Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 27
2 - 2022 mese di Dicembre
FORMAZIONE
LA SUPERVISIONE NELLA SCUOLA DI PSICOTERAPIA PSICOANALITICA SPP
di Anna Sordelli

Questo articolo è la versione in italiano della relazione Supervision in the Psychoanalytic Psychotherapy School”portata dall'autrice  al Congresso:

Psychoanalytic theories and techniques: dialogue, difficulties and future. 60th anniversary of the IFPS – XXII International Forum of Psychoanalysis organized by the Centro Psicoanalítico de Madrid – 19 to 22 October 2022

nel panel The beginning of the impossible profession: Experiences of young therapists”.


In questo mio breve intervento vorrei portarvi alcuni pensieri derivanti dalla mia esperienza di supervisore nella Scuola di Specializzazione SPP di Milano.

Nel corso di questo lavoro mi sono sempre più resa conto di quanto la supervisione sia strumento importante nella formazione, strumento che richiede impegno e continuità, fatto di momenti di studio, riflessione e condivisione emotiva tra un analista già formato e un giovane collega. Nel momento in cui un allievo chiede una supervisione infatti, si incrociano e nei casi fortunati si incontrano, la domanda istituzionale formativa della scuola che richiede un apprendimento teorico e una dimensione più privata fatta di stati d'animo e di emozioni intense attivate dall'esperienza clinica che coinvolgono e in alcuni casi invadono, il giovane terapeuta.

Come supervisore mi sono dovuta confrontare con alcuni temi importanti sia dal punto di vista teorico che clinico. Nell'attualità, dal punto di vista teorico assistiamo alla evoluzione e al superamento di alcune " certezze" del passato che in alcuni casi puntualizzavano rigide differenze tra le diverse scuole analitiche creando a volte contrapposizioni conflittuali, che tuttavia assolvevano una funzione di contenimento e di identificazione sicura per chi si riconosceva in esse.

 Questo cambiamento si declina anche nella dimensione clinica in cui i giovani terapeuti si trovano a dover \ poter lavorare, che impone la ricerca di nuove modalità, più compatibili con il mondo di oggi. Ricordo prima fra tutte la frequenza realistica delle sedute che si possono effettuare, condizionata da limiti di tempo e denaro dei pazienti rispetto al passato, che spesso non corrispondono ai canoni classici di un lavoro analitico. Il supervisore si trova così a dover "salvare" la sua funzione di formatore analitico in contesti di realtà molto diversi dal passato che spesso non consentono anche nella tecnica la riproposizione di regole e stili consolidati.

Mi sono trovata impegnata nel lavoro con gli allievi, spesso in contesti difficili a salvaguardare la identità analitica in cui mi riconosco, mantenendo però viva in me e nel mio lavoro con loro la possibilità di nuove scoperte e cambiamenti, senza negare in modo difensivo alcune evoluzioni importanti della teoria e della tecnica spesso non procrastinabili, in un mondo in continua evoluzione.

Tutto questo "dover cambiare" naturalmente non ha solo valenze positive; ad esempio dover fare i conti con una realtà istituzionale non sempre benevola nei confronti di un lavoro analitico che spesso caratterizza le strutture in cui gli allievi si trovano a dover operare, attiva anche nel lavoro di supervisione una conflittualità che può apparire insanabile rispetto al desiderio di proporre una formazione analitica in realtà spesso del tutto aliene e ostili rispetto a questa modalità di lavoro.

Gli elementi di realtà delle strutture in cui i giovani lavorano spesso sembrano limitare grandemente le possibilità terapeutiche in senso analitico. La valutazione sui limiti reali con cui ci si deve confrontare può essere tuttavia molto utile; una riflessione in supervisione può evidenziare elementi importanti che consentano, anche dove non sembrerebbe possibile, di affrontare in contesti diversi allo studio privato un modo analitico di lavoro; ricordo a questo proposito il recente lavoro di Monari sulla psicoanalisi once a week.

Due mi sembrano i rischi principali di cui il supervisore deve tenere conto: un arroccarsi in una purezza teorica e di Setting spesso utilizzata difensivamente che porta a prendere in supervisione solo pochissimi e scelti casi, o all'opposto il rischio di perdere la propria identità di formatore analitico e identificandosi totalmente con le difficoltà oggettive in cui gli allievi si trovano a dover operare, colludere per eccesso di empatia con loro, privilegiando totalmente il "fare" in un lavoro senza pensiero.

Come ricordavo i cambiamenti tecnici resi necessari dalle diverse situazioni soprattutto istituzionali in cui i giovani si trovano a dover operare, rischiano infatti, se non ben monitorate da analisti più formati, di scardinare alcuni punti fermi della tecnica e di attivare inconsapevolmente modalità da parte dei giovani connotate da eccesso di intuitività oblativa e onnipotente mossa dal desiderio di aiutare il paziente.

In questi casi si corre il rischio di privilegiare un eccessivo eclettismo, senza l'integrazione vitale nel lavoro clinico con un pensiero.

 Rispetto a queste tematiche nel lavoro di supervisione cerco di aiutare gli allievi a non utilizzare difensivamente la teoria ma a riconoscerne i confini che questa impone; a non ignorarla seguendo il proprio desiderio, ma ad utilizzarla come limite buono, guida preziosa e vitale in modo da non destreggiarsi pericolosamente, come viaggiatori inesperti e non bene equipaggiati tra le rapide di un fiume impetuoso, a seconda dell'estro del momento.

 Per esemplificare la possibilità di un uso prezioso e creativo di una teoria in evoluzione e a un cambiamento tecnico imposto dalla realtà del contesto, mi sembra emblematica l’immagine della "culla di spago" citata da Barale in un recente lavoro come metafora che esprime la capacità di cambiare forma e modo di attualizzarsi della teoria e della pratica clinica, mantenendo nell'attualità del cambiamento, alcuni elementi teorici e tecnici fondamentali che sono la base del nostro lavoro e che si modificano nel tempo senza perdersi. Il pensiero analitico scrive Barale, si manifesta con intrecci e modalità diverse rispetto al passato ma la corda di cui sono fatti gli intrecci è la stessa; le forme nuove sono possibili in quanto derivano da quelle precedenti. Questo atteggiamento interno definibile anche come "superare mantenendo" le teorie del passato, credo rispecchi un atteggiamento analitico vitale, importante da proporre anche nel lavoro di supervisione e non solo nel lavoro più strettamente clinico con i nostri pazienti. Superare mantenendo anche dentro di noi alcune teorie del passato, facendole vivere in modo creativo, non come assiomi intoccabili, penso sia un modo di pensare e di lavorare molto utile per aiutare i nostri allievi in una dimensione di crescita più profonda non solo fatta di apprendimenti consci.

Questo atteggiamento potrà naturalmente riverberarsi nella dimensione clinica anche con modalità diverse rispetto al passato, senza tradire lo spirito analitico.

 Chiunque abbia esperienza clinica sa infatti quanto sia importante una formazione fatta di studio e di lavoro su sé stessi per un uso intelligente e non sterile della tecnica, da utilizzare poi nella specificità con il singolo paziente.

Quanto detto sin qui deve, specie con gli allievi all'inizio del training, confrontarsi e contenere l'urgenza che spesso connota la domanda di supervisione.

 Anche se spesso la richiesta da parte degli allievi è quella di avere specifici consigli tecnici indirizzati al cosa fare, un atteggiamento ricettivo contenitivo da parte del supervisore mi sembra premessa importante e strumento utile per entrare poi con l'allievo nella specificità della relazione con quel singolo paziente, placando quando è il caso, le ansie dei giovani colleghi. Si potrà così attivare una riflessione condivisa sul funzionamento intrapsichico del paziente, sul suo relazionarsi in seduta, sui vissuti che attiva nel terapeuta, in una dimensione di buona alleanza di lavoro.

Accanto e attraverso l'ascolto della dimensione transferale e controtransferale attivata dalla relazione con il paziente, sembra importante promuovere una consapevolezza diagnostica non troppo vaga perché i terapeuti in formazione non incorrano in errori di valutazione e in un uso non appropriato di elementi di tecnica che potrebbero compromettere il lavoro o in casi estremi danneggiare il paziente.

Per quanto riguarda la dimensione evolutiva del transfert con un terapeuta che consenta anche un diverso accoglimento rispetto agli oggetti interni del passato, la supervisione si rivela molto utile per i giovani facilmente tentati dall'idealizzazione.

 Vorrei avviarmi alla conclusione ricordando come nella relazione con i pazienti anche nel lavoro psicoterapico la dimensione inconscia sia sempre presente, anche se a volte non riconosciuto. Succede infatti anche ad un terapeuta formato che un paziente irrompa improvvisamente nella mente anche fuori dallo spazio di lavoro, facendolo sentire invaso, angosciato, perseguitato. A tutti noi è accaduto di accorgerci, con incredulità mista a paura, di scaricare e agire inconsapevolmente quanto i pazienti proiettano in noi o di assorbire senza consapevolezza le loro paure e angosce.

La vicinanza alla sofferenza mentale infatti non è cosa facile da reggere a qualsiasi età e in qualsiasi fase del nostro percorso formativo, tanto più in fase iniziale.

Il lavoro di supervisione connotato come spazio \ Setting reale, fatto di tempi, orari e frequenze condivise, si pone come luogo esterno e interno della mente finalizzato a contenere questi vari aspetti. Ricordo quanto scrive J. Greenberg sul fatto che il lavoro di supervisione consista non tanto nell' insegnare cosa sia giusto fare o pensare ma nell'aiutare gli allievi a imparare a "come" pensare, attivando una funzione analitica della mente nell'ascolto di sé impegnato nella relazione con quello specifico paziente, "con passione e scetticismo", ricordando che c'è sempre qualcosa di inconscio che sfugge alla nostra totale consapevolezza. Comprendere la domanda o quanto il paziente ci sta inconsapevolmente dicendo, al di là dell'attualità del disagio, ricordando la lezione freudiana della dimensione comunicativa del sintomo, deve essere una funzione importante della mente del terapeuta, verso cui la supervisione deve tendere, aiutando gli allievi ad una maggiore capacità di sintonizzazione e di ascolto degli oggetti interni del paziente.

 Proporre in supervisione un atteggiamento di alleanza / neutralità benevola e ricettiva credo possa aiutare l'allievo a sentirsi libero di riconoscere prima e di esprimere e condividere poi con il proprio supervisore, le proprie incertezze, resistenze, paure e difficoltà. Questo atteggiamento mi sembra premessa essenziale per aiutare il terapeuta in formazione a porsi in una maggiore libertà e tranquillità nell'ascolto di sé e del proprio paziente nella relazione terapeutica, per attivare la capacità di ascolto del proprio controtransfert ed essere in seduta con un autentico atteggiamento analitico, senza farsi coinvolgere soltanto nel qui ed ora, privilegiando magari eccessivamente la costruzione di alleanza terapeutica che deve essere mezzo e non fine del lavoro psicoterapico.

Naturalmente la differenza tra una supervisione e una terapia deve essere chiara nella mente dei due partecipanti, senza confusioni. Tuttavia questo atteggiamento ricettivo, sperimentato in supervisione credo possa aiutare i giovani terapeuti, insieme alla dimensione di studio, a costruire un proprio stile terapeutico, una identità di lavoro più completa e integrata, fatta non solo di competenza tecnica.

 

 

Bibliografia

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Greenberg J. , Training psicoanalitico e attitudine psicoanalitica, Rivista di psicoanalisi 2021, LXVII, 1.

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Nicolò A.M., Note sul cambiamento della tecnica in psicoanalisi, Rivista di Psicoanalisi 2019, LXV, 4.

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Sordelli A, Esperienza di lavoro di supervisione in una scuola di psicoterapia, in Maschietto S., Giacobbi S., L’inizio del mestiere impossibile: Esperienze di giovani terapeuti. NeP edizioni Srls di Roma (RM), novembre 2021.

Turillazzi Manfredi S. (1994), Le certezze perdute della psicoanalisi clinicaRaffaello Cortina, Milano, 1994.

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