Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 26
1 - 2022 mese di Giugno
CLINICA – IL CONTESTO SOCIOCULTURALE
RICORDO DI GUIDO SALA, UN MAESTRO DI CLINICA E DI CRITICA DELLA CLINICA
di Secondo Giacobbi

Quindici anni fa (2007) moriva Guido Sala, una figura eminente della psicologia clinica milanese, un maestro che ha segnato in modo forte e originale la storia della psicologia e della psicoterapia italiane della seconda metà del Novecento.
Guido nasce a Milano nel 1944. Al termine del liceo si iscrive alla facoltà di Filosofia della Statale di Milano, dove incontra Cesare Musatti, di cui sarà allievo e, poi, interlocutore. Dopo la laurea, frequenta per alcuni mesi la fabbrica Olivetti di Ivrea, uno dei luoghi mitici della cultura italiana dei primi anni sessanta. A Ivrea Guido scriverà un originale lavoro di ricerca, Problemi metodologici della psicologia del lavoro, che segnalo perché rivela il suo precoce interesse per gli aspetti metodologici della Psicologia (e, poi, della Medicina). Poco dopo si apre a Milano, presso la facoltà di Medicina della Statale, la specializzazione in Psicologia, diretta dal professor Marcello Cesa Bianchi, con cui Guido avvierà una collaborazione che continuerà per tutta la sua vita. Inizia a svolgere l’attività di psicoterapeuta e, a fine anni sessanta, ottiene la direzione del neo-nato Centro di Psicologia del Comune di Busto Arsizio, che Guido ridisegnerà profondamente, aprendolo anche alla possibilità, per l’intera popolazione locale, di una consultazione psicologica diretta. Nel frattempo si occupa della formazione di un gruppo di lavoro nel quale inserisce anche un medico generico e una neuropsichiatra, Aurelia Dell’Acqua, che diverrà la sua compagna di vita. La formazione del clinico e l’organizzazione del gruppo di lavoro saranno un altro grande interesse della vita di ricerca che Guido stava avviando. Nonostante la familiarità con Musatti, Guido non fu interessato a un training psicoanalitico e, da subito, si ritenne uno psicologo clinico libero da qualsiasi appartenenza di Scuola. Altra importante figura di riferimento fu per lui Enrico Poli, autore del testo Metodologia medica. Principi di logica e pratica clinica (1965) da lui costantemente indicato come una lettura fondamentale, sia per medici che per psicologi. G. Sala fu uomo di una profonda cultura, mai esibita, ma che si avvertiva in lui, pur nella semplicità e chiarezza del suo discorso didattico e clinico. Del resto egli raccomanderà sempre agli psicologi di coltivare anche letture di filosofia, di storia, di antropologia. Autore sempre indicato nelle sue bibliografie fu Giorgio Cosmacini, autorevolissimo e disincantato storico della medicina e della sanità italiane. E, ancora, Foucault e Illich, autori illuminanti per Sala, di cui peraltro non fu mai un lettore acritico. Dall’inizio degli anni Ottanta avrà una sua carriera di docente e cattedratico presso varie Università, prima in Sicilia (facoltà di Medicina), poi ad Urbino, ove divenne direttore dell'Istituto di Psicologia, e infine a Verona. Continuerà a nutrire la funzione di docente con una grande disponibilità al dialogo nei confronti dei suoi allievi. Nel frattempo continua a studiare e a scrivere. Si ammala a 64 anni e muore un anno dopo. Vive la malattia con lucidità e forza morale e si spegne serenamente nella sua casa milanese nel settembre 2007, circondato dai familiari e dagli amici più stretti.
Tra i suoi scritti, segnalo, tra i più significativi:

Prospettive e rischi dell’incontro tra medico e psicologo all’interno della struttura ospedaliera (1981).
Elogio dell’ignoranza nella relazione terapeutica in psicoterapia (1989).
Medicina e psicologia fra potere e impotenza (2009).

La ricerca e la riflessione di Guido Sala si sono concentrate su due filoni: metodologia e deontologia della pratica medica, da un lato e, dall’altro lato, la metodologia della psicologia clinica. Sono due filoni, come vedremo, fortemente connessi. G. Sala  come pochi altri, e con particolare forza e lucidità (addirittura “profetica” se pensiamo a come i processi da lui analizzati sono andati ulteriormente avanti nei quindici anni successivi alla sua morte) ha severamente criticato due processi che hanno trasformato la pratica medica e la sua metodologia negli ultimi cinquant’anni: la sempre più pervasiva medicalizzazione della società e la progressiva consegna del procedimento clinico, precedentemente centrato sul rapporto medico/paziente, alle procedure di accertamento diagnostico della tecnologia medica: “le macchine hanno sostituito l’uomo. Si trascura la dimensione storica del malato, l’approccio clinico diventa frettoloso, gli esami di laboratorio, da complementari al ragionamento clinico diventano prioritari” (Sala, Medicina e psicologia, tra potere e impotenza, p. 18).

E sul processo di medicalizzazione crescente sempre più attivamente orientato a “terapeutizzare” qualsivoglia problema, scrive: 
“Oggi la salute è diventata la definizione stessa della vita (da mezzo si è trasformata in fine) e la scienza (e per essa in primis la scienza medica) ha assunto a sé il diritto di indicare il senso della vita” (idem).
La salute, come del resto la vita, la “nuda vita” come alcuni l’hanno definita, da valori prioritari sono diventati valori assoluti, “con il risultato che alla fine è la vita stessa a dover essere curata e guarita” (p. 124). 
La riflessione clinica di Sala si fonda su solide e documentate basi storiche, tant’è che tale riflessione ripercorre spesso la storia della medicina e della società, di cui coglie talora con spietata lucidità le ambigue connessioni, come traspare nelle seguenti parole di eco foucaultiana.
“La medicina moderna nasce agli inizi dell’Ottocento con la diffusione degli ospedali; si crea un mutuo scambio tra ricchi e poveri. I primi con le loro donazioni forniscono un letto e un piatto di minestra per morire, i secondi in cambio offrono il lor corpo e la loro malattia da studiare” (p. 134).
Anche la nota definizione di salute formulata dall’OMS, per la quale la salute “è lo stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplicemente un’ assenza di malattia o infermità”, una definizione così entusiasticamente recepita negli ambienti ufficiali medici e psicologici, “corrisponde a pieno allo sconfinamento della medicina al di fuori del suo campo tradizionale della malattia e alla sua estensione alla condizione di salute, finalizzata  […] ad affermare il suo dominio sull’intero ciclo della vita biologica”.

E citando l’indimenticabile Giulio Maccacaro, medico e scienziato, osserva che la straordinaria campagna medica finalizzata alla diagnosi precoce, pur utilissima, non può in realtà essere considera medicina “preventiva” bensì medicina “predittiva”, poiché, osserva Maccacaro “la vera prevenzione va indirizzata nel sociale e nel politico.” (Maccacaro G.A., 1976,"Vera e falsa prevenzione", articolo su Sapere 2, 794).
Ma, commenta Sala, “qui entrano in gioco le tante agenzie che rappresentano l’industria della salute (in primis le case farmaceutiche, i produttori di strumenti di consumo sanitario, le grandi case di cura, le compagnie assicurative”) (p 139). E “viene del tutto dimenticata, anzi negata, l’antica legge medica che diceva “il medico non varchi mai la soglia se non è chiamato” (idem).
Personalmente ricordo come nel bellissimo film di Bergman Il posto delle fragole, che ha come protagonista un vecchio medico, veniva detto che “il primo dovere del medico è di chiedere perdono, proprio in relazione al carattere intrinsecamente intrusivo e invasivo del ruolo medico (e, aggiungo, del ruolo psicologico). 
Ma è il rapporto medico/paziente che si è profondamente incrinato, laddove il prevalere della macchina sull’uomo induce il medico a rinunciare a uno sforzo di inquadramento diagnostico che sia anche sforzo di comprensione della persona, pensata anche nel suo contesto di vita. Così è caduta anche, perlopiù, in disuso l’esplorazione, cauta e rispettosa, del corpo del paziente: il medico quasi non visita più, ma si limita spesso ad ascoltare dal paziente il “racconto” dei suoi sintomi. 

Ora, accompagnando G. Sala nell’estensione della sua disamina critica della clinica dalla medicina alla clinica della psicologia, tutto farebbe supporre che questa, e in particolare le psicoterapie, siano al riparo dai processi sociali, tecnico-scientifici e, soprattutto economici che hanno trasformato profondamente la clinica medica, potenziandola, da un lato, ma, dall’altro lato, alterandone profondamente l’ispirazione umanistica. Lo psicologo, a differenza del medico è "Favorito dal fatto di non avere 'macchine' verso le quali inviare il paziente, di avere lunghi tempi di esposizione personale al colloquio con lui e di non possedere mezzi di immediata risoluzione; a patto che egli sia in grado di liberarsi dai vizi ideologici che troppo spesso contraddistinguono la sua formazione e la sua pratica e che riesca ad addentrarsi in una esperienza meno codificata e più vissuta momento per momento e caso per caso" (p. 129).
Infatti, come ancora osserva Sala, “il credo psicoterapeutico si fonda sull’affermazione di validità di una determinata teoria generale e sulla stretta consequenzialità di un sistema terapeutico, che in quanto tale viene supposto efficace”. Ciò che viene trasmesso agli psicoterapeuti in formazione è soprattutto l’acquisizione di una tecnica, desunta, appunto, da una delle teorie generali, che si contendono il campo nell’ambito delle Scuole di psicoterapia. In realtà l’efficacia della tecnica non è facilmente riconducibile agli specifici interventi tecnici attuati dal terapeuta nel corso della seduta. A questo riguardo Sala ricorda, con sorridente ironia, lo psicoanalista Giampaolo Lai che distingue tra “risultati vincolati” (che lo psicoterapeuta si aspetta a seguito dei suoi interventi) e “risultati preterintenzionali” (che si verificano al di fuori delle previsioni del terapeuta), “risultati legali” (riconducibili a leggi generali che consentono di prevederli) e “risultati illegali”, che contraddicono tali leggi!

Lo stesso sistema di formazione e di abilitazione all’esercizio della psicoterapia, che prescrive che l’aspirante psicoterapeuta debba iscriversi ad una Scuola, cioè ad una istituzione formativa che propone, certo, con maggiore o minore rigidità, una specifica teoria psicologica e una conseguente tecnica terapeutica, non è priva di rischi. Il diplomato e neopsicoterapeuta  comincia quindi ad operare come clinico dopo aver, come osserva icasticamente Sala,  inforcati gli “occhiali” da vista forniti dalla sua scuola di appartenenza, con il rischio di un restringimento del proprio punto di vista, spesso a danno della sua capacità di comprendere dunque, il paziente.
Naturalmente questi rischi sono più elevati laddove una scuola di psicoterapia si proponga, oltre a insegnare una teoria psicologica generale, di insegnare uno specifico “modello” di intervento psicoterapeutico.
A fronte del moltiplicarsi delle teorie e dei modelli nell’ambito della psicoterapia, molti fanno  affidamento sulla  possibilità di distinguere tra psicoterapie più o meno efficaci. A tale riguardo Guido Sala non manca di guardare con scetticismo disincantato alla psicoterapia (e alla medicina) basata sulle cosiddette “prove di evidenza e di efficacia”, che, al di là dei limiti e delle contraddizioni che ne caratterizzano  la metodologia, si propongono di fatto di “sostituire alla fondamentale esperienza del terapeuta l’adozione di “linee guida” riconducibili a sperimentazioni controllate”. Si arriva così ad una psicoterapia “manualizzata” che omologa e coarta l’intervento clinico  del singolo psicoterapeuta con “quel” singolo paziente.

Guido Sala ha anche riflettuto sui nuovi rapporti che si sono costituiti tra psicologia e medicina a seguito delle grandi trasformazioni medico-sociali e psico-sociali di questi ultimi decenni. Dopo un iniziale, e prolungato, atteggiamento di dubbio e di sufficienza da parte dei medici nei confronti degli psicologi, negli ultimi trent’anni la medicina ha aperto alla psicologia, sulla base di un processo di delega che Sala critica duramente. Si tratta di un processo in forza del quale il medico “delega” allo psicologo, soprattutto in ambito ospedaliero, ma anche nel privato, la gestione di aspetti “psicologici” della malattia e della terapia medica allo psicologo clinico. Tale processo, che apparentemente è solo di riconoscimento da parte del medico del ruolo dello psicologo, comporta però la perdita da parte del medico della piena assunzione di quelli che sono glia aspetti” psicologici” del suo ruolo. E comporta, per quanto riguarda lo psicologo, il confinamento del suo ruolo in una dimensione di sussidiarietà. 

L’ultimo capitolo di Medicina e psicologia, tra potere e impotenza, il bel libro di Guido Sala da cui sono tratte le citazioni del mio articolo, ha un titolo assai intrigante: “L’elogio dell’ignoranza in psicoterapia”. Sono parole di richiamo erasmiano, come ha osservato Giorgio Cosmacini (Cosmacini G., 2000, Il mestiere di medico. Storia di una professione, Cortina). Cosa intende dire Guido con queste paradossali parole? Non si tratta certo di parole che implicano un atteggiamento ingenuamente o rozzamente anticulturale, dato che sono pronunciate da un uomo che ha raccomandato di arricchire la formazione dello psicoterapeuta anche con contenuti di cultura filosofica, antropologica e storica. L’“ignoranza” di cui Guido tesse l’elogio è “la capacità negativa”, per dirla con il poeta romantico John Keats, che la definì “quella capacità che un uomo possiede se sa perseverare nelle incertezze attraverso i misteri i dubbi, senza lasciarsi andare ad un’agitata ricerca di fatti e ragioni”. Come è noto la frase di Keats fu ripresa e resa popolare da Bion, che sostenne e sottolineò come lo psicoanalista debba non soltanto sforzarsi di capire il paziente, ma che debba anche imparare a “non capire”. E non solo nel senso di una accettazione rassegnata del proprio non capire bensì nel senso di una attiva capacità di non capire, cioè di rinunciare, almeno momentaneamente e anche per lungo tempo,a capire, pur di non ricondurre il discorso del paziente e la mente del paziente dentro le strettoie di frettolose, e magari pregiudiziali, operazioni interpretative, che ricondurrebbero inevitabilmente a categorie cliniche e a concetti teorici, che potrebbero allontanare lo psicoterapeuta dalla possibilità di entrare davvero in un contatto profondo con il suo paziente. Se vogliamo capire ad ogni costo, rischieremmo anche di ascoltare del discorso del paziente solo ciò che convalida il nostro pre-giudizio teorico. La capacità negativa di Keats-Bion, così come l’erasmiana “ignoranza” di Sala, appaiono una indispensabile e difficile competenza terapeutica. Sostare dunque nell’incertezza, concentrarsi su un paziente, entrare in contatto con i suoi vissuti, focalizzare l’attenzione sul “qui e ora” della relazione terapeutica, “senza memoria e senza desiderio”, per dirla ancora con Bion. E Sala cita anche, proprio su questo tema, le belle parole di G. Tognoni (Tognoni G., 1986, "Dottore un po' di dolcezza", articolo su Panorama, 34)“L’ignoranza vissuta come statuto normale di una professione che è alla frontiera delle leggi del vivere e del morire, genera la dolcezza”, quella dolcezza che Guido raccomandava, con il suo sorriso un  po’ imbarazzato, come ingrediente necessario dell’atteggiamento emotivo dello psicoterapeuta, e che faceva così caratteristicamente parte della sua personalità umana. Guido Sala era un uomo che sapeva entrare in un contatto empatico, straordinario ed autentico con i suoi pazienti. Lui non faceva il terapeuta “buono”. Era davvero buono e generoso con i suoi pazienti, che talora aiutava anche concretamente. Del resto la generosità e la solidarietà e la vicinanza affettiva caratterizzavano anche i suoi rapporti personali e amicali e rendono ancora oggi, nel ricordo, la sua figura indimenticabile.

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