Con queste considerazioni cerco di dare una risposta al quesito che pone Alfredo Civita sulla possibilità di applicazione della psicoterapia, e in particolare di quella a orientamento psicoanalitico, nell'istituzione psichiatrica, nella quale lavoro dal 1977, e dal 1979, con l'entrata in vigore della legge 180, sempre nello stesso servizio territoriale.
Se la domanda fosse stata posta qualche anno fa, prima dell'aziendalizzazione delle Unità Socio-Sanitarie Locali (USSL), diventate per l'appunto Aziende Sanitarie Locali (ASL) e degli Ospedali diventati Aziende Ospedaliere (AO), la mia risposta, per ciò che riguarda la psichiatria, che una volta faceva capo all'USSL e invece oggi fa parte dell'AO, sarebbe stata più possibilista, perché il rapporto numerico tra operatori e pazienti, in particolare per ciò che riguardava gli psicoterapeuti ma non solo, si fondava su parametri ben più favorevoli rispetto a quelli attuali, e lavorando con continuità e assiduità era possibile venire incontro alle esigenze della popolazione senza lunghe liste d'attesa o criteri di accoglimento eccessivamente restrittivi rispetto alla gravità e al tipo di patologia di chi richiedeva un intervento psicoterapeutico.
Oggi le cose sono molto cambiate, e anche volendo andare incontro il più possibile alle richieste dell'utenza è necessario come minimo ottimizzare i tempi e gli spazi, perché il criterio “economico” la fa da padrone. Nella logica aziendalistica l'intervento ha da essere commisurato a una sorta di “produttività” che lo giustifichi, per permettere un utilizzo ottimale delle risorse, reso tanto più necessario dalla crisi economica e dai tagli che recentemente hanno colpito la Sanità a livello dei finanziamenti statali.
Ho dato vita al mio primo gruppo terapeutico a orientamento gruppoanalitico (riferimenti teorici in particolare S. H. Foulkes e Diego Napolitani) nel 1983, nel servizio psichiatrico in cui ancora oggi lavoro, e attualmente conduco tre gruppi e ne sto facendo partire un quarto, per la prima volta con un criterio specifico di accoglimento fondato sulla gravità della patologia psichiatrica dei partecipanti.
Quando ho iniziato non pensavo al criterio economico; la situazione era tale da permettermi di effettuare terapie a orientamento psicoanalitico di lunga durata anche con pazienti trattati individualmente. Il mio interesse per la gruppoanalisi e lo sviluppo della mia formazione e delle mie riflessioni andavano però sempre più verso la ricerca di una modalità efficace di cura “attraverso il gruppo”, e col trascorrere del tempo mi accorgevo che ai pazienti che “sentivo” di più, e rispetto ai quali ritenevo di poter lavorare a fondo in senso analitico, pur nel contesto istituzionale, arrivavo a formulare la proposta di un inserimento in gruppo, e devo dire di aver constatato che in molti casi tale inserimento diventava l'occasione per una svolta, in senso favorevole, a livello terapeutico, introducendo significativi elementi trasformativi. I tempi erano comunque lunghi ma, essendo il gruppo in sé una modalità economicamente vantaggiosa, accadeva che rispetto a pazienti in terapia da alcuni anni e per i quali, in un setting individuale, esisteva una sollecitazione istituzionale alla risoluzione del rapporto psicoterapeutico, l'inserimento in gruppo rappresentasse una possibilità di protrarre il percorso terapeutico ancora per un tempo relativamente lungo, permettendo un lavoro sul profondo che solitamente in istituzione non viene neppure concepito.
Nell'attualità mi trovo, come ho detto, a condurre tre gruppi terapeutici di otto persone ciascuno, e ne sto facendo partire un quarto, per il quale ho già in corso i colloqui preliminari con i candidati a parteciparvi. Il setting è quello classico gruppoanalitico, consistente in sedute settimanali di due ore consecutive con un breve intervallo. Mentre per le terapie individuali è impensabile proporre una cadenza di più di una seduta la settimana, e dunque rispetto a una psicoterapia psicoanalitica si è costretti a tenersi al minimo consentito per poterla denominare in tal modo, il setting gruppale non è differente rispetto alla pratica privata, e si ha dunque la possibilità di offrire un contesto e una modalità che non richiedono alcun “accomodamento” alle esigenze restrittive connesse alla prassi istituzionale e ai suoi criteri; si ha anzi il vantaggio di un esborso estremamente contenuto, essendo per di più il “ticket” soggetto a riduzione per cicli di sedute.
Il criterio economico, come ho detto poco più sopra, non è stato il movente per la mia scelta del gruppo come modalità terapeutica elettiva; ora però mi ritrovo a godere dei vantaggi di questa scelta, potendo gestire un numero di pazienti estremamente elevato in un numero di ore estremamente ridotto (quando i gruppi saranno tutti al completo - e manca pochissimo - si avrà un numero di 32 distribuiti su 8 ore settimanali) e questo consente di non preoccuparsi troppo di porre scadenze a breve, come invece da un po' di anni a questa parte è diventato necessario nelle terapie individuali, configurando una modalità “d'appoggio” e fondata prevalentemente sulla remissione della fase acuta anche per uno psicoterapeuta istituzionale di orientamento psicoanalitico.
Anche per ciò che riguarda la struttura del gruppo esiste un criterio clinico tale per cui la varietà della patologia e del suo livello di gravità diventa funzionale allo svilupparsi di un proficuo confronto, nel quale la funzione riflessiva si fonda sulla diversità delle esperienze, che permette un'interpretazione degli aspetti proiettivi e collusivi che si animano nell'interazione tra i pazienti. In ciascuno dei tre gruppi già in essere sono dunque presenti almeno tre pazienti che sono passati attraverso l'esperienza psicotica con ricovero in SPDC, con altri che hanno una vita di relazione più “adattata” rispetto ai criteri dell'inserimento sociale. Il gruppo che sta nascendo si fonda su un criterio nuovo, e sarà composto di tutti pazienti “gravi”, con almeno un episodio psicotico nella loro storia; che io sappia, non è ancora stata fatta un'esperienza di questo genere nel privato, ma ritengo che questa “sfida” con qualche carattere di sperimentalità vada vista nei suoi aspetti propositivi di raccolta di opportunità per crescere e far crescere una tecnica, opportunità che solo l'istituzione può dare, anche per gli aspetti contenitivi strettamente connessi al lavoro in équipe.
Credo di aver portato argomenti sufficienti per rispondere in questo modo al quesito di Alfredo Civita: è possibile la psicoterapia in istituzione, purché venga studiata una modalità che tenga conto delle esigenze dell'istituzione e si contestualizzi in un modo che risulti funzionale a tali esigenze, salvaguardando comunque le caratteristiche relative ai fondamenti teorici e alla prassi clinica dell'orientamento dello psicoterapeuta, in modo da riuscire a offrire una prestazione di qualità. La modalità che ho trovato, e che mi risulta più congeniale, è quella del setting di gruppo, ma ritengo che le possibilità possano essere anche altre, purché avvenga una riflessione metodologica nel senso or ora indicato.