Sono onorato e grato alla Scuola per avermi dato oggi l’opportunità di aprire la Giornata dedicata al ricordo di Guido Medri. Guido, compagno di viaggio e competitore: ci ha unito fin dall’inizio, eravamo alla fine degli anni 60, la comune passione per la psicoanalisi e per il nostro progetto auto ed etero formativo. Ci ha diviso, a volte in maniera anche forte, la diversità di veduta sulla conduzione, sulla «politica» della Scuola. Nessun disaccordo sulle basi teoriche e cliniche, come emergeva chiaramente durante le discussioni delle tesi di fine corso degli Allievi.
Oggi sono anche commosso, lo noterete, oltre che per i miei tanti ricordi di Guido e di tutto quanto abbiamo fatto insieme, anche per la gioia di potermi rivolgere ancora una volta a tutti voi Allievi e Soci dell’Associazione: vi sono vicino con un abbraccio ideale, perché possiamo vederci solo a distanza, situazione questa particolarmente insoddisfacente per noi psicoanalisti, perché il nostro lavoro, il rapporto con i pazienti e gli Allievi nelle supervisioni, è legato al corpo, anzi ai corpi.
Oggi il mio intento è di fare il punto sul sapere teorico e clinico della Scuola e Associazione e di sostenere che dal punto di vista teorico e clinico non è condivisibile né la posizione di chi contrappone la psicoanalisi «standard» alla psicoterapia psicoanalitica degli stati border-line e psicotici, con una implicita o esplicita svalutazione di quest’ultima, considerata come meno rigorosa della prima, né quella di chi sostiene la loro sovrapposizione o indistinzione, come viene suggerito negli ultimi decenni dagli indirizzi intersoggettivi, interpersonali e della Psicologia del Sé. Purtroppo mi dovrò limitare al sapere legato alla terapia psicoanalitica dell’adulto, perché non mi sono mai occupato della terapia dei pazienti dell’Età Evolutiva.
Cercherò di collegare, di integrare nella prima parte del mio intervento i riferimenti a Guido e al mio rapporto con lui con lo sviluppo, con la storia della Scuola e dell’Associazione.
La mia conoscenza di Guido, come degli altri colleghi, membri originari della nostra Scuola, risale al 1969 nel Centro di Psicoterapia Psicoanalitica di Piazza S. Ambrogio in Milano, diretto da Pier Francesco Galli, col quale ho fatto la mia seconda analisi personale. Risalgono al 1975 le nostre prime attività come docenti presso il Centro di Psicologia Clinica e Psicoterapia di Via Alberto da Giussano, dopo che Galli aveva lasciato Milano per andare a Bologna. Non posso non sottolineare che noi tutti dobbiamo molto a Galli che per primo ha rotto con l’esclusività della S.P.I. in Italia, come era stato fino ad allora.
Il nostro training si sviluppò con Cremerius soprattutto per l’analisi delle nevrosi e con Benedetti per la psicoterapia delle psicosi. In quegli anni Guido e io eravamo i più giovani tra i dodici colleghi iniziali, tutti e due psichiatri, tutti e due piuttosto insofferenti rispetto alla conduzione dell’allora Presidente Marina Saviotti. Si sviluppò tra noi un grosso rapporto di amicizia e di scambio di idee. La fondazione ufficiale della Scuola risale ai primi anni 80 e quella dell’A.S.P. alla fine dello stesso decennio: l’Associazione aveva lo scopo di mantenere il rapporto con gli ex-Allievi, di continuare nella formazione interminabile e di dare spazio alla ricerca. Come certamente sapete è del 1979 il nostro primo libro collettaneo ispirato da Benedetti, dal titolo Paziente e analista nella terapia delle psicosi. Il contributo di Guido, centrato sul concetto di identificazione reciproca tra analista e paziente, è rilevante per la sua profondità e complessità. In seguito abbiamo partecipato insieme a diversi congressi nazionali e internazionali: in occasione di quest’ultimi abbiamo fatto anche dei viaggi con le rispettive consorti. Ricordo con particolare piacere il Congresso di Rio de Janeiro, durante il quale la nostra Associazione entrò a far parte dell’I.F.P.S.. Alla fine dell’ultimo decennio del 900 ci fu un grosso dibattito nel nostro Direttivo in merito alla scelta se richiedere o no il riconoscimento al MIUR: io espressi le mie perplessità nel timore che il riconoscimento potesse comportare una limitazione della nostra libertà e autonomia didattica, della fedeltà al nostro modo di intendere la psicoanalisi. Riconobbi più tardi che i miei timori erano esagerati e che la mia posizione era alquanto idealistica. Negli anni successivi ci furono divergenze con Guido, Direttore del Corso Adulti, soprattutto per quanto mi riguarda, per la sua tendenza alla conduzione monocratica, ma il nostro rapporto di stima reciproca non venne mai meno. Ricordo, come fosse oggi, un incontro casuale con lui per strada, erano cinque o sei anni fa, quando già cominciava a deperire (e tutte le volte che lo vedevo fumare lo invitavo a smettere): mi disse con orgoglio che noi due avevamo fatto tanto per la Scuola, nostra impresa comune, e che potevamo essere contenti dei risultati raggiunti. Non posso non sottolineare l’ammirazione per la sua forza, tenacia, con le quali ha partecipato fino all’ultimo ai nostri lavori.
Nella seconda parte del mio intervento, che riguarda il sapere teorico e clinico della Scuola e dell’Associazione, sosterrò la tesi che psicoanalisi standard e psicoterapia psicoanalitica non vanno né contrapposte, come è stato fatto per tanto tempo da parte dell’I.P.A., né sovrapposte, ma ne vanno sottolineati gli elementi fondamentali comuni come pure quelli decisamente diversificanti dal punto di vista tecnico.
La linea della Scuola, che si caratterizza, in estrema sintesi, per la sua tendenza integrativa, che non significa affatto eclettismo, fa costante riferimento alle risultanze della ricerca scientifica, nella scia dell’auspicio freudiano (1915-17) che la psicoanalisi poggi su fondamenti neurofisiologici. Naturalmente la visione scientifica della psicoanalisi, e non puramente ermeneutica, si collega strettamente, come vedremo, ai nostri punti di vista ontologici e epistemologici.
La posizione integrativa della Scuola ha la sua origine nel nostro training caratterizzato in primo luogo dal fatto che Cremerius e Benedetti si occuparono di due ambiti psicopatologici diversi, ma erano accomunati dall’approccio relazionale: il primo, con un atteggiamento rigorosamente interpretativo, ma anche in certe situazioni non-interpretativo che definiva di scopo - mezzi, ci formava al trattamento delle nevrosi, il secondo al trattamento degli stati border-line e psicotici con un atteggiamento partecipativo, costruttivistico e, per certi aspetti, intersoggettivo. Tutti e due comunque si rifacevano alle idee del middle group inglese, poi detto dei British indipendents, che cercò di mediare negli anni 40 tra Melanie Klein e Anna Freud. Cremerius faceva riferimento al Balint del difetto fondamentale e della psicologia bipersonale e tripersonale, mentre Benedetti si richiamava ai concetti di Fairbairn, secondo il quale la libido è alla ricerca dell’oggetto e non del piacere e al concetto di oggetto transizionale di Winnicott. I British indipendents fecero propri i concetti kleiniani delle relazioni oggettuali interiorizzate, delle difese primitive e in particolare dell’identificazione proiettiva, della fase preedipica dello sviluppo, della centralità dell’analisi del transfert e del controtransfert, ma, dal punto di vista della Psicologia dell’Io, sottolineavano anche l’importanza della fase successiva della conflittualità edipica e delle difese mature e, per quanto riguarda la tecnica, raccomandavano di interpretare dalla superficie in profondità. La nostra linea teorico-clinica non si riconosce appieno in nessuno dei due grandi raggruppamenti in cui Kernberg (2001) ha suddiviso la psicoanalisi di lingua inglese e praticamente mondiale, il primo, cui siamo più vicini, costituito dai neofreudiani – kleiniani – indipendenti inglesi e il secondo dagli indirizzi interpersonali – della Psicologia del Sé – intersoggettivo. La nostra linea è più inclusiva perché, dal punto di vista clinico, tiene anche presenti i contributi della Psicologia del Sé e, per quanto riguarda la terapia dei pazienti più regrediti, alcuni aspetti intersoggettivi (che sono già stati in fondo già prima utilizzati da Benedetti nella terapia delle psicosi) e si avvicina quindi alle proposte di F. Pine (1988, 2008), R. Stein (1995), Gabbard (2007), Wallerstein (1988), ecc. L’idea è che nel caso del processo terapeutico con pazienti diversi e con lo stesso paziente in momenti diversi della terapia occorre fare riferimento a tutti e quattro i modelli teorico-tecnici più importanti della psicoanalisi, cioè la teoria pulsionale, la Psicologia dell’Io, la teoria delle relazioni oggettuali, la Psicologia del Sé. F. Pine (1988) raccomanda che le teorie cliniche “vengano sempre mantenute sullo sfondo delle nostre menti come modi potenziali di organizzare il materiale, in modo che al tempo stesso venga salvaguardata l’attenzione liberamente fluttuante”.É un concetto simile a quello di “reflection-in-action” suggerita più avanti da un intersoggettivista come Aron (1988). Voglio ricordare l’affermazione di Thomä e Kächele (1900): “La psicoanalisi vive, nella sua globalità, di integrazione, mentre i singoli orientamenti teorici tentano di affermare le proprie concezioni unilaterali”.
Vorrei ora chiarire bene rispetto alla nostra linea che parlare di integrazione non significa eclettismo, nel senso che ogni teoria possa essere utilizzata. Quindi in primo luogo la nostra linea, sulla scia, come ho già detto, del pensiero freudiano, considera la psicoanalisi come una scienza rispetto ai principi di base e come un’impresa umanistico-scientifica dal punto di vista clinico, perché è proprio della scienza ricercare “la verità” al di là delle apparenze. L’elemento scientifico è costituito prima di tutto dalla teoria di base o metapsicologia, fondata sulle sue radici biologiche, validata, modificata e complessificata dalle recenti ricerche neuroscientifiche (Pankseep J. 1988, Pankseep J. E Biven L. 2012, Solms M. 2018). Occorre a questo proposito ricordare la raccomandazione di B.B. Rubinstein (1975) che la teoria di base deve essere validata da ricerche extracliniche: la ricerca intraterapeutica o diadico-specifica non può avere valore scientifico, anche se ha un grande significato euristico. Ha scritto Solms (2018, 1, p. 7-16): “Le emozioni di base, che sono innate, attivano comportamenti istintuali, che sono schemi di azione che eseguiamo per soddisfare i nostri bisogni”.
Ma anche la teoria clinica poggia su alcuni elementi fondamentali validati da ricerche extracliniche: naturalmente in primo luogo quello di inconscio, declinato oggi in ambiti o funzioni diverse, ma anche i concetti di difesa e di transfert. Da sottolineare che gli elementi transferali risultano, anche dalle ricerche di D. Westen (2007), essere indipendenti dall’orientamento teorico del clinico. La visione scientifica della psicoanalisi si accorda dal punto di vista ontologico e epistemologico con i concetti di realismo critico (Holt 1989, Hanly e Fizpatrick Hanly 2001), di realismo umile (Eagle et al. 2001), secondo cui il paziente viene in terapia con una sua struttura preesistente all’incontro terapeutico, i cui contenuti inconsci sono conoscibili per quanto in maniera probabilistica.
Proprio per chiarire che integrazione non significa eclettismo, noi non condividiamo certe posizioni dell’intersoggettivismo estremo come quelle socio-costruttivistiche di Mitchell (2000), che ritiene che la mente sia costituita o attraversata da rappresentazioni e stati d’animo fluidi, mutevoli, continuamente legati alle situazioni relazionali del momento; né ovviamente concordiamo con le idee di intersoggettivisti come Jacobs (1993) e Orange (1995), che tendono ad annacquare i concetti di transfert e controtransfert a favore di quello di intersoggettività. Un altro punto da sottolineare, senza alcun intento di sistematizzazione, riguarda la teoria dello sviluppo di Kobut relativa ai concetti di narcisismo e di Sé, cioè la teoria del doppio asse: la tesi secondo la quale il Sé si sviluppa in maniera indipendente dalla relazione oggettuale. Mi pare più convincente la visione dello sviluppo del senso di identità come legato all’interazione di tutti i vari fattori che stanno alla base dello sviluppo normale e patologico.
Infine un aspetto fondamentale della impostazione ideica, «filosofica» della Scuola è data dal porsi come «sistema aperto», concetto che Cremerius ha mutuato da quello di Popper (1942) di società aperta. L’elemento portante di questa impostazione, che dà veramente un’impronta psicoanalitica alla formazione è costituita dal rifiuto dall’istituto dell’analisi didattica: i candidati sono liberi di fare la loro analisi personale con un buon analista di loro scelta, qualunque sia il suo indirizzo teorico e clinico. In questo modo vengono evitati l’indottrinamento dei candidati e l’insolubilità del transfert intrinseci all’analisi didattica. Solo nel 2012 la S.P.I. ha abbandonato l’analisi didattica, ma per i candidati permane l’obbligo di fare l’analisi con un socio ordinario della stessa S.P.I.. Mi sembra che in questo modo l’impostazione a carattere autoritaristico della S.P.I. rimanga immutata. Il sistema aperto favorisce lo sviluppo nei candidati di un assetto mentale psicoanalitico, cioè aperto, critico, complessificato, creativo: tale assetto mentale permette di affrontare sia con rigore che con flessibilità le diverse patologie, dalle nevrosi ai disturbi psicotici. Credo cioè che vi sia un’interconnessione positiva a feedback tra il clima aperto della Scuola e il quadro teorico-clinico di tipo integrativo che ho descritto, tra il rigore del processo interpretativo e la libertà e creatività terapeutica degli interventi non-interpretativi, soprattutto per quanto attiene alla terapia delle patologie più gravi. Naturalmente l’adozione in ambito formativo del sistema aperto non è esente da problemi e difficoltà rispetto alla selezione dei candidati e alla loro valutazione durante il percorso formativo. Un nodo importante, per quanto riguarda il completamento del sistema aperto, attiene al rapporto tra Scuola e Associazione, nel senso che l’Associazione dovrebbe poter partecipare, nelle modalità opportune, alla indicazione, tra i propri Soci, di alcuni nomi che potrebbero aspirare al ruolo di nuovi Docenti. Altrimenti permarrà una scissione negativa tra queste due realtà del nostro Istituto e soprattutto vi è il pericolo d una perpetuazione di una stereotipicità didattica e formativa.
Nella seconda parte della mia relazione prenderò in considerazione il problema della differenziazione concettuale tra psicoanalisi standard e le cosiddette psicoterapie psicoanalitiche. Alle difficoltà di questa differenziazione hanno concorso vari motivi: in primo luogo la non sistematizzazione da parte di Freud del suo pensiero: la definizione freudiana del 1922, riguardante i concetti basilari della psicoanalisi, cioè i processi psichici inconsci, la centralità della sessualità e del complesso edipico, il transfert e le resistenze, appare non approfondita e non articolata, e riguardante soprattutto il piano clinico. Ma poi ancora vivente Freud, si svilupparono, nel main stream (in primo luogo la teorizzazione Kleiniana) e al di fuori di esso, indirizzi teorici e clinici che mettevano in discussione molti aspetti del pensiero freudiano: nello sviluppo dell’infante e nel processo terapeutico vennero sempre più sottolineati gli aspetti relazionali, spesso a scapito della conflittualità edipica e della sessualità a favore della fase preedipica. Negli ultimi decenni le correnti interpersonali, la Psicologia del Sé, quella intersoggettiva, si sono poste in maniera critica non solo rispetto alla metapsicologia freudiana, ma anche rispetto ai concetti clinici di transfert, controtransfert e resistenze. In questi indirizzi la differenza tra psicoanalisi standard e psicoterapie psicoanalitiche è andata sfumando.
Gli importanti tentativi nell’ambito del main stream di definire, almeno dal punto di vista tecnico, gli aspetti essenziali del trattamento psicoanalitico non hanno avuto molto successo: mi riferisco alla formulazione di Wallerstein di «common ground» (1990), che sarebbe costituito appunto dagli elementi della teoria clinica, oppure alla proposta di Gabbard (1995), che vede nel controtransfert l’elemento tecnico comune. In effetti molte sono le ricerche che hanno dimostrato che le basi teoriche dell’analista influenzano e diversificano l’interpretazione del transfert e del controtransfert.
Kernberg in vari importanti contributi (1984, 1999, 2001) ha cercato di definire le differenze concettuali tra psicoanalisi standard, psicoterapia psicoanalitica e psicoterapia psicoanalitica di sostegno. Nell’articolo del 1999 Kernberg sostiene che i fondamenti della tecnica standard sono l’interpretazione, l’analisi del transfert e la neutralità tecnica. La psicoterapia psicoanalitica ha per Kernberg caratteristiche diverse: l’interpretazione si focalizza soprattutto sulle fasi iniziali del processo interpretativo, cioè più sulla delucidazione e messa a confronto che sull’interpretazione dei contenuti inconsci; inoltre l’attenzione si rivolge maggiormente al “qui e ora” che alla ricostruzione della storia pregressa. Per quanto riguarda l’analisi del transfert, si tende a stabilire un maggior collegamento tra transfert e realtà esterna del paziente, nel tentativo di aiutarlo a superare le sue scissioni. Infine la neutralità tecnica viene spesso abbandonata, per esempio allorché è necessario porre dei limiti a certi comportamenti in seduta o fuori dalla seduta. Inoltre per Kernberg nella psicoterapia psicoanalitica non sarebbe possibile il passaggio dall’analisi dell’intersoggettività dei movimenti transfert-controtransfert a quella dell’attività intrapsichica del paziente, cioè il passaggio dalla conoscenza di sé in seconda persona alla conoscenza in terza persona. Tuttavia nelle sue conclusioni egli afferma che tutte le tecniche, se vengono utilizzate in maniera rigida, tendono a limitare la capacità di cogliere la ricchezza dell’inconscio: la particolare relazione tra analista e paziente è di maggiore importanza della modalità tecnica. Mi pare che ci siano alcune criticità nelle formulazioni di Kernberg: in primo luogo egli non fa alcun riferimento alla teoria di base o metapsicologia, che appare indispensabile, anche se oggi profondamente modificata, per caratterizzare la teoria psicoanalitica come scientifica: la metapsicologia è la base comune delle tre tipologie tecniche psicoanalitiche in quanto costituisce l’indispensabile collegamento tra la neurofisiologia e la mente, come per esempio sostenuto da Holt (1994). Probabilmente una delle preoccupazioni di Kernberg è di sottolineare di più gli aspetti concordanti che quelli discordanti tra i diversi indirizzi psicoanalitici. Dal punto di vista tecnico egli pone tra gli elementi essenziali la neutralità, anche se appare evidente in uno dei suoi ultimi articoli (2020) che in alcune situazioni particolari egli utilizzi interventi di tipo relazionale. La nostra visione bipersonale e tripersonale della relazione terapeutica ci permette di utilizzare, oltre alla componente relazionale, accompagnata o seguita dalla riflessione, anche alcuni utili aspetti tecnici della Psicologia del Sé e dell’intersoggettivismo, non solo con i pazienti più regrediti ma anche in situazioni particolarmente difficili del trattamento delle nevrosi purché si sia in grado di passare poi a un approccio interpretativo, tripersonale, cioè in terza persona, dei contenuti inconsci del paziente. Inoltre, a differenza di Kernberg, troviamo possibile e utile fare interpretazioni vere e proprie, passando prima attraverso il preconscio, anche nella terapia dei pazienti gravi.
Vengo ora a prendere in considerazione il pensiero di Merton Gill, un pensiero abbastanza alternativo a quello di Kernberg Gill, originariamente rappresentante della Psicologia dell’Io americana e collaboratore di Rapaport, ha presentato nel corso della sua opera una notevole evoluzione dalle posizioni classiche del 1951-54 a quelle relazionali e costruttivistiche, formulate dal 1976 al 1994. Egli distingue tra criteri estrinseci e criteri intrinseci della tecnica psicoanalitica, considerando i primi non come fondativi e indispensabili, ma relativi alle varie situazioni psicopatologiche, sociali, economiche del paziente, e i secondi come fondativi, in quanto espressione dell’elemento basico della psicoanalisi. I criteri estrinseci riguardano la frequenza delle sedute, l’uso o no del lettino, la selezione dei pazienti in base alle possibilità terapeutiche che essi offrono. Nella misura in cui viene riconosciuta alla terapia psicoanalitica il carattere dell’interattività, il numero settimanale delle sedute non può avere un carattere rigidamente prestabilito, lo stesso vale per l’uso o no del lettino: anche l’entità e la modalità del compenso vanno entro certi limiti contestualizzati.
Se si fa l’analisi del transfert, il che implica ovviamente quella delle resistenze e del controtransfert, anche la terapia delle psicosi, dell’età evolutiva, quella di gruppo e quella in ambito istituzionale solitamente a una seduta la settimana vis-à-vis, sono pienamente psicoanalitiche. Gill, nel suo libro sull’analisi del transfert del 1982, mette l’accento appunto sugli aspetti resistenziali del transfert, e in particolare sulle resistenze a prendere consapevolezza del transfert oltre che sulle resistenze alla risoluzione del transfert. Voglio ricordare a questo proposito che nel mio articolo del 1999 sulla psicoterapia della schizofrenia ho descritto anche le interpretazioni sulle grosse resistenze allo sviluppo del transfert positivo nei pazienti psicotici. Tuttavia, per quanto riguarda appunto i pazienti più regrediti, vi è un’importante differenza tra la nostra linea e quella dello stesso Gill, come di altri autori, allorché questi sostengono che nei pazienti border-line e ancora di più in quelli psicotici il transfert non dovrebbe essere analizzato (Gill 1994, pag. 67); invece io credo che questa posizione non sia utile se assunta in linea di principio o assolutizzata. Naturalmente la possibilità di analizzare il transfert va valutata attentamente caso per caso in relazione alla capacità del paziente, in quel momento della terapia, di accogliere, recepire l’attività interpretativa anche solo a livello preconscio, e di elaborarla. Per altro, negli stati psicotici, oltre a considerare attentamente il timing, è necessario dare all’interpretazione una forma linguistica particolare, che cioè non leda il fragile narcisismo del paziente e che non lo anticipi mai, se non in situazioni particolarmente difficili, a volte pericolose o drammatiche o prodromiche a un’interruzione della terapia. Credo comunque che in generale, se teniamo presenti tutte e quattro le psicologie della psicoanalisi, abbiamo maggiori possibilità di cogliere attraverso l’interpretazione lo spettro dei vari riferimenti e significati del transfert. La capacità di lasciar fluire, scorrere stati d’animo controtransferali diversi e di processarli, a volte nell’immediato, con riguardo alle nostre varie teorie, permette di cogliere in maniera probabilisticamente veriteria il transfert nei cari momenti del processo. Come ho già sottolineato, nell’interpretazione del transfert e del controtransfert vi possono essere notevoli differenze (ricordiamo su questo punto l’importante lavoro di S. Stein 1991), in quanto le diverse teorie cliniche tendono a mettere l’accento su visioni e aspetti diversi. Questo ci obbliga ad approfondire nei limiti del possibile la proposta di Gill nel senso di di precisare la tipologia delle quattro psicologie della psicoanalisi. Per esempio, per quanto riguarda la teoria relazionale, particolarmente convincente appare la teoria bi e tripersonale di Balint e, per quanto riguarda i disturbi psicotici, molto importanti sono i concetti transizionali di Winnicott. Per quanto riguarda Balint (1968), continuatore di Ferenczi, ricordo la sua distinzione tra l’area del difetto fondamentale, bipersonale, e l’area del conflitto edipico, tripersonale. Balint si differenzia sia dal concetto di narcisismo primario di Freud, che sostituisce con quello di amore primario (1952), sia dalla formulazione di M. Klein, che vedeva il costituirsi dell’oggetto materno come legato soprattutto alla proiezione di fantasie infantili; Balint considera la reciprocità come il fondamento della formazione dell’oggetto. Da questa posizione teorica deriva la sua proposta antesignana degli interventi di autodisvelamento, cioè di comunicare al paziente la comprensione dell’analista, questi a volte deve porsi come “un oggetto che soddisfa il bisogno”, per evitare la regressione maligna del paziente (1968, p. 308).
La terza parte della relazione vuole prendere in considerazione gli aspetti teorici e clinici comuni, che stanno alla base del trattamento di tutte e tre le patologie fondamentali, nevrosi, border-line, psicosi, e gli aspetti tecnici che invece differenziano nettamente i tre approcci.
L’aspetto fondamentale della psicoanalisi come scienza, concezione epistemologica che per altro non è condivisa da tutti gli indirizzi psicoanalitici, in particolare da quelli interpersonali, intersoggettivi, o del Sé, è costituito dalla sua teoria di base, che è attualmente una visione modificata e complessificata della teoria pulsionale freudiana. Le recenti ricerche neurofisiologiche (Panksepp J. 1998, Panksepp J e Biven L. 2012, Solms M 2019), dimostrano, come è proprio del pensiero freudiano, che alla base della nostra vita psichica e fisica stanno le pulsioni o, come si dice oggi in un’accezione concettuale diversa, i sistemi appetitivo-affettivi, e qui la differenza è decisiva rispetto a molte correnti psicoanalitiche attuali, che considerano la mente come una costruzione sociale legata alle mutevoli interazioni sociali. Inoltre, ancora nell’ambito della metapsicologia, ma anche della clinica, il concetto di difesa, e in particolare di rimozione, considerata da Freud «il pilastro» della metapsicologia (1914, p. 389), è stato confermato a livello neurofisiologico attraverso tecniche di neuroimaging. Lo stato di difesa, come pure le situazioni transferali, attivano nodi associativi specifici in determinate aree del cervello (D. Westen, 2007, 23). Le difese e quindi le resistenze compaiono in tutte e tre le patologie, seppure ovviamente in maniera diversa. Essenzialmente possiamo dire che nelle nevrosi è in primo piano la rimozione, nei disturbi border-line la scissione, il diniego, l’identificazione proiettiva e introiettiva, negli stati schizofrenici la frammentazione delle rappresentazioni e degli affetti, che per via della proprietà autoorganizzatrice del Sé vengono a costituire, attraverso composizioni delle difese primitive, le difese autistico-simbiotiche o narcisistico-strutturali (Elia 1998) date dai deliri, allucinazioni, ritiro autistico. Ma nell’ambito della tecnica, aldilà dell’analisi del transfert, seppure effettuata con tempi e modalità diverse, che è comune a tutti e tre i trattamenti, vi sono notevoli differenze. Nelle nevrosi l’intervento fondamentale è appunto l’interpretazione del transfert e delle resistenze e il focus è sulla conflittualità edipica, ma vanno utilizzate anche interpretazioni ricostruttive. Si arriva all’interpretazione dei contenuti inconsci attraverso i vari interventi preinterpretativi, l’osservazione, il confronto, la riformulazione, i collegamenti tra elementi apparentemente lontani tra loro della seduta o delle sedute precedenti, tra transfert ed extratransfert; si focalizzano discontinuità nel linguaggio, si operano generalizzazioni o categorizzazioni da elementi particolari di pensiero a un livello più astratto (Elia 2011).
Nei disturbi border-line e narcisistici (sono i pazienti che nella nostra pratica vediamo oggi più frequentemente), la tecnica si discosta parecchio da quella standard. Questi pazienti presentano un quadro psicodinamico di tipo prevalentemente orale aggressivo-respingente e/o orale-richiedente legato alla mancanza o scarsità di introietti buoni e al conseguente deficit di mentalizzazione. Con i pazienti border-line sono in primo piano la partecipazione empatica, gli sforzi del tarapeuta volti a far emergere la motivazione del paziente, in modo che si possa sviluppare attraverso il transfert positivo l’alleanza terapeutica e possibilmente impedire i facili drop-out, la grande flessibilità dell’analista; questi, se da un lato deve rimandare il processo di autoriflessione del paziente a quando si sarà stabilita l’alleanza terapeutica, dall’altro, di fronte all’intensità dei fenomeni proiettivi, degli enactment e degli acting-out, deve a volte utilizzare interpretazioni dirette, non insature, degli atteggiamenti transferali ed extratransferali, che possono mettere in forse la continuità della terapia. Nei casi più gravi sono opportuni anche interventi del tipo delle «azioni affettive» (Elia 2011), sia di carattere positivo che negativo, controaggressivo. Le azioni affettive si esprimono, oltre che sul piano linguistico, anche mediante la mimica, la gestualità, la corporeità: poiché trasmettono oltre agli affetti darwiniani, anche gli affetti vitali, cioè forma, ritmo e intensità del gesto e delle parole, si collocano su un piano concretistico, presentazionale, perché molto spesso il livello simbolico è inattingibile per il paziente. Le azioni affettive vanno distinte dagli interventi supportivi e dagli enactment del terapeuta, perché sono sia riflettuti, pensati, che legati alla spontaneità affettiva della situazione transfert-controtransferale. È possibile che le azioni affettive, positive se hanno il carattere della mutualità, negative se quello del rifiuto e della controaggressione, aggirino le resistenze agendo sugli affetti per così dire «da dietro», e andando ad incidere sugli schemi-immagine primitivi della memoria implicita (Lakoff 1987, Mandler 1992-2004, Stern 1985), soprattutto su quelli relativi allo schema fondamentale «Sé cattivo-affetto negativo-oggetto cattivo».
La terapia psicoanalitica degli stati psicotici è, per così dire, una bandiera della Scuola. La nostra tecnica, che anche qui è a carattere integrativo nella scia del pensiero di G. Benedetti, tiene conto sia della prospettiva Kleiniana che, centrata sul conflitto, si focalizza sull’attività interpretativa, sia dell’approccio interpersonale (Sullivan, Arieti, Searles), che si focalizza sul deficit e perciò sulla partecipazione dell’analista, sulla simbiosi terapeutica, ecc.
La schizofrenia, come è ben noto, si manifesta con una sintomatologia molto variegata, che nel mio modello psicodinamico (Elia 2015) si inquadra nella dialettica relazionale o arelazionale di tipo autistico-simbiotico. L’autismo è simbiotico e la simbiosi è autistica. Poiché ci troviamo ad affrontare i quadri più diversi, è molto difficile tracciare una linea tecnica univoca, in situazioni che sono sempre complesse non solo dal punto di vista psicopatologico, ma anche sociale, culturale ed economico. L’approccio psicoanalitico, sempre accompagnato dai sostegni farmacologici e riabilitativi, trova il suo luogo di elezione nelle strutture pubbliche e nelle comunità, in situazioni che sono spesso di estrema difficoltà: qui la tecnica psicoanalitica e il Sé del terapeuta si dispiegano ai limiti delle possibilità. Ma comunque noi, colleghi e Allievi, ci siamo in queste terapie, con realismo, consci dei nostri limiti e di quelli del paziente, delle situazioni di realtà e delle possibili frustrazioni, sensi di impotenza e di delusione. Credo che nell’approccio iniziale molto si giochi sulla capacità dell’analista di stabilire una relazione col paziente, di sviluppare il suo transfert positivo, attivato dal transfert positivo e dalla capacità di iniziativa e di creatività del terapeuta Il rigore di questa terapia si pone nella misura quantitativa e qualitativa della componente della intersoggettiva e nell’uso, mediante modalità specifiche, dell’interpretazione; anche il transfert va interpretato, appena è possibile, appena cioè il controtransfert ci dice che il paziente è in grado di cogliere l’interpretazione. Lo scopo iniziale della terapia è la cocostruzione o la coricostruzione del Sé frammentato, in quanto, come ha sottolineato J. Parnas (2012), il nucleo patologico centrale della schizofrenia è costituito da un’alterazione del nucleo basico e preriflessivo del Sé. Il Sé preriflessivo corrisponde ai concetti di «Sé emergente» di D. Stern (2000), di «Sé nucleare» di Panksepp (2012) e di «Proto-Sè» di Damasio (3012); si tratta di costrutti neuropsicologici che fanno riferimento a uno stato primario affettivo nel senso del sentimento elementare di esistere. Gli interventi di comunicazione di stati affettivi del terapeuta avvengono, oltre che mediante il canale verbale, anche attraverso quello gestuale, a volte corporeo, quello figurativo con il lavoro sui disegni, e si collocano in quella dimensione relazionale e intersoggettiva che si può chiamare di quasi-simmetria.Si tratta di interventi non-interpretativi a carattere simbolico (il concetto di simmetria simbolica è di G. Benedetti, 1980,1981), o di azioni affettive a carattere metaforizzante, cioè favorenti la comprensione metaforica da parte del paziente del proprio comportamento. Invece la dimensione asimmetrica della relazione terapeutica riguardo il processo preinterpretativo e interpretativo, che, come ho detto, tende a mettere in atto appena è possibile. Tuttavia, in situazioni particolari, e soprattutto quando si teme un’interruzione della terapia o un acting-out, è necessario fare interventi sulle resistenze allo sviluppo del transfert positivo e della relazione. Le interpretazioni esplicative sui deliri e sulle allucinazioni vanno in genere riservate a fasi ulteriori della terapia, soprattutto quando i sintomi positivi siano entrati nel transfert.
Infine, la terza dimensione della relazione, quella dissimmetrica, riguarda il segno del no, la prescrizione di limiti, la distanza, la controaggressione, interventi che magari andranno spiegati o interpretati, al paziente, l’ironia sul delirio, il paradosso.
In conclusione, la mia proposta, il mio auspicio, è che le diverse tecniche psicoanalitiche possano essere denominate terapie psicoanalitiche delle nevrosi, degli stati border-line, degli stati psicotici, e che, comunque, se parliamo di psicoterapie, non le consideriamo come meno rigorose della psicoanalisi standard, anzi al contrario vanno considerate più complesse e difficili, tanto da impegnare completamente tutte le risorse, cognitive e affettive del Sé terapeutico.
Credo che, se oggi stessi con i miei colleghi di allora progettando la fondazione della nostra Scuola, ne proporrei la denominazione di Scuola di Terapia Psicoanalitica.