A fine ottobre del 2020 si è concluso il mio rapporto di lavoro con il servizio psichiatrico nel quale per quarantun anni ho svolto la funzione di psicologo psicoterapeuta. La conclusione è stata repentina e per me imprevista. Negli ultimi anni, a partire dal 2015, allo scadere del mio contratto libero-professionale il posto resosi vacante veniva messo a concorso. Vincendolo, ho avuto un contratto triennale sino al 2018 e alla scadenza, vincendo il successivo, un contratto biennale sino a luglio 2020. Alla scadenza, mi stavo accingendo a raccogliere i miei documenti per iscrivermi al nuovo concorso quando, leggendo il bando, ho scoperto che questa volta veniva posto un limite di età (67 anni), che avevo superato (a marzo 2020 ne avevo compiuti 68). Per “raggiunti limiti di età” non ho dunque potuto partecipare, e ho continuato in proroga sino a fine ottobre, dopo di che, essendo state espletate nel frattempo tutte le procedure concorsuali ed essendo stato designato il vincitore, ho rimesso il mio mandato e concluso il rapporto di lavoro. Essendo risultata vincitrice una mia ex tirocinante a cui avevo suggerito io di partecipare, e con la quale ho mantenuto un rapporto di amicizia e di collaborazione, mi sono compiaciuto di aver lasciato il “pacchetto” in buone mani. Ho però provato una profonda delusione nel constatare che, contrariamente alle mie aspettative, la mia disponibilità a effettuare un “passaggio di consegne” accurato, descrivendo a chi mi succedeva la situazione di ciascun paziente che lasciavo e decidendo, in sintonia con lo psichiatra di riferimento, la modalità di prosecuzione delle psicoterapie in atto, veniva del tutto disattesa, essendomi stato chiaramente detto dalla psichiatra responsabile del CPS: “Adesso tu non ci sei più e decidiamo noi”.
Nel mio irriducibile ottimismo ho detto a me stesso che a fianco della delusione provata nel vedere di non aver lasciato alcuna eredità da raccogliere, sentivo la soddisfazione e il compiacimento di aver potuto, finché ci sono stato, strutturare e coordinare interventi a volte complessi senza incontrare quelle resistenze che, una volta uscito io di scena, si sono manifestate in forma piena, “spazzando via” in pochissimo tempo ciò che in anni di lavoro appassionato avevo costruito. Come disse Luigi XV (perdonate l’immodestia!): “Après moi le déluge”.
Volendo peraltro proporre, nel contesto della nostra rivista, alcune riflessioni sulle psicoterapie nell’istituzione nel momento attuale, devo dire che l’ottimismo tende a venir meno.
I lettori che ci seguono da tempo avranno potuto rilevare che i miei interventi relativi alle psicoterapie nell’istituzione, e in particolare la psicoterapia psicoanalitica, sono stati sempre improntati ad evidenziarne le possibilità di applicazione, rilevando alcuni limiti dati dal contesto istituzionale ma al tempo stesso offrendo spunti di riflessione e anche descrizioni di esperienze ricche e articolate, nelle quali alla volontà di portare avanti iniziative innovative era corrisposta un’accettazione di buon grado da parte dei vertici istituzionali. Non nego che questo sia accaduto, e non smentisco nulla di quanto descritto in passato relativamente alla mia possibilità di strutturare interventi complessi avendo da parte dell’istituzione un beneplacito che mi ha consentito di effettuarli.
Per alcuni anni ho avuto la possibilità di accogliere un elevato numero di tirocinanti e, una volta assodata la loro competenza, strutturare un gruppo di specializzandi che facevano fronte alle esigenze del territorio in merito alle psicoterapie, o meglio a colloqui clinici che comunque rispondevano alla richiesta di quelle frange di popolazione che non afferiscono in genere a un servizio psichiatrico, e che invece nel nostro contesto trovavano uno spazio di accoglienza e di supporto psicologico di buon livello, al prezzo del ticket istituzionale.
Negli ultimi anni ho effettuato molti primi colloqui di pazienti che chiedevano un intervento psicologico e, se valutavo la non necessità di ricorrere alla figura dello psichiatra, li affidavo a uno specializzando qualificato e, sulla base della valutazione che facevo, adatto ad accogliere la domanda, a volte ritenendo che un approccio sistemico, cognitivo costruzionista o altro, potesse rispondere in modo più adeguato ai bisogni che il candidato paziente esprimeva.
La presenza di tirocinanti provenienti dalle scuole più diverse mi ha anche permesso di strutturare interventi, come dicevo, complessi, nei quali, sempre con la mia supervisione, alcuni casi venivano affrontati da più punti di vista, anche applicando contemporaneamente (chiaramente con persone e in spazi diversificati) modalità terapeutiche fondate su approcci diversi. Questi interventi avevano momenti di incontro di tutte le figure coinvolte e rappresentavano ciò che, con una formulazione che alcuni hanno considerato azzardata, ritengo essere un approccio “integrato”.
Qualcuno ricorderà poi una ricerca che ho portato avanti per alcuni anni, fondata sulla partecipazione di specializzandi provenienti da varie scuole di psicoterapia ai gruppi ad orientamento gruppoanalitico che per più di trentacinque anni ho condotto nell’ambito del servizio psichiatrico. Scopo della ricerca era mettere a confronto vari approcci, fondati comunque sulla relazione, col metodo gruppoanalitico, al fine di arricchire la teoria e la tecnica di conduzione delle terapie di gruppo con riflessioni basate sul confronto e sull’esperienza clinica. Ne è venuto anche un libro, a mia cura, nel quale alcuni degli specializzandi hanno raccontato questa esperienza, proponendo le loro riflessioni.
Nel giro di un mese, dopo la conclusione del mio rapporto di lavoro, di tutto questo non è rimasto nulla. Negli anni in cui ho lavorato in questo servizio ho avuto in molte circostanze riscontri non solo favorevoli ma di decisa approvazione e riconoscimento dell’utilità e dell’efficacia di ciò che andavo strutturando, e il mio stupore nel veder decadere in brevissimo tempo tutto ciò che avevo costruito, senza alcuna preoccupazione relativamente alla ricaduta di questo processo sull’utenza, mi sembra più che giustificato. Il dilagare della pandemia può aver avuto un effetto di ulteriore sfilacciamento della struttura portante del servizio, ma non giustifica la totale mancanza di attenzione nei confronti di attività che avevo posto in essere, e che, con un po’ di cura e di attenzione, avrebbero potuto rilanciarsi (e già avevo iniziato a farlo) con i nuovi strumenti che attraverso la pandemia stessa gli operatori avevano iniziato a conoscere e a utilizzare.
Molti pazienti mi hanno chiesto di poter proseguire privatamente, e sono andato loro incontro per permettere che questo accadesse (ad esempio trovando un accordo economico che fosse alla loro portata e, in particolare per la terapia di gruppo, tenendo viva la possibilità di sedute “da remoto” per venire incontro a difficoltà logistiche e ai rischi di contagio dati dall’utilizzo di mezzi pubblici).
Chi, dei pazienti che ho dovuto lasciare, è rimasto a carico del servizio pubblico si è trovato di colpo a soggiacere a criteri che in precedenza non erano mai stati introdotti, che oggi limitano la durata delle psicoterapie a due cicli di otto sedute (dopo di che la terapia comunque si conclude) e l’invio agli psicologi del CPS a casi gravi tipicamente psichiatrici, senza la possibilità di estendere l’attività psicologica a una fascia di popolazione più ampia. I tirocinanti, almeno nel CPS in cui ho lavorato, non vengono più accolti, e dunque è cessata ogni attività formativa e di confronto.
Non voglio infierire raccontando altri mutamenti che non sono strettamente legati all’attività psicologica e psicoterapeutica. Mi limito a una considerazione. Se in totale buona fede ho potuto per molti anni sostenere che la psicoterapia nell’istituzione era possibile, e che esistevano contesti nei quali si potevano strutturare attività complesse senza che i vertici istituzionali si opponessero applicando criteri restrittivi, oggi mi sento di dar ragione a chi sosteneva che la mia fosse una situazione molto particolare, nella quale mi ero “guadagnato le stellette sul campo” (per usare una terminologia militare), essendo praticamente unica la condizione di uno psicologo che rimane quarantun anni nello stesso servizio vedendo passare vari primari e direttori di servizio e un numero elevatissimo di psichiatri, trovandosi in molti casi ad essere il solo a conoscere a fondo i cosiddetti pazienti “cronici”, essendo presente, a volte, all’esordio del loro disagio. Ero infatti rimasto il solo ad avere conosciuto l’esperienza dell’ospedale psichiatrico prima della legge 180 (chiamata comunemente legge Basaglia) che risale al 1978, e l’unico ad essere presente alla nascita e alla costituzione del servizio psichiatrico territoriale.
Se posso compiacermi del rispetto di cui ho goduto, che mi ha concesso per molto tempo una crescente autonomia, devo però constatare che quello che ritenevo essere un criterio di ragionevolezza, che poteva fondare una concezione “diversa” delle prassi istituzionali, è stato racchiuso in una morsa letale che in un attimo lo ha spazzato via, riproponendo una logica legata a principi per i quali i bisogni dell’utenza e la “cura” in senso lato sono posposti agli aspetti economici e organizzativi, caratteristici di ogni Istituzione (e qui per la prima volta, con amarezza, metto l’iniziale maiuscola).
Rilanciando, con l’energia che mi contraddistingue, la rubrica “Psicoterapie nell’istituzione”, invito i lettori interessati a riprendere un dibattito oggi più che mai d’attualità.