata a buon fine, con una ventiseienne schizofrenica). E lì, nel reparto diretto da Fabrizio Napolitani, Isotti aveva seguito personalmente un ragazzo gravemente ammalato di psicosi. Il padre del ragazzo – una persona della ricca borghesia milanese – fu talmente soddisfatto della modalità di trattamento che contattò Isotti e gli propose di fare una comunità simile in Italia. L’idea si avviò subito alla realizzazione, perché quel signore acquistò a Stresa, sul lago Maggiore, una stupenda villa e la arredò. La villa doveva diventare una comunità modello, diretta da Isotti sotto la direzione scientifica di Gaetano Benedetti. Tuttavia, il progetto non venne approvato dall’Amministrazione provinciale e non se ne fece nulla.
Come ho detto, all’inizio degli anni sessanta diversi analisti e allievi SPI dell’area milanese, ma anche esterni alla SPI, fecero le prime esperienze al Policlinico universitario con Cazzullo, a Villa Fiorita, all’Ospedale Psichiatrico Paolo Pini, alla clinica privata Ville Turro.
A Ville Turro lavorò Cesare Musatti (1897-1989) – fu in quel periodo che ebbe in trattamento analitico la poetessa Alda Merini (1931-2009) –. Musatti fu analista anche di Pasolini, di Ottiero Ottieri, di Ferdinando Camon (ma l’analista della “malattia chiamata uomo” non è Musatti: «Non molto costoso. Loquace. Un grande padre. Non immune da errori, anche gravi, anche gravissimi. Come, del resto, ogni padre. Musatti però stava lontano, dovevo fare tre ore di treno per l’andata e tre per il ritorno, e così dopo un po’, passata la buriana del primo transfert, concordammo, lui ed io, che si poteva continuare con uno più vicino, naturalmente membro della SPI, professore universitario, persona squisita, che sapeva impostare e condurre, e sfruttare, il transfert molto meglio di Musatti, praticamente senza il minimo errore. Questi abitava a trenta minuti di auto da casa mia. È il protagonista del libro» [1]). Camon fece un’esperienza analitica romana con Massimo Fagioli.
Attorno a Musatti si riunivano alcuni allievi del Centro milanese della SPI. Tra gli altri, lavoreranno a Ville Turro con Musatti Renato Sigurtà, Marcella Balconi, Franco Fornari, Mariangela Barbieri, Giovanni Carlo Zapparoli, Vittorio Emanuele, Pietro Veltri, Enzo Morpurgo.
Anche Elvio Fachinelli (1928-1989) fu in analisi con Musatti (dal 1962 al 1964). Fachinelli era un fuoriclasse della psicoanalisi italiana. Aveva lavorato con il fondatore e direttore della storica collana “Medicina e potere” per l’editore Feltrinelli, e fondatore nel 1972 dell’Associazione Medicina democratica, movimento di lotta per la salute, Giulio Maccacaro, e aveva partecipato con Enzo Morpurgo al Consultorio Popolare del quartiere di Niguarda. Il Consultorio forniva alla classe operaia psicoterapie gratuite e gruppi di discussione sulle cause sociali della sofferenza psichica. Con Morpurgo, Fachinelli aveva lavorato al pronto soccorso psichiatrico dell’Ospedale Niguarda (il Neurodeliri). Diversi testi di Freud, tra cui l’Interpretazione dei sogni, sono stati tradotti da Fachinelli. Nel 1969 fondò l’asilo autogestito di Porta Ticinese, di cui scriverà nel libro L’erba voglio. Pratica non autoritaria nella scuola. Nel 1971 fondò la rivista L’erba voglio, che chiuse nel 1977, e in seguito coordinò un gruppo di autoformazione, attivo negli anni 1974-1976, a cui parteciparono, tra gli altri, Sergio Benvenuto e Giorgio Gaber.
Villa Fiorita, a Brugherio, era un altro importante punto di riferimento per gli analisti negli anni sessanta, una clinica per pazienti benestanti diretta da Virginio Porta. Come già detto, vi lavorò Berta Neumann mentre si stava formando con Gaetano Benedetti al trattamento psicoanalitico delle psicosi.
Il Gruppo Milanese per lo Sviluppo della Psicoterapia organizzò diversi pionieristici eventi formativi. Il primo convegno fu il “corso di aggiornamento” al Museo della Scienza nel 1962, a cui subito aderì Franco Basaglia. Benedetti era rientrato in Italia per la prima volta dall’intervento chirurgico (neurinoma del nervo acustico) e al convegno relazionò sui rapporti tra psichiatria e psicoterapia. Ospite d’onore, con Benedetti, fu Silvano Arieti (1914-1981), che tenne una lezione sulla psicoterapia analitica delle psicosi schizofreniche. Arieti si era formato con Clara Thompson, Erich Fromm e Frieda Fromm-Reichmann al William Alanson White di New York. Esperto nel trattamento delle psicosi, ha curato i tre volumi del Manuale di psichiatria pubblicato da Boringhieri e ha scritto diversi libri, tra cui, Interpretazione della schizofrenia, Il sé intrapsichico, La depressione grave e lieve. Alla relazione tenuta da Arieti al Museo della Scienza nel 1962 seguirono gli interventi di Galli e Franco Fornari (che Galli aveva conosciuto nel 1956 a un congresso di psicologia alla Cattolica). La relazione di Fornari era incentrata sulla patologia depressiva e il pensiero di Martin Buber; Mara Palazzoli Selvini espose il suo punto di vista sulla psicodinamica dell’anoressia mentale; fu la volta, poi, di Leonardo Ancona, che fece una relazione sulla Psicologia dell’Io; Tommaso Senise parlò di psicoterapia e diagnostica degli adolescenti, Silvia Montefoschi del problema dei contrari nella psicologia di Jung, Enzo Spaltro di dinamica di gruppo e psicoterapia di gruppo; Fabrizio Napolitani raccontò la sua esperienza alla comunità terapeutica di Kreuzlingen, e infine Berta Neumann e Virginio Porta presentarono il caso clinico di una 26enne schizofrenica (che abbiamo incontrato più sopra), già seguita dal professor Porta e da questi inviata alla Neumann per una psicoterapia analitica che andò a buon fine.
Il successo del convegno tenuto al Museo della Scienza stimolò il gruppo di Galli a organizzarne un altro nel maggio dell’anno successivo, il 1963, questa volta incentrato sulla psicoterapia della schizofrenia, a cui parteciparono Gaetano Benedetti, Christian Müller, Silvia Montefoschi, Cazzullo con Demartiis, e Fornari. C’erano Enzo Codignola e Berta Neumann, che presentarono due casi clinici; e ancora: c’erano Enzo Spaltro, Mara Palazzoli Selvini, Giovanni Jervis, Pier Maria Brunetti.
Il Gruppo Milanese per lo Sviluppo della Psicoterapia iniziò a ingrandirsi e ad assumere un’identità sempre più precisa, a partire soprattutto dalla frequentazione costante di Severino Rusconi, Emanuele Gualandri, Giambattista Muraro, Silvia Montefoschi, Mara Palazzoli Selvini, Enzo Codignola.
Palazzoli Selvini, Emanuele Gualandri e Giambattista Muraro si erano formati a Basilea con Benedetti e Raymond Battegay; Codignola, con Binswanger a Kreuzlinger; Silvia Montefoschi e Severino Rusconi a Roma con Ernst Bernhard, che fu il primo a portare la psicologia analitica in Italia e merita qualche parola in più. Ernst Bernhard (1896-1965), fece analisi con Otto Fenichel (1898-1946), con Sàndor Rado (1890-1972) e con Carl Gustav Jung. Fu molto attivo in Italia, fin dal 1936. Ebreo, fu internato dai fascisti nel 1938 al campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia, in Calabria. Dopo la guerra riprese l’attività analitica a Roma, dove formò i primi allievi, tra cui Aldo Carotenuto, Claudio Modigliani e diversi altri che diffusero la psicologia analitica in molte città italiane. A Roma, Bernhard analizzò noti scrittori, registi e attori, come Federico Fellini, Giorgio Manganelli, Roberto (Bobi) Bazlen, fondatore della casa editrice Adelphi, Natalia Ginzburg (la quale testimoniò la propria esperienza analitica nel racconto “La mia psicanalisi”, pubblicato nel libro Mai devi domandarmi e in altre raccolte). La Ginzburg era entrata in analisi a trent’anni, caduta in depressione dopo la morte del marito. Bernhard, il suo analista, le chiedeva di portare in seduta un quaderno con i sogni e lei eseguiva il suo dovere all’ultimo momento, seduta al tavolino di un bar vicino allo studio dell’analista, «con l’affanno di una scolara che deve presentare il suo compito». Durante la seduta, Bernhard, alto, spalle strette, riccioluto con piccoli baffi, l’ascoltava fumando con un bocchino d’avorio in atteggiamento costante e prevedibile. Un giorno ci fu la rottura: la Ginzburg vide che il suo analista aveva un papillon al collo e, giudicandolo come «il più stupido segno di frivolezza» in un uomo austero come le era sempre sembrato, interruppe immediatamente l’analisi. Analizzati da Bernhard furono anche Mario Moreno e Gianfranco Tedeschi, che portarono il pensiero di Jung all’interno degli insegnamenti universitari. Nel 1961 Bernhard fondò l’AIPA (Associazione Italiana di Psicologia Analitica), la prima associazione junghiana in Italia. Nel 1965, dopo la morte del fondatore, l’AIPA attraversò una fase autodistruttiva: l’evento luttuoso aveva scatenato una lotta tra gli allievi, i “fratelli” di analisi, che si accusavano reciprocamente di aver tradito l’eredità teorica del fondatore. Il conflitto terminerà nel 1966 con la scissione dell’AIPA e la costituzione del CIPA. Silvia Montefoschi (che fu l’analista di alcuni membri del gruppo di Galli, tra cui alcuni fondatori della nostra SPP) si dimise dall’AIPA nel 1970.
______________________________________________
[1] Conversazione di Camon con Massimo Maugeri, 31 marzo 2009, in Letteratitudine, di Massimo Maugeri