Roberto Carnevali scrive: “Ciascuno fa quello che riesce a fare. Il perdono così concepito non arriva dal cielo, è molto terreno e imperfetto, con confini che continuamente sfumano e si modificano, è una ricerca che può non arrivare mai a un approdo sicuro, ma può gettare le basi per una strada percorsa insieme alla persona amata, dove i confini tra chi perdona e chi è perdonato si cancellano e spariscono, e dove si riprende a camminare insieme. E ringrazio Giovanni per aver portato una ventata di umiltà, nel senso più pieno del termine, alla ricerca che sta facendo su di sé, nella quale credo di potergli offrire, alla luce di questa scoperta, un aiuto più fecondo e umano”.
Sfumati e, soprattutto, individuali sono i confini tra colui che può essere perdonato e colui che può perdonare. Confini che si creano intrecciando situazioni all’interno delle quali “ciascuno fa quello che può”!
Ho letto lo scritto di Roberto sentendomi vicina alla possibilità di osservare il perdono e la vendetta attraverso vertici osservativi “altri” interessati alle differenti sfaccettature degli esseri umani.
Il perdono, così come viene generalmente significato, appartiene a quei vocaboli che definisco “vocaboli-verdetto” il cui significato mi appare eccessivamente saturo e scarsamente in contatto con lo spazio psichico individuale.
Osservando il perdono con lo sguardo che abita gli abissi psichici lo immagino, invece, un movimento emotivo squisitamente intrapsichico lungo il divenire trasformativo oscillatorio-separativo dell’esistere umano. Un doloroso e costante processo trasformativo di conflittualità psichiche che potrà sfociare in stati riparativi e di benessere emotivo assimilabili ad uno stato di perdono di sé. Aspetti simbiotici, quindi, versus aspetti luttuosi separativi in costante movimento trasformativo, un processo che potremmo assimilare alla quiete che segue la tempesta, una tempesta emotivo-relazionale intrapsichica da cui potrà scaturire una maggiore coesione del proprio Sé caratterizzata da un senso di riparazione e gratitudine avvicinabili al senso di perdono verso se stessi.
Senza scomodare teorizzazioni mi piace pensare al perdono come spazio psichico di incontro/scontro tra parti non sufficientemente separate e parti maggiormente differenziate rappresentabile attraverso il concetto “mors tua vita mea”, un divenire evolutivo che potrà sfociare in un sentire definibile “perdono del/tra Sé”.
Un perdono volto a parti simbioticamente colonizzate da primarie relazioni soffocanti che si sviluppa attraverso un costante processo esperienziale intrapsichico e/o sollecitato da eventi esterni, più o meno traumatici, co-responsabili della riesumazione di reperti relazionali dolorosi e frustranti rimasti sepolti.
Rivolgere il perdono all’esterno, a colui che ha arrecato sofferenza, penso appartenga ad un movimento proiettivo della mente scarsamente in grado di rintracciare movimenti separativi-riparativi nei confronti del proprio Sé.
Un po' come se l’esterno “altro” prendesse le sembianze di quell’interno “altro” difficilmente avvicinabile e trasformabile all’interno di un processo luttuoso.
Potemmo anche dire che nessuno ha il “potere” di perdonare nessuno, il perdono è una faccenda privata, una di quelle faccende che possono tenere “impegnata” una mente lungo l’intero arco della propria esistenza. Perdonar-si porta con sé, da una parte il “distanziamento” emotivo nei confronti dell’aggressore interno, inevitabilmente ciò comporta un distanziamento dagli aggressori esterni.
La possibilità di elaborare il dolore depressivo è il solo movimento psichico in grado di sviluppare un senso riparativo e di gratitudine all’interno di quell’Io anticamente tradito e ferito da interferenze emotive. Un individuo psichicamente separato non sentirà alcun bisogno di perdonare eventuali aggressori esterni, questi rimarranno tali insieme alle azioni da loro attuate. Una mente capace di riparare procederà nel processo della digestione di “detriti” antichi anche laddove incontrerà dolorosi detriti esterni, venendo così a costituirsi una commistione di vecchie e nuove “digestioni” facenti parte del processo separativo-riparativo nei confronti dei torti subiti.
Al contrario una mente colonizzata da antichi trapianti interni non sufficientemente separati, difronte a dolorosi attacchi esterni potrà percepire il bisogno di portare fuori da sé il “perdono” verso i colonizzanti aggressori. Un perdono che, in qualche modo, appare “monco” di elaborazioni/trasformazioni di aggressività, movimento che invece sarà parte integrante della conflittualità intrapsichica separativa tra parti fusionali e parti differenziate: “mors tua vita mea”!
La sofferenza separativa sperimentata da Giovanni, il paziente di Roberto, sembra aver sollecitato ombre conflittuali interne legate ad aspetti separativi/luttuosi rimasti confusi, ma presentati all’interno della stanza di terapia.
Giovanni appare capace di usare lo spazio terapeutico sperimentando scottanti aggrovigliamenti caratterizzati da timori, rabbie e impotenze, stati d’animo che abitano aree depressive potenzialmente capaci di movimenti separativi dentro di sé.
Una sofferenza, come sottolinea il suo terapeuta Roberto Carnevali, dal sapore umile caratterizzata da movimenti osservativi e trasformativi, innanzitutto, rispetto alle proprie dinamiche relazionali intrapsichiche.
Giovanni appare, infatti, capace di sostare nella sofferenza separativa evitando di imbavagliarla dentro di sé. L’altro esterno esiste e compie azioni che possono ferire, addolorare e far sentire molta rabbia e impotenza, non silenziando e/o annientando le proprie responsabilità, bisogni, disattese e incoerenze. Lo psichismo di Giovanni sembra potersi rappresentare attraverso uno spazio psichico sufficientemente differenziato e avulso da qualsiasi spinta legata al sentimento della vendetta. La vendetta appare un sentimento potenzialmente rintracciabile all’interno di funzionamenti psichici prevalentemente proiettivi funzionali a “tenere in vita” una mente tradita, offesa, persecutoria, ma al contempo incapace di trasformare dentro di sé tali mal-tolti subiti, aguzzini e colpevolezze. Sarà l’impossibilità a “perdonarsi” che farà scatenare eventuali sentimenti di rivendicazione verso l’esterno.
Sappiamo che vendicare esternamente un torto subito non allevierà la ferita interna subita, al contrario la rabbia agita attraverso la rivendicazione non farà altro che esacerbare le profonde ferite, frustrazioni e impotenze ritardando e/o evitando un personale processo riparativo.
La spinta a perdonare l’altro esterno, ritengo, sia differente dalla possibilità riparativa di metabolizzazione della sofferenza derivata dal sopruso esterno nel proprio intrapsichico. Una violenza subita, un dolore esterno, una traumaticità sperimentata per cause esterne, sempre, saranno rappresentazioni del processo di perdita, “strappi” più o meno violenti che si depositeranno all’interno del sentire psichico permanendo come esperienze traumatiche.
E certamente la sopravvivenza psichica dell’uomo unita alle “traumatiche” violenze che l’uomo sa infliggere e, al tempo stesso, patire tracceranno le infinite possibilità comportamentali dell’esistere umano.
Ciascuno, infatti, è ciò che ha emotivamente respirato all’interno di quel primario ambiente relazionale dove, per dirla alla Bion, avrà sperimentato quel “primo curriculum di apprendimento” affettivo-relazionale responsabile dell’originarsi di impronte affettive intrapsichiche, basi per le infinite dinamiche relazionali.
Infine, sentire il bisogno di essere perdonati da coloro a cui si è arrecata sofferenza mi appare un “bisogno” che parla di un Sé simil-simbiotico, un movimento difensivo funzionale a tenere “silenziate” emozioni non avvicinabili.