Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 24
1 - 2021 mese di Giugno
IL CONTRIBUTO SCIENTIFICO DI GUIDO MEDRI ALLA PSICOTERAPIA PSICOANALITICA INDIVIDUALE DELL’ADULTO
UN RICORDO DI GUIDO MEDRI
di Giorgio Landoni

Buongiorno a tutti.

Vi sono molto riconoscente di avermi invitato a parlare di Guido Medri nel giorno a lui dedicato dagli amici e dai colleghi della sua Scuola.

Non è un intervento scientifico il mio e neppure storico: me ne manca il metodo ma in più non possiederei la necessaria distanza emozionale dai fatti che narrerò né, a dire il vero, voglio averla. 

Racconto un’esperienza sotto forma di ricordo, rapsodico e aneddotico, parziale quindi e sottoposto a tutte le limitazioni del caso. Nessuna pretesa di dire tutta la verità: parlo solo dei miei ricordi, di quella parte di vita che mi sembra di avere ancora presente quando penso, io, al giovane Guido Medri.

 

L’INIZIO

Ci conoscemmo, Guido e io, nel Novembre 1960, giovani studenti universitari, all’inizio del 2° anno del corso di Medicina e Chirurgia. Ci presentò un amico comune, Marco Rizzi che come lui abitava nel lodigiano.

Mi ero candidato, per celia direi, alle elezioni del Consiglio di Interfacoltà, una sorta di parlamentino che univa gli studenti delle varie facoltà dell’Università degli Studi di Milano.

Nacque una simpatia reciproca, immediata, della cui origine allora nulla potevo immaginare perché non pensavo neppure che ci si potesse interrogare al riguardo.

Ora ne so forse qualcosa in più: era la comunità inconscia di una vocazione che solo col tempo avrebbe assunto una forma precisa.

Guido disse che mi avrebbe votato e si spese molto per la mia minuscola campagna elettorale.

Venni eletto con grande sorpresa, mia e di tutti ma non sua. Quello che mi disse fu come la prima interpretazione che io abbia ricevuto: “Ma se ce la fanno gli altri, perché tu non dovresti?”. 

Parlo di interpretazione e la mia risposta sembra confermare che così fosse: “È vero... non ci avevo pensato”.

L’inconscio era lì con noi.

Questo era Guido: aperto, ottimista e ardito senza eccessi in un senso o nell’altro, fiducioso e capace di infondere fiducia. Si avvertiva che in lui non vi erano retropensieri. Era generoso: sapeva darsi senza timori pur essendo attento a coloro con i quali trattava.

Quando ebbi modo di conoscerlo meglio capii che, al di là della disinvoltura che ispirava simpatia, vi era in lui anche un fondo di  ritegno e di discrezione su di sé e sui suoi sentimenti. Non parlava molto di sé: forse preferiva farsi conoscere attraverso il suo modo di essere.

Il mio ricordo assume una consistenza particolare quando ripenso agli ultimi due anni del corso di laurea in Medicina e Chirurgia. 

In precedenza non vi è nulla di particolarmente significativo su cui soffermarsi. La nostra era la comune situazione di giovani studenti che, con alterna costanza, seguivano corsi e lezioni nella zona di Città Studi, intorno a via Mangiagalli dove si concentravano gli insegnamenti principali

Non eravamo in molti, circa trecento all’inizio del corso di laurea e quindi ci conoscevamo tutti, compresi i fuoricorso.

Non esistevano cellulari e gli spostamenti non erano così facili come ora: la prima linea della metropolitana venne inaugurata nel 1964 e le auto, quando c’erano, appartenevano ai genitori. 

La frequentazione dei corsi universitari forniva uno schema che organizzava la nostra esistenza anche sul piano sociale. Ci muovevamo in tre, affettivamente intendo, comprendendo Marco Rizzi nel nostro rapporto. 

Iniziammo a interrogarci in modo più profondo sul nostro avvenire con il passaggio alla fase propriamente clinica della formazione, al quarto anno.

Guido e Marco furono allievi interni nella Clinica medica di Luigi Villa (Padiglione Granelli del Policlinico) mentre io lo fui a Patologia medica da Guido Melli (Padiglione Sacco).

Sentivamo che quel tipo di medicina non corrispondeva in modo soddisfacente a qualcosa che stavamo cercando: un problema di identità che la tecnica non poteva risolvere.

Il primo a parlare di psichiatria, presentandola come una scelta già effettuata, fu Marco Rizzi. Noi lo seguimmo: non saprei dire con precisione come Guido abbia deciso, so che dal canto mio stavo confusamente orientandomi nella direzione della mente (per un momento avevo pensato alla neurochirurgia).

Era il 1964.

 

LA SVOLTA

La psichiatria era da sempre la parente povera della neurologia e lo psichiatra era un medico di seconda categoria, più custode che curante. L’impronta organicista prevaleva in modo assoluto nell’approccio al disturbo mentale e solo da pochissimi anni e con molta difficoltà si cercava di proporre anche una visione psicologica di esso.

Per gli studenti i testi sui quali formarsi erano il “gozzanino” (un testo riassuntivo del prof. Gozzano) e il “Manuale” di Bini e Bazzi, psichiatri tradizionali, non ignari dell’esistenza della psicoanalisi, ma molto diffidenti, quando non apertamente ostili, nei suoi confronti. 

Farmaci specifici erano appena comparsi: la clorpromazina (Laborit) e l’imipramina (Kuhn) rispettivamente nel ’52 e nel ’57 circa. Vi erano poi alcuni, pochi ansiolitici e sonniferi.

Una battaglia ideologica e quindi di potere, vedeva contrapposti neurologi e psichiatri per affermare il proprio predominio sul mondo della mente ridotto a patologia del sistema nervoso. 

Psicologia e psicoanalisi ritenevano di avere qualcosa da dire ma erano ancora ai margini, pericolosi pretendenti alla parte di una torta che cominciava appena prendere forma.

Basaglia aveva da poco iniziato la sua battaglia riformatrice che altri (Balduzzi a Varese, Benassi a Reggio Emilia, Martini ad Arezzo) conducevano come lui, ognuno a suo modo, ma in fondo sempre in chiave piuttosto sociale e politica più che psicologica.

Questi brevi tratti, nella mia intenzione, dovrebbero servire a delineare per quanto possibile l’itinerario intellettuale di tre giovani poco più che ventenni i quali, inseguendo un sogno che andava faticosamente prendendo forma, trovavano  nello scambio di idee, di informazioni e di progetti un incoraggiamento che permetteva  l’allargamento dell’orizzonte comune.

Probabilmente è un fatto comune in cui molti altri si possono riconoscere. 

Un nome rappresentava allora il tentativo della psichiatria di affermarsi come branca indipendente della medicina: Carlo Lorenzo Cazzullo. 

Professore ordinario di Psichiatria, aveva ottenuto il riconoscimento ufficiale in ambito accademico e si accingeva a fare della psichiatria una specialità del tutto autonoma. 

Giovane, molto intelligente e astuto, politicamente ben introdotto, spregiudicato quanto bastava, ferreo nelle sue pretese ma anche leale nel ricompensare i seguaci, capace di slanci affettivi importanti e di collere improvvise e furibonde, come anche noi avemmo a sperimentare.

Fra le altre leggende su di lui vi era anche quella della sua capacità di battersi gagliardamente in favore dei suoi allievi riuscendo a ottenere per loro risultati importanti. 

Il suo padiglione al Policlinico, la “Guardia seconda”, ci sembrava una meraviglia: attrezzato modernamente, lindo e pulito, si imponeva per la sua novità non solo formale in mezzo alle altre decrepite costruzioni del vecchio ospedale. 

In più, la clinica psichiatrica di Affori da lui diretta era un mondo affascinante e pieno di promesse.

Las but not least, Cazzullo era anche riuscito nell’impresa non facile di rendersi indipendente ma di mantenere rapporti cortesi con Gildo Gastaldi, ordinario di Neurologia dell’epoca a Milano. 

 

LA SCELTA

Nell’estate del 1964, terminato il quinto anno del corso, ci presentammo dunque in tre a Giordano Invernizzi, vice di Cazzullo, chiedendogli di poter frequentare la clinica psichiatrica come “interni” e di poter ottenere lì la tesi di laurea.

Invernizzi era un giovanissimo medico, solo di tre o quattro anni maggiore di noi, simpatico, alla mano pur avendo un piccolo tratto di superiorità che però non faceva pesare: in cuor suo era già professore ordinario. Presentò la nostra richiesta al “capo” che ci ricevette nel suo studio in Guardia  chiedendoci informazioni sui nostri progetti e sul perché volessimo entrare nella sua scuola. Spiegammo le cose come meglio potemmo, forse non male dopotutto visto che ci accettò. 

Eravamo molto imbarazzati, intimiditi, in fondo solo giovani studenti di fronte a un’autorità molto idealizzata. Ricordo bene come lo fosse anche Guido che pure non era certo il tipo che si lasciasse intimidire e mi rimane in mente il sollievo che manifestammo tutti all’uscita, nel sole di una bella giornata di prima estate.

Guido era una persone estremamente pratica, realista, spiccia  a volte, che andava al sodo senza molte esitazioni.

Avevo e mantengo ancora l’impressione che nel suo modo concreto, asciutto ma certamente non arido di vedere le cose, svolgesse un ruolo importante la madre.

Nel mio ricordo la madre di Guido, che incontrai forse un paio di volte e con cui parlai al telefono forse cinque o sei e non di più, fosse per lui la persona di riferimento.

Non ne parlava molto, ma quando questo accadeva, quando la evocava sempre in modo molto discreto, al di là della forma talora lieve di presentare le cose che era anche una sua caratteristica, si avvertiva l’intensità di un legame fatto di affetto profondo, di fiducia e di rispetto.

Non ricordo che abbia mai neppure accennato a suo padre, però, parlando talora del Partito Comunista al quale andava la sua simpatia, la motivava con il sentimento che esso rappresentasse per lui un padre forte, severo ed esigente ma giusto. Si immergeva a volte nelle feste di partito, diceva, solo per partecipare del sentimento emozionante di una forza capace di infondere fiducia e speranza.

Sono i miei ricordi beninteso: non pretendo che essi siano veri, che riguardino altra verità se non quella del mio ricordo di Guido.

Mi sembrò sempre che egli avesse molto pudore dei suoi sentimenti. La sola volta in cui si indusse a svelare qualcosa di molto intimo, fu quando, una decina di anni dopo, mi espresse il suo senso di meraviglia e di riconoscenza verso il destino che sembrava avergli riservato un privilegio singolare: il fatto che la donna che era sua moglie lo avesse scelto.

Credo sapesse riconoscere le situazioni che ci procurano benessere e sapesse anche tenerne conto. 

Non è un dato da poco. 

Non lo sentii mai esprimersi in modo inappropriato nei confronti di nessuno. Anche quando manifestava disapprovazione, e sapeva farlo in modo anche netto e molto deciso, manteneva misura nel tono e nell’espressione. 

Tornando al nostro primo incontro con Cazzullo, diciamo che quella volta egli fu molto accogliente, persino affabile a tratti, come gli capitava di essere a volte con persone molto giovani. 

Iniziammo da lui il sesto anno di Medicina e ci laureammo nel 1965. 

 

UN ANNO IN PSICHIATRIA

Pur provenendo da una scuola neurologica e con un’esperienza americana passata in gran parte a studiare le degenerazioni mieliniche derivanti da encefaliti, in cui era diventato un’autorità riconosciuta internazionalmente, il Prof. Cazzullo non aveva preclusioni particolari nei confronti di altre impostazione e specificamente della psicoanalisi.

Nelle sue cliniche ci si interessava all’approccio psicodinamico della psichiatria francese di Henri Ey e molti fra i suoi allievi più anziani, come Dario De Martis e Raffaele Vanni, erano in analisi. Altri come Fausto Petrella, Dino Lanzara, Maria Grazia Bernetti, Mario Marinetti o allievi della moglie come Carla Marzani e Mario Bertolini, lo sarebbero stati di lì a qualche tempo. 

All’esterno, qualche psicoanalista iniziava a operare anche in altre istituzioni pubbliche: Fornari e Fachinelli a Ville Turro mentre Diego Napolitani apriva la prima comunità terapeutica. 

Per quanto il primo contatto con il mondo psichiatrico fosse interessante e le notizie che circolavano ci riempissero di curiosità, una cosa ci pareva mancare: la possibilità di fare l’esperienza diretta del rapporto con i pazienti, il fatto di poterli ascoltare per capire, se possibile, di cosa fosse fatto il loro “male”. 

Due eventi accaduti tra la primavera e l’autunno del ‘65  indirizzarono in maniera precisa le nostre scelte. 

Il primo, in primavera (potrei ricordare male l’epoca ma non l’anno), fu l’invito di  Cazzullo al direttore della clinica psichiatrica universitaria di Losanna (Ospedale di Cery). 

Christian Müller, psichiatra e psicoanalista, era fra i pionieri in Europa dell’approccio psicoanalitico alla schizofrenia insieme a Paul Claude Racamier che con lui collaborava e a Gaetano Benedetti, italiano di Basilea. Venne a Milano e illustrò di fronte a un’assemblea molto attenta il modello di Cery in cui l’inserimento di un elemento socio-psicologico nella visione complessiva del disturbo mentale era un fatto acquisito che permetteva di collaborare al di là dei contrasti personali, ideologici e di potere, che pure esistevano fra i vari responsabili dei servizi.

Assistemmo dal vivo al manifestarsi di un forte conflitto tra psichiatri e psicoterapeuti, unicamente psicoanalisti in quel momento.  

Per questi ultimi parlò Franco Fornari sottolineando polemicamente  il contrasto fra l’inclusivo modello losannese e la realtà italiana che tendeva invece a emarginare ogni approccio psicologico. Ne scaturì un confronto robusto di fronte a un perplesso Müller che evidentemente faticava a capirne le ragioni. 

Quando fui a mia volta a Cery, Müller rievocò quell’episodio del quale non riusciva ancora a capire i motivi, tanto la vis polemica degli uni contro gli altri lo aveva impressionato. Neppure noi capimmo allora, ma ricevemmo un’impressione profonda che ci illuminò, almeno in parte, su una certa   insoddisfazione della quale ancora non coglievamo pienamente il senso. Semplicemente, ci dicemmo, esisteva qualcosa d’altro. 

Ne conseguì il secondo evento significativo di quell’anno.

In autunno chiedemmo un colloquio a Pier Francesco Galli che allora stava a Milano in P.zza S. Ambrogio.

Galli era rientrato da alcuni anni a Milano dopo un periodo di formazione trascorso in Svizzera, alla Friedmatt di Basilea.

Egli era molto attivo nel favorire il diffondersi della psicoanalisi anche fuori dai canali istituzionali ufficiali, peraltro molto ridotti, che tendevano da un lato a costituire posizioni gerarchiche di potere incongruenti con i presupposti della disciplina stessa e dall’altro a rinchiudersi in un ridotto di stampo ideologico che ignorava ogni realtà esterna. 

Tutti conoscono Galli e tutti noi sappiamo quanto gli debbano sia la psicoanalisi che la psicoterapia analitica in questo paese. Egli rappresenta un fenomeno di portata storica per la psicoanalisi italiana, al livello della stessa SPI e forse anche oltre, per la vivacità intellettuale e la libertà di pensiero delle quali si è sempre fatto portabandiera anche attraverso il disoccultamento di posizioni occlusive, stabilite sulla base di presupposti teorici utilizzati talora in modo fuorviante. 

Egli apparteneva a quel gruppo di persone che si interessavano acutamente alla direzione che lo studio della mente stava prendendo nel mondo. Sapeva di Rosen e di Arieti, delle diverse scuole derivate dalle capacità innovative di pensatori come Erich Fromm e Frieda Fromm Reichmann, o come Sullivan, conosceva la terapia di gruppo così come le ricerche di Madame Sechehaye e di altri sulla schizofrenia in Svizzera.

Insomma Galli rappresentava per noi la risposta all’idea di spostare l’asse della psichiatria in direzione psicologica. 

Non ci fece attendere ma ci ricevette rapidamente e, dopo averci lasciato parlare, ci spiegò le cose in modo accurato. 

Fu lui a presentarci la psicoanalisi come un momento centrale della formazione di chi, come noi, volesse occuparsi della mente umana uscendo dagli schemi medici che sentivamo come insoddisfacenti, incapaci di fornirci spiegazioni non sulla forma del disturbo ma sulla sua dinamica. Fu ancora lui a mostrarci come le necessità dell’ambiente accademico nel quale ci trovavamo ci mettessero in contraddizione con le nostre aspirazioni di esplorare e capire, di metterci in gioco non solo sui libri ma anche nella realtà del mondo.

Ci suggerì alla fine di prendere qualche contatto con quegli ambienti svizzeri da dove lui stesso era passato e dove si trovavano altri colleghi di poco più anziani di noi, come per esempio Giampaolo Lai  allora a Losanna da Müller.

Seguimmo il suo suggerimento e scrivemmo al Prof. Rémy, direttore di Marsens nel cantone di Friborgo e al direttore di Malévoz, ospedale del Vallese chiedendo informazioni circa i posti disponibili nei loro servizi. Ci risposero subito: il primo ci avrebbe tenuti presenti poiché si sarebbero liberati due posti l’estate successiva, mentre il secondo non poteva dirci nulla al momento.

Nell’attesa pensammo che sarebbe stato utile esplorare l’ambiente italiano e iniziammo un periplo per numerosi ospedali e cliniche psichiatriche in varie regioni d’Italia. 

Fummo a Brescia dove era Cargnello, a Varese da Balduzzi che iniziava esperienze di trattamenti aperti, sulla linea di Basaglia anche se in modo meno dirompente, a Reggio Emilia dove Benassi dirigeva l’ospedale psichiatrico con una sezione giudiziaria.

Fummo Parma dove insegnava Visentini, a Padova da Barison, in un vecchio ospedale psichiatrico tradizionale, abbastanza lugubre e a Pisa da Sarteschi, della cui clinica universitaria si diceva un gran bene.

Non eravamo molto in chiaro su quello che stavamo facendo: ci muoveva la ricerca di un obiettivo di cui solo la psicoanalisi ci avrebbe permesso, in seguito, di delineare i contorni. Per il momento esso appariva in negativo: non volevamo omogeneizzarci nel gruppo e così rischiare di afflosciarci e perderci inseguendo il sogno illusorio di una carriera.

Partivamo la mattina in auto, raggiungevamo la nostra destinazione, raccoglievamo le idee parlando mentre mangiavamo qualcosa in un bar e rientravamo per la sera.

A tutti chiedevamo informazioni, chiarimenti anche qualcosa sulle eventuali possibilità di trovare un posto in queste strutture. In genere ci guardavano con perplessità: perché mai volevamo lasciare Cazzullo? 

La nostra ricerca sembrava assurda: stare da Cazzullo voleva dire garanzia di specializzazione, di guadagno dignitoso in breve tempo e di formazione abbastanza libera.

Cosa cercavamo dunque? Ripeto: forse solo noi stessi, ma questo posso dirlo solo oggi perché allora non lo sapevamo certamente. Una certa, vaga, chiarezza su se stessi come altri da sé si acquisisce, talora, ma con altri metodi. 

Rammento che all’inizio dell’anno successivo, ormai a Castiglione delle Stiviere, riunendoci la sera per parlare fra di noi degli avvenimenti del giorno, ci accadde di tentar di descrivere i nostri rispettivi caratteri. Ognuno parlò di sé e poi lasciò che gli altri esprimessero il loro punto di vista. Quando cercai di descrivere come vedevo me stesso, sia Guido che Marco sorrisero lanciandosi un’occhiata scettica di intesa, un sottinteso gentilmente canzonatorio. 

Forse qualcosa mi stava sfuggendo.

 

PARENTESI IMPORTANTE

Eravamo arrivati quasi per caso a Castiglione delle Stiviere, all’inizio di Dicembre del 1965.

Era un ospedale psichiatrico formato dal consorzio di quattro province (Mn, Cr, Bs, Vr), situato allora in un vecchio convento nel centro della cittadina. La sua denominazione ufficiale era “Manicomio Criminale”. 

Oggi credo si chiami “Ospedale psichiatrico giudiziario”. 

Oltre alla sezione psichiatrica, che accoglieva pazienti cronicizzati, vi erano una sezione giudiziaria e una di neuropsichiatria infantile in un padiglione separato, di costruzione recente, dove operava uno psicologo assunto da poco, il Dott. Gandolfi: era una novità quasi assoluta

Lo dirigeva il Prof. Iaria, di nomina recentissima, che si trovava in una situazione piuttosto scomoda. Arrivato da Roma per sostituire il vecchio direttore andato in pensione, era trattato quasi come un corpo estraneo dai vecchi medici del luogo. Il nostro arrivo gli forniva l’occasione uscire dall’impasse e ci accolse con entusiasmo facendoci immediatamente una proposta eccezionale da ogni punto di vista. 

Di essa faceva parte anche la garanzia di poter accedere alla specializzazione a Modena presso il Prof. Rossini, titolare della Cattedra di Neurologia e Psichiatria e, detto fra parentesi, acerrimo nemico di Cazzullo. 

L’effettiva attuazione delle sue proposte per quanto atteneva la ricchissima (per noi) parte economica, ossia l’assunzione effettiva, era subordinata al superamento dell’esame di stato, ma intanto ci era concesso di frequentare i reparti in modo assolutamente libero, garantendoci vitto e alloggio e lasciandoci completa libertà per quanto atteneva ai nostri interessi di formazione autonoma.    

Iniziammo così a incontrare i pazienti, in numero veramente notevole, primo vero contatto con il mondo al quale volevamo dedicarci. 

Arrivavamo a Castiglione il lunedì e rientravamo a casa il venerdì sera.

Vedevamo decine di casi alla settimana in un’immersione continua in un mondo che non conoscevamo se non dai libri e che poco alla volta ci mostrava il suo volto più affascinante e angoscioso insieme. 

Chi abbia avuto esperienza di quei “cronicari” dai quali sono state tratte le foto che accompagnano la storia impressionante degli ospedali psichiatrici in Italia, può avere un’idea di ciò di cui sto parlando.  

Vedevamo i pazienti sempre noi tre insieme, per ignoranza, per timore, per curiosità, per abitudine, per spalleggiarci e altro ancora certamente. Pensandoci in seguito mi sono detto spesso che quelle persone che noi vedevamo dovevano sentirsi sottoposte da un lato a una sorta di indagine brutale, poliziesca, anche se, dall’altro, forse per la prima volta avevano modo di parlare di sé con l’impressione di essere ascoltati. 

A volte, direi spesso, ne avemmo la conferma e il ricordo ancora mi tocca nel profondo.

I vecchi colleghi che ci avevano accolto con simpatia, seguivano il nostro indaffararci con un disincanto un poco ironico. Il Direttore era lieto: si accumulavano l’una sull’altra cartelle cliniche forse poco precise dal punto di vista clinico ma aggiornate in modo dettagliatissimo.

Tante volte ho ripensato quanto sia stata arricchente per me quella breve esperienza. Guido invece non mi parve molto propenso a parlarne quando ci accadde in seguito di accennarvi. 

Nel mese di Febbraio fummo a Modena dove, superato l’esame di ammissione, ci iscrivemmo alla scuola di specialità.

Era l’addio al passato, a Milano e alla scuola di Cazzullo.

Pensammo di rendergli visita e ringraziarlo per accomiatarci civilmente poiché non ci aveva più visto da qualche tempo.

Ci dissero in seguito che egli aveva pensato che fossimo andati a ricattarlo dicendogli più o meno che ce ne saremmo andati se non ci avesse concesso qualcosa. Non capisco ancora oggi come sia potuto accadere.

Ci ricevette in clinica ad Affori, ma appena iniziammo a parlare spiegando che avevamo deciso di andarcene, balzò in piedi e, minacciandoci con un grosso tomo che aveva afferrato, ci cacciò in malo modo inveendo.

Uscimmo piuttosto frastornati, fra due ali di suoi allievi che ci guardavano in silenzio sbigottiti.

 

IL DISTACCO

Qualche giorno dopo una notizia inattesa ci mise in grande difficoltà: a Marsens, Rémy aveva due posti liberi e ci aspettava in primavera, ben prima del previsto.

Non sapendo che fare e temendo di non poterci spiegare in modo convincente per iscritto, decidemmo di andare  personalmente da lui per chiedere una dilazione almeno fino all’estate, cioè dopo avere superato gli esami di specialità del primo anno al quale ci eravamo appena iscritti. 

Partimmo per Marsens in un buio e freddo mattino, il lunedì 14 Marzo 1966.

Più che un viaggio fu una messa alla prova delle nostre reali intenzioni. Sono tuttora convinto che l’esperienza emotiva di quella giornata abbia segnato le nostre vite in modo inequivocabile, non solo dal punto di vista professionale.

Attraverso il passo del Gran San Bernardo scendemmo a Martigny, nel Vallese svizzero e da lì, costeggiando il Lemano fino a Vevey, prendemmo la strada per l’interno verso il cantone di Friborgo. Arrivammo a Bulle, una cittadina immersa in un’atmosfera grigia, uggiosa e opprimente, verso l’ora di pranzo. Ci fermammo in un ristorante in una piazza rettangolare, inquadrata da alcuni edifici severi, dagli scuri tetti spioventi sui cornicioni dei quali vedo ancora appollaiati un gruppo di corvi immobili.

Vi era in noi un senso di incertezza che andava crescendo mano a mano che la strada si inoltrava in quella campagna deserta, piatta, piuttosto triste, un senso di sbigottimento forse perché oppressi dall’impressione di trovarci in un angolo sperduto di un mondo sconosciuto e poco vitale, almeno in apparenza, ma forse anche di fronte all’idea che forse ci saremmo dovuti separare.   

Marsens, l’edificio dell’ospedale, apparve all’improvviso come sorgendo dal nulla nella campagna. Ci ricevette il vicedirettore. Ci ascoltò e accettò di rinviare all’estate il nostro arrivo, ma confermò che vi sarebbe stato posto solo per due di noi.

Un problema. 

Ci suggerì di visitare Malévoz, l’ospedale del Vallese situato proprio sulla via del rientro in Italia, per vedere da vicino la situazione. 

Eravamo taciturni sulla strada del ritorno, ognuno immerso nei propri pensieri. 

A Martigny, ai piedi del San Bernardo, decidemmo di seguire il suggerimento e svoltammo verso Malley, il luogo dove sorgeva Malévoz.

Qui accadde un imprevisto che ebbe una parte fondamentale nella mia vita e forse anche in quella dei miei amici, poiché sospetto che quanto avevano visto quel giorno avesse fatto fortemente vacillare le loro convinzioni. 

Appena scesi dall’auto a Malévoz, in una sorta di grande giardino che circondava un piccolo edificio di aspetto non sgradevole, si avvicinò a noi un medico in camice: si chiamava Henking, ci aveva sentito parlare italiano ed essendo egli stesso italiano si era avvicinato incuriosito. 

Confermò che non vi era alcuna previsione di posti disponibili ma ci fornì un’informazione sensazionale: Müller stava cercando disperatamente un assistente a Cery. 

Henking ci accompagnò nel suo studio e chiamò la segretaria di Müller con la quale parlò dapprima Guido che poi, scuotendo il capo, me la passò. “Vai tu”, mi disse. Questioni di lingua: non padroneggiava abbastanza il francese.

Presi appuntamento con Müller per il mercoledì 16 Marzo alle 12. 

Rientrammo e fu il momento della separazione poiché il lunedì successivo entravo a Cery.

Ci eravamo detti che si trattava di una separazione provvisoria, che Guido e Marco sarebbero poi venuti a Marsens in estate, ma quando qualche settimana dopo ci vedemmo a Milano i loro programmi erano già mutati: la Svizzera e le sue opportunità di formazione non facevano più parte del loro progetto.

Da quel momento si creò una distanza, dapprima solo   spaziale, poi, col tempo, di interessi e quindi anche di vita. 

Quando ci incontravamo, ogni tanto, in occasione dei miei rientri a Milano lo constatammo con un certo dispiacere ma anche con senso di realtà. Le nostre strade si erano divise e questo era più forte delle nostre intenzioni e dei nostri affetti.

 

ALLA FINE

Ritrovai poi Guido quando rientrai definitivamente in Italia nel 1973.

Mi presentò al gruppo di Via Alberto da Giussano di cui faceva parte.

Marco aveva lo studio nei pressi, in via Ariosto dove si trovava la scuola di psicoterapia che aveva fondato  con un gruppo di colleghi. Era sposato, aveva due figli ed era già molto malato. Morì qualche anno dopo.

Frequentai il gruppo di via Alberto da Giussano per qualche mese, riconoscente verso Guido che mi soccorreva nel mio bisogno di reinserirmi nell’ambiente milanese, ma con un senso crescente di disagio. 

Mi sembrava che attraverso l’affermazione di un desiderio di indipendenza emotiva, culturale e intellettuale dalle istituzioni ufficiali della psicoanalisi, che potevo capire e condividere, si esprimesse nel gruppo anche una sorta di autarchia individuale, quasi l’affermazione sottintesa del principio che regole e legge non fossero una necessità. 

Ne parlammo alcune volte insieme. Gli dissi, per celia ma non completamente, che pareva mancasse un’istanza interiore paterna. Seppi dopo che avevo qualche ragione ma che avevo anche toccato un tasto dolente.

Ci lasciammo poco alla volta, proseguendo ognuno per la propria strada ma mantenendo rapporti cordiali, personali e professionali.

Ci sentivamo, andammo insieme a visitare Marco qualche volta, gli inviavo pazienti e qualcuno mi arrivò da lui. 

Ci vedemmo anche, Guido con la moglie, in vacanza in Sicilia nel 1975. Fu l’ultima occasione in cui passammo un periodo di tempo insieme.

Qualche anno dopo seppi da lui che aveva intrapreso un’altra analisi. Chi ha conosciuto il suo ultimo analista capirà forse il senso della sua iniziativa, almeno parzialmente.

Ma una fase della nostra vita si era ormai chiusa e ognuno se ne andava sul proprio cammino, come sempre accade.

Ci incontrammo una sera, a cena in casa di amici, qualche anno fa. Era già stato ammalato ma si era rimesso e pareva in buone condizioni. Fu molto piacevole. Scherzammo su una persona che io avevo visto qualche tempo prima e che si era poi rivolta a lui trovando che io ero troppo invidioso dei suoi successi.

Fu l’ultima volta che ci incontrammo. 

Seppi poi che stava male, molto male.

Chiesi di lui per restare al corrente ma la sua fine mi colse di sorpresa.

Addio Guido. 

Sei uscito dal tempo, il tempo di una vita che in parte, un tempo, abbiamo condiviso. 

Resta ora il ricordo che non si cancella.

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