A volte ritornano. Ritornano le critiche alla psicoanalisi nel suo complesso, indistintamente come metodo di indagine, come tecnica psicoterapeutica e come teoria. A dire il vero, il fatto che le critiche siano rivolte indistintamente alla definizione tripartitica di Freud contiene anche un elemento di coerenza che i detrattori colgono forse in modo più significativo degli psicoanalisti, quando questi a volte sembrano scordare che la psicoanalisi può essere, sì, una teoria, ma che deriva però dall’applicazione di un metodo che per altro coincide con una tecnica di cura. Insomma, senza l’applicazione di un metodo non sembra possibile promuovere un processo di cura; e neanche costruire alcuna conoscenza psicoanalitica, dal momento che anche un livello minimo di teorizzazione richiede un metodo col quale generare quelle rappresentazioni di conoscenza finalizzate a comprendere o spiegare fenomeni altrimenti irrappresentabili sul piano di un discorso che richiede una logica, anzi una psico-logica. Cosa questa che chiama in causa processi di natura cosciente. E qui avviene la sfida della teorizzazione: come tradurre in termini logici, quindi consci, ciò che è inconscio?
Ma al di là di ciò (sempre che sia concesso sorvolare sopra simili questioni), l’occasione di questo breve scritto è stavolta offerta dall’ennesima pubblicazione e divulgazione di un testo intitolato “Intervista esclusiva a Freud. Da neurologo a neurologo”, in cui il Viennese viene descritto dall’autore in questione come un geniale affabulatore, capace di aver colto la centralità della sofferenza psichica ma in fondo di non essere mai riuscito a trovare una cura. La psicoanalisi sarebbe così un’invenzione intellettuale sostanzialmente priva del potere trasformativo e rigenerativo: anzi, i casi trattati da Freud potrebbero essere del tutto inventati. Una critica che direttamente o indirettamente sembra toccare anche gli psicoanalisti di oggi, suoi nipoti o pronipoti, ai quali l’autore dell’intervista indirizza un accorato appello di etica scientifica: un’etica che vuole il dubbio e non il dogma delle certezze (sic) della psicoanalisi.
Alcuni anni fa era stata la volta di un libretto divulgativo del filosofo francese M. Onfray (Crepuscolo di un idolo. Smantellare le favole freudiane). Qui l’autore si divertiva a demolire le costruzioni psicoanalitiche invocandone l’inattendibilità e l’artificiosità. Per il filosofo, la psicoanalisi derivava da taluni tratti caratteriali del suo fondatore e veniva descritta come un mito personale di Freud costruito in funzione di sue stesse disposizioni personali, ovviamente psicopatologiche secondo l’autore. Insomma, la psicoanalisi ridotta a una specie di “mitopsicopatologia” idiosincrasica: un delirio del fondatore.
Purtroppo però anche l’autore di questa intervista impossibile, un neurologo, finisce per collocare la psicoanalisi se non nel delirio del suo fondatore, almeno in una sorta di raffinata, ma sostanzialmente inutile, attività intellettuale fatta di elucubrazioni che non conducono da nessuna parte. Forse, l’autore intende dire che la psicoanalisi è l’esito di un’attività masturbatoria? Chiedo scusa: troppo “freudiano”.
Scrivere queste cose, però, non aiuta la psicoanalisi: contribuisco semmai a renderla un cliché da salotto, se non da volgare osteria. In effetti, simili “interpretazioni” (qui le virgolette sono necessarie) non sono plausibili nemmeno nella pratica clinica, che è governata da un metodo che prevede due persone in una stanza che si sono date specifiche regole per indagare qualcosa che capita a una delle due. L’altra, invece, si spera sia in grado di capirsi almeno un po’ per capire a propria volta cosa sta accadendo col e nel paziente. Ma anche così è una semplificazione. Forse, val la pena rinunciarci e non perdere tempo con argomentazioni tutto sommato futili e ben poco esperte di psicoanalisi. Mi rinchiudo nello splendido isolamento e, con calma serafica e sufficienza, guardo quelle parole di quel libro come se la cosa non riguardasse la psicoanalisi, proprio perché chi lo ha scritto è totalmente a digiuno di psicoanalisi?
E allora che si fa? Rinuncio? Stavolta non ce la faccio.
Allora mi chiedo se l’autore non sia abbagliato egli stesso dalle proprie presunte conoscenze, quando in un’altra sua intervista (stavolta vera, forse per pubblicizzare il suo libro) lascia intendere che, grazie alla mappatura sempre più precisa del cervello, sarà possibile una nuova geografia della mente, la cui attività sarà riconducibile neurone per neurone.
Tralascio il fatto che “mente” (mind) non è un concetto freudiano (l’espressione metapsicologica è “apparato psichico”) e nemmeno psicoanalitico: la “mente” non è la “psiche” e, parimenti, la “psiche” non è l’”anima”. Come d’altra parte il “corpo” non è il “soma” e nemmeno “organismo”. Figurarsi se il cervello è la mente. Spesso si sottolinea come senza cervello non ci sarebbe attività psichica. Ma chiedo anche: senza cultura ci sarebbe un’attività psichica? E senza cultura ci sarebbe una cosa rappresentabile come cervello? Sarebbe possibile un’attività cosiddetta scientifica al di fuori di un contesto culturale? Ma anche qui tralascio le molteplici questioni sottese a questi aspetti.
Ad ogni modo, il libro lascia trasparire una grande fiducia per le neuroscienze che finalmente spiegheranno tutto e un bel giorno arriveranno a offrire cure appropriate e risolutive: non come la psicoanalisi che sta sempre lì a guardarsi l’ombelico e la storia di ciascuno. Segnali di questo fantomatico futuro già ci sono, a parere dell’autore, se si considera l’efficacia dei farmaci-psico e le psicoterapie cognitivo-comportamentali che saprebbero eliminare il fastidioso sintomo e l’angoscia che lo accompagna.
Torno dopo sul farmaco. Mi soffermo su queste ultime psicoterapie con un interrogativo: siamo sicuri che gli psicoanalisti non cerchino di aiutare nel più breve tempo possibile i propri pazienti?
A ben vedere, anche se queste psicoterapie rappresentano una metodica diversa dalla psicoanalisi, in fondo fanno ciò che anche uno psicoanalista mediamente fa quando cerca di rispondere nel più breve tempo possibile ad una condizione emorragica che un paziente gli porta. Se c’è una ferita emorragica occorre fermare l’emorragia e magari mettere dei punti di sutura. Certo, poi la psicoanalisi non si ferma qui: magari prova ad aiutare il paziente a capire perché si procura certe ferite, quando gli capitano, come gli vengono. E magari anche che senso hanno queste cicatrici nella sua personale storia di individuo. Ma mi fermo qui con la metafora, che già mi pare troppo stiracchiata. E poi le metafore non sono ben accette nel mondo patinato e preciso della scienza.
E allora chiedo: nel promettere un futuro roseo e senza problemi, animato da un supposto spirito scientifico, non si rischia di offrire a buon mercato l’illusione di un avvenire? Specchietti per le allodole?
Allora non so se anche questa prospettiva, soffusamente offerta nel dialogo immaginario con quel Freud che l’autore si inventa, possa essere vista come un’altrettanta affabulazione che strizza un po’ l’occhio alla credulità delle persone.
Forse (ma non lo so), anche queste considerazioni sono sì di un neurologo, che però vive nella propria epoca e all’interno del proprio contesto culturale, proprio come il Viennese da lui magicamente intervistato: possibile allora che anche il neurologo non sia influenzato dal proprio contesto storico, caratterizzato spesso dall’immediatezza, dalla velocità, dalla negazione del dolore, dal diniego della vecchiaia, della deformità, della malattia e della morte, dal mito dell’autodeterminazione, dell’autotrascendimento, dell’autonomia, dell’efficacia, dell’esaltazione euforica e tronfia di una felicità transeunte? Possibile che il contesto socio-culturale in cui anch’egli vive non influenzi la sua pratica professionale, almeno quel poco da indurlo a proporre pillole di neurologia?
In queste circostanze, il farmaco sembra possa essere interpretato come la pozione magica del XX secolo, creando un altro tipo di assuefazione: una sorta di anestetizzazione di sé stessi, contribuendo all’idea (un po’ perversa) che qualsiasi tipo di disagio debba essere considerato come una parte estranea di sé che deve essere rimossa, magari cancellata dall’organismo e nell’organismo.
Ben inteso: non sto demonizzando la farmacoterapia e il suo appropriato utilizzo.
Osservo però l’atteggiamento sociale di chi a volte prescrive il farmaco. Anche questo gesto si inscrive all’interno di trame emotivo-affettive estremamente potenti e ricche, spesso inconsapevoli. E come ogni gesto, anche questo può andare incontro a derive e aberrazioni se predominano fantasie narcisistiche non ben temperate. Ad esempio, si potrebbe essere presi dalla tentazione e dall’eccitazione di controllare il comportamento altrui tramite soluzioni farmacoterapiche, un po’ come se si fosse burattinai alle prese con le proprie marionette andate un po’ fuori rotta: certo, un po’ originali, sofferenti, a volte buffe, ma fuori rotta. Ma quale rotta tenere? Qual è la rotta? E cosa è una rotta?
Ma ripeto: non lo so. Però mi viene il dubbio. Perciò mi pongo qualche interrogativo.
Forse, permanendo e tollerando il dubbio così come vien richiesto dall’etica scientifica proposta dall’autore, c’è qualche possibilità che anch’io (come sicuramente molti colleghi) possa essere considerato scientifico. Sempre che l’autore, che taccia la psicoanalisi come pseudoscientifica e non terapeutica, non si sia già trasformato a giudice di un altrettanto immaginario tribunale scientifico al quale i poveri immaginari psicoanalisti debbano far riferimento. In tal caso, temo non ci sia scampo: il super-Io è terribile e a volte perverso. Ancora: ma è un vizio questo!
C’è però anche da chiedersi se non sia una sfida piuttosto grande quella che la psicoanalisi si pone e che, dopotutto, la espone a facili detrazioni. Qualsiasi teorizzazione è la risultanza di un processo di pensiero che inevitabilmente poggia sull’attività psichica conscia. In altre parole, qualsiasi teorizzazione psicoanalitica cerca di costruire una unitarietà e coerenza del proprio armamentario concettuale per provare a descrivere o, almeno far intuire, quell’attività psichica sfuggente chiamata sistema psichico inconscio.
Da questo punto di vista, parlare di scienza dell’inconscio può apparire un po’ come una contraddizione in termini, non potendo i fenomeni inconsci essere colti pienamente dall’attività conscia richiesta da ogni argomentazione scientifica, ma aggiungerei anche filosofica, ideologica, politica, ecc.
Dunque, l’attività psichica conscia non appartiene solo alla teorizzazione della psicoanalisi, ma a qualsiasi altra attività di pensiero (conscio) che può essere riconosciuto come scientifico: questo per sottolineare che simili problemi non sono esclusivi dell’attività clinico-teorica dello psicoanalista, ma di qualunque soggetto che intenda svolgere attività scientifica.
Dopotutto, come qualcuno ha già fatto notare, nessuno mai ha visto il Big Bang, sebbene questa sia una teoria plausibile, contenente una propria coerenza che fa sì che possa essere ancora tenuta in vita. E nessuno, per fortuna, può immaginare di progettare un Big Bang sperimentale che possa essere considerato omologo a quello ipotizzato nelle origini. E per il solo fatto che non sia possibile provare questa teoria, nessuno ha messo mai in dubbio l’intero campo di conoscenza della fisica o dell’astronomia, né queste vengono screditate come pseudoscienze o come falsi saperi.
Forse, bisognerebbe accogliere l’idea che nell’attività scientifica non è possibile un giudizio di valore come quello di verità o falsità, quanto piuttosto di errore di descrizione, comprensione, spiegazione. A questo punto, ci si troverebbe di fronte a spiegazioni o descrizioni insufficienti non solo in psicoanalisi, ma in qualunque altro campo del sapere, a meno che non ci sia qualcuno animato da un proprio desiderio onnipotente e di completezza. Ma qui, però, si rischia di entrare ancora nel campo delle ipotetiche interpretazioni ad personam che non aiutano in fondo nessuno.
Va però aggiunto che questa reductio ad personam non è propria dei soli psicoanalisti, che a volte cercano di difendersi con le armi spuntante di qualche improbabile interpretazione. Viene spesso utilizzata anche dai suoi detrattori. Ad esempio, lo stesso M. Onfray, riducendo la psicoanalisi al delirio di Freud, ha operato nei confronti della psicoanalisi una sbiadita e deleteria parodia della capacità penetrativa dell’aforisma di Nietzsche, quando con arguzia scriveva: “Per quanto l'uomo possa espandersi con la sua conoscenza, apparire a se stesso obiettivo: alla fine non ne ricava nient'altro che la propria biografia” (Nietzsche, 1878/1979 p. 274). Qui, però, Onfray sembra voler richiamare Nietzsche non per rigenerare e costruire un discorso inedito, quanto per dare sfoggio della sua volontà onnipotente e distruttiva, neanche tanto velata, considerata la pretesa di echeggiare nel titolo del suo saggio il martello filosofico di un Maître à penser europeo.
A proposito: anche nel sottotitolo del saggio-intervista l’autore-neurologo si pone pari a Freud, da neurologo a neurologo. Che questi piccoli detrattori abbiano qualcosa in comune nella pretesa di farsi grandi sulle spalle di Maestri del pensiero?
Ma anche queste considerazioni, probabilmente, possono essere bollate come reductio ad personam: insomma, non se ne viene fuori con le solite scaramucce. Credo, però, che sia possibile almeno prendere in considerazione la responsabilità delle parole che si scrivono e gli esiti a cui potenzialmente conducono: non esistono discorsi senza autore.
Forse, si potrebbe più semplicemente ricordare come frequentemente i facili detrattori abbiano scarsa dimestichezza con la psicoanalisi e che, pertanto, guadagnerebbero in onestà riconoscendo in sé ciò che non sanno.
In fondo, per poter confutare con maggiore chiarezza e sicurezza la psicoanalisi, occorrerebbe almeno che se ne abbia l’esperienza.
E non si tratta qui di fare riferimento alla solita cosa un po’ difensiva che rischia di gettare la psicoanalisi in una sorta di iniziazione misterica che esclude ogni altra possibilità di conoscenza. Si tratta, invece, in modo razionale, di accettare l’idea che non è possibile criticare uno strumento senza saperlo maneggiare, se non se ne ha insomma padronanza: si è mai visto che uno allevatore di vacche si sia mai sognato di demolire l’apparato concettuale di Einstein? D’altra parte, non risulta nemmeno che Einstein pontificasse su una simile attività, non facendo l’allevatore.
A ciascuno dunque il proprio campo di studio, di ricerca e di pratica.
Più facile a scriversi che a farsi. Anche se, a ben vedere, pure la scrittura non è al riparo dalle sciocchezze. Comprese quelle presenti in questo stesso testo, in fondo un po’ infastidito e magari altrettanto divulgativo e ammiccante, di certo non scientifico sotto il profilo della psicoanalisi: tutto sommato non così distante da quello dell’intervista immaginaria.
Anche se, forse, una piccola differenza potrebbe almeno essere colta.
Sebbene possa apparire come una esternazione finalizzata alla difesa della psicoanalisi, questo scritto non ha la pretesa di veicolare al grande pubblico un’argomentazione scientifica come invece l’intervistatore dell’immaginario Freud vorrebbe lasciare intendere col proprio. È concesso allora considerare l’immaginaria intervista a Freud come esito di un’altrettanta banale esternazione dell’autore? Entrambi i testi godrebbero allora della stessa cittadinanza: quella delle idiosincrasie personali, in fondo più che prevedibili, che nulla hanno da offrire, non avendo nulla a che vedere con lo statuto scientifico della neurologia o della psicoanalisi e con le loro rispettive pratiche cliniche.
In effetti, per rispondere compiutamente alle argomentazioni ipercritiche che a volte ancora sono rivolte alla psicoanalisi occorrerebbe valutare contenuto e forma delle asserzioni portate, al di là delle motivazioni soggettive di chi le pronuncia. E quindi sarebbe opportuno rispondere alle idee punto per punto, argomento per argomento, dimostrando poco a poco l’inconsistenza argomentativa che sostiene la facile critica, che spesso per altro si rivela animata da una scarsa conoscenza del testo freudiano. C’è da chiedersi, tuttavia, se questa intervista immaginaria a Freud meriti un simile complesso lavoro intellettuale.
Infine, credo possa essere aggiunta una breve considerazione anche sulla neurologia. È possibile ritenere come la stessa neurologia, intesa come disciplina medico-scientifica, non coincida con le argomentazioni di questo autore: pertanto non può essere confusa o persino ridotta alle sue idee. A questo riguardo, occorre forse difendere anche la stessa neurologia (non solo la psicoanalisi) dalle quisquilia di pochi che, grazie all’impatto mediatico, fanno sempre clamore rispetto al più silenzioso e faticoso lavoro di molti clinici.
Detto ciò, non penso che smetterò di cercare la bellezza del piacere di vivere e di poterlo condividere, provando ad aiutare le persone a conquistare la loro propria via di libertà e il piacere della vita: con un metodo.