I motivi per scrivere un libro possono essere molti, e a volte accade che l’autore dichiari un intento, o lo dia per implicito, e chi legge trovi invece aspetti che vanno al di là della consapevolezza dell’autore stesso, in certi casi proiettando parti di sé, ma in altri cogliendo tratti nascosti nelle pieghe dell’inconscio, stabilendo col mondo interno di chi scrive un legame empatico difficilmente definibile, e collocabile in uno spazio “altro”, condiviso idealmente attraverso la lettura.
All’inizio del suo libro Lo specchio attento Silvio Raffo esprime a chiare lettere il suo intento:
Io scrivo questa storia per fare ordine in me. So che nell’ordine e nella luce è il bene, essendo il male oscurità e disordine. Se riuscirò ad avere dinanzi a me tutto chiaro e distinto fin dal principio, forse ricomponendo tutti i pezzi del mosaico e guardando il quadro nel suo insieme potrò vincere il mio male. Mi attengo in questo mio disegno alle parole bibliche: «Se nasconderai le tue piaghe, marciranno: solo esponendole al sole potrai farle rimarginare».
Silvio Raffo. Lo specchio attento (Italian Edition). Elliot. Edizione del Kindle.
L’intento sembra chiaro: fare ordine, in una sorta di autoterapia nei confronti di un io frammentato che lo scrivere cerca di ricomporre. Chi conosce Silvio Raffo sa che la sua produzione è prevalentemente poetica (ha anche tradotto la maggior parte delle opere poetiche di Emily Dickinson, ed è autore di un’antologia di poeti italiani contemporanei) e in questo libro la Postfazione di Sacha Piersanti, intitolata “Oltre la prosa - Lo specchio attento, il romanzo di un poeta” sottolinea come anche quando scrive in prosa l’autore si esprima da poeta.
Un poeta che cerca di fare ordine in se stesso: arduo cimento. E in effetti di ordine in questo libro ce n’è poco, e per fortuna, aggiungo io. Sentendosi diverso da chi lo circonda, e stretto alla propria madre in un legame intenso e profondo, l’autore si circonda di personaggi la cui identità è ricreata dentro di sé, arrivando a dare vita a una figura femminile che riesce ad essere nel contempo oggetto d’amore e mancato oggetto di identificazione, e anche l’opposto, oggetto di identificazione e mancato oggetto d’amore. L’intreccio confuso di sentimenti che animano il personaggio narrante, che l’autore non fa mistero rappresenti lui stesso, si dipana e assume una fisionomia più definita nel costruire un personaggio femminile al quale possono essere attribuiti pensieri, sentimenti ed emozioni indicibili, che possono essere formulati e compiersi attraverso raffinati giochi proiettivi.
Chi ha avuto la voglia e l’occasione di leggere ciò che scrivo avrà probabilmente capito che, malgrado il lavoro che faccio, o meglio proprio per il lavoro che faccio, lo psicoterapeuta, è lontana da me l’idea di interpretare psicoanaliticamente un’opera artistica. L’arte, sia essa pittura, scrittura, musica, cinema, teatro e quant’altro, ha un suo linguaggio, che non va a mio avviso “interpretato” altro che nel contesto e nel linguaggio in cui l’artista si esprime. L’attore è il solo che nel cinema o in teatro “interpreta” un personaggio, e così il musicista, il pittore e lo scrittore o il poeta. Come dice Neruda nel Postino la poesia è “metafora”, e Lo specchio attento si snoda in un inanellarsi di metafore che nel tentativo di fare ordine sovvertono continuamente l’ordine costituito, creando un meraviglioso sogno da cui non ci si risveglia, perché in fondo non ci si è mai addormentati.
A questo punto posso rivelare che ho conosciuto Silvio Raffo ai tempi del liceo, ci siamo persi di vista per molti anni e ci siamo ritrovati qualche anno fa, avendo fatto due percorsi che a un certo punto hanno avuto dei punti di convergenza, a partire da uno spettacolo teatrale della nostra comune amica Elena Russo Arman basato sulle poesie di Emily Dickinson. Leggere Lo specchio attento è stato per me anche un immergermi nel mondo della mia adolescenza, e ritrovare personaggi che ho sentito a me noti, anche se i riferimenti che ho trovato sono certamente in gran parte frutto delle mie proiezioni.
In un'intervista, il regista Ingemar Bergman ha detto “Io faccio un film e poi capisco dai critici cosa ho voluto dire”; e non stava scherzando. Lo spettatore, il lettore, il fruitore di un opera d’arte... creano nel rivolgersi all’opera qualcosa di unico e irripetibile, frutto di un incontro tra i fantasmi che popolano il mondo interno dell’artista e quelli che popolano il mondo interno di chi accoglie l’opera dentro di sé. Da questo incontro può nascere qualcosa di buono se si rintraccia un ordine che è frutto di un intrecciarsi di metafore con delle analogie riscontrabili e condivisibili. E libri come Lo specchio attento favoriscono in modo esemplare quest’intreccio di metafore, in un processo di riconoscimento di sé nell’altro e dell’altro in sé.
Spero che i colleghi psicoanalisti non me ne vogliano se non vado oltre nel descrivere le suggestioni evocate in me da questo libro. Chi vuole trovarci un percorso catartico che porta l’autore a uscire dalla nevrosi (qualcuno potrebbe addirittura trovare sdoppiamento, scissione, crisi d’identità, e dunque meccanismi più propriamente ascrivibili alla psicosi) attraverso una sublimazione di impulsi distruttivi, trova un ottimo materiale di studio. Per non parlare del tema dello specchio, caro a Lacan ma anche agli esegeti di Lewis Carrol e a molti altri, e del termine “attento”, presente nel titolo, che fa pensare proprio alla ricerca di ordine che l’autore, nel suo scopo dichiarato, vorrebbe perseguire. Peccato che in questo modo si perde, a mio avviso, l’occasione di leggere davvero uno stupendo libro che può dare molto a chi lo “assume” dentro di sé, cogliendo la preziosità del lasciarsene avvolgere senza pretese interpretative.