Guido Medri è stato il mio analista e successivamente mio docente, maestro e collega.
Ho meditato a lungo sul fatto se fosse opportuno scrivere qualcosa per ricordarlo; la profondità del rapporto che mi lega a lui è così elevata, che temevo di non riuscire ad esprimerla adeguatamente in uno scritto.
Poi ho pensato che cosa mi avrebbe detto lui e presumo che sarebbe suonato più o meno così: “Dr. Fiocchi”, mi ha sempre chiamato così, “io, qualcosa scriverei… Comunque, veda lei”.
Nutro nei confronti di Guido Medri un profondo affetto e una forte riconoscenza: gli sono, per buona parte, debitore di quello che ho costruito umanamente e professionalmente nella mia vita. Ciò non vuol dire, naturalmente, che nel rapporto terapeutico e professionale che ho avuto con lui non ci siano stati momenti, nei quali ho provato dei sentimenti ambivalenti. Credo anche che fossimo caratterialmente molto diversi: in ogni caso ci univa un profondo rispetto reciproco e una comune capacità autoironica.
Per descrivere Guido Medri, utilizzo un autore caro ad entrambi: si tratta dello psicoanalista statunitense P. Bromberg[1], che in un articolo del 1995, scriveva: “il paziente non ha bisogno di un santo come analista, ha bisogno di autenticità” (p. 144).
Qui mi ricollego a quanto già scritto e detto da molti nel ricordarlo. Aggiungo che l’autenticità di Medri era talmente forte che, in alcuni casi, poteva assumere modalità non convenzionali e spiazzanti. Ciò dava all’incontro terapeutico con lui una cornice fortemente umana pur nell’asimmetria dei ruoli. Ma lo stesso si può sostenere nella sua attività di docente e supervisore: talvolta era capace di comunicarti cose molto scomode, ma sempre con profondo affetto e sincerità.
Era impossibile non volergli bene anche quando ti mostrava i tuoi limiti oppure aspetti di te che non ti piacevano affatto.
Un’altra caratteristica di Guido Medri da evidenziare era la passione che metteva nel suo lavoro di psicoanalista. Ciò lo ha portato, tra l’altro, ad esercitare la sua professione fino a poco prima di morire, nonostante la grave malattia che lo affliggeva. Era una passione contagiosa, che inevitabilmente ti coinvolgeva.
Concludo con un breve passaggio tratto dalla mia analisi personale. Durante una seduta avevo parlato a lungo delle mie difficoltà; Guido Medri, dopo una breve riflessione silenziosa, mi disse: “Dottore, non vorrei davvero essere nei suoi panni”. Gli risposi ringraziandolo ironicamente per l’incoraggiamento. A quel punto, cominciammo entrambi a ridere di gusto.
Anche se può sembrare paradossale, credo di essermi sentito poche volte così compreso empaticamente come in quella situazione, nonostante la modalità assolutamente non convenzionale di esprimermi vicinanza.
[1] P. Bromberg (2007), Clinica del trauma e della dissociazione – Standing in the Spaces, Raffaello Cortina, Milano.