Per me è una grande mancanza, mi manca come padre ovviamente, e anche come collega.
Sono cresciuta parlando a tavola del significato dei miei sogni e ho proseguito confrontandomi con lui su questioni personali e lavorative.
Mi raccontava sempre un aneddoto che mi sembra colga il punto del crescere con un padre psicoanalista: “quando hai cominciato a parlare ti ascoltavo stupito, ero un giovane analista in carriera fiero di me, un giorno mi hai detto: ‘ok papà, ma quando ci sposiamo io e te?’ Allora ho capito di non aver capito niente… e ho cominciato la mia seconda o terza analisi”. Così, esplicitamente, si ragionava in famiglia su tutto.
Per mio padre il lavoro era parte integrante della vita, non un orario o un luogo (be’, forse una stanza si). Si muoveva curioso tra la gente, rispettando istintivamente il suo orologio interno, 45 minuti di relazione, dedicati, in ascolto, poi via.
Pensava a quel che significava per lui un pensiero, una sensazione, un sogno sempre in riferimento a qualche caso che aveva tra le mani, fosse un suo paziente o un paziente di un suo allievo o collega a cui stava facendo una supervisione. Spesso, quando gli raccontavo qualcosa che mi era accaduto, per lui assumeva un significato perché “anche Tizio mi ha raccontato che…”. Io mi arrabbiavo, ma era quasi come se la realtà della stanza psicoanalitica fosse più reale della realtà concreta.
Ecco, questo penso fosse il suo valore aggiunto.
Mi chiedo in questo periodo di pandemia e di ristrettezze sociali come avrebbe reagito alla digitalizzazione della realtà e del mondo relazionale. Il rapporto di mio padre con il pc, per evidenti questioni anche anagrafiche, non era semplice: i miei pazienti nativi digitali lo avrebbero chiamato dinosauro digitale.
Ma era molto affascinato dalla rete e dalle potenzialità infinte di rapporti con persone, conosciute e non, che si possono avere attraverso di essa.
Era preoccupato dalla possibilità per i giovani di poter essere chiunque e di poter sapere tutto, muoversi nello spazio e nel tempo, in una modalità di comportamento in un mondo ancora privo di abitudini mentali codificate. Che la cultura digitale permettesse loro di avere un’identità moltiplicata, potenzialmente infinita e che l’ininterrotto variare dei punti di riferimento sollecitasse il continuo alternarsi di stati del Sé. E che questo, in soggetti fragili e in via di sviluppo, potesse essere un grosso limite a un processo di crescita individuale. Il meccanismo di difesa della scissione (in rete posso dire tutto e non reprimere nulla e un minuto dopo dimenticarlo) lo preoccupava.
Sapesse che ora anche la scuola è dentro uno schermo… folle rendersi conto che a un anno dalla pandemia l’unica soluzione all’aumento dei contagi è ancora la chiusura delle scuole, nessuna pietà per la crescita di bambini e ragazzi.
Concordava con me sul fatto la rete sia uno strumento, e come tale debba essere insegnato, nei tempi e nei modi di utilizzo.
Aveva avuto un paziente che viveva all’estero con il quale aveva condiviso una stanza analitica virtuale, purtroppo non ci ha lasciato un contributo scientifico scritto sulla sua esperienza diretta.
A proposito di realtà, relazione ed emozioni, ho ritrovato tra i suoi scritti un elaborato che mi aveva dettato per un incontro a Lodi tra cittadini ed ex compagni liceali, lamentandosi tutto il tempo della fatica di incasellare in parole scritte il suo pensiero fluido e relazionale.
Dal titolo “La psicoanalisi oggi”, intervento per congresso a Lodi :
Spiega bene secondo me come per lui la stanza psicoanalitica fosse procedura, metodo, ma soprattutto relazione.
Vi leggo.
“…è interessante seguire alcune riflessioni di Freud. Mentre dice che l’ansia è il prodotto di disgregazione di sostanze sessuali, e quindi dà spiegazioni nel linguaggio fisico-chimico del suo tempo, dall’altra parte afferma che l’analista deve sviluppare la attenzione fluttuante, ossia una attenzione disattenta così che la voce del paziente risuoni senza schemi o preconcetti dentro di lui e si vengano a formare delle immagini, delle associazioni. Una concezione modernissima che vede la mente come organo che riceve informazioni. Insomma il pz associa e l’analista pure e sono le emozioni che contano, abbiamo due persone che si parlano al di là delle parole. Dunque ogni analisi mentre si svolge seguendo un preciso filo logico (quando dico una cosa dovrei sapere cosa dico, perchè la dico, a che parte del paziente mi rivolgo e posso anche fare previsioni su che cosa succederà poi) è anche un fatto assolutamente privato tra quelle due persone, unico e non riproducibile.
È questo quello che interessa quelli che fanno il mio mestiere, e per me non cessa di essere sconcertante.
Qualcosa del genere è successo anche a me. Io ho fatto medicina perché volevo fare il medico e ho scelto di specializzarmi in neuropsichiatria quasi per caso, finché ad un certo punto sono rimasto affascinato dalla psicoanalisi e mi sono accorto che non avevo una specialità medica, come ad esempio oculistica, ma che mi ero situato in una zona a lato, che non faceva propriamente parte della medicina. In effetti anche se tuttora do farmaci, faccio diagnosi e ricoveri, cioè continuo a operare come psichiatra, quando parlo con il paziente seguo una logica diversa.
Un esempio può servire più di tanti discorsi.
Un amico continua a insistere che io utilizzi il computer per scrivere i casi. Questo mi aiuterebbe infinitamente nelle mie ricerche ecc… non dico che abbia torto, ma io mi chiedo come si possa formalizzare un evento come quello che adesso vi racconto. Viene un paziente che soffre di attacchi di panico già curati inutilmente con i farmaci. È un tipo deciso, un uomo di successo. Fra le tante cose che mi racconta mi dice che suo padre è morto recentemente e di non averlo mai conosciuto perché se ne era andato di casa. Quando si era sposato voleva invitarlo alle nozze, era andato da lui, ma al momento di suonare il campanello aveva deciso di lasciar perdere. Parla in modo distaccato, mi dà giusto una notizia di cronaca. Poi mi racconta del figlio che non sta bene da tempo causa un incidente e come questo lo preoccupi. Gli chiedo se quest’ultimo fatto può essere messo in relazione con l’attacco di ansia e lui mi conferma che ha cominciato a non sentirsi bene in coincidenza con il trauma del figlio. A questo punto io provo una forte emozione e faccio fatica a trattenere le lacrime.
La vicenda sembra già mostrare un senso. Non ha mai avuto un padre e quando si è dato da fare ancora di più del solito per il figlio sofferente la sua condizione di bambino abbandonato tramite il confronto con la sua sollecitudine di padre si è fatta più forte. Questo, è chiaro, posso tranquillamente scriverlo in una relazione, ma a me è successa anche un’altra cosa: ho visto il suo dito che avanzava per premere il campanello, si è fermato a mezz’aria e poi è tornato indietro, e mi è venuto da piangere. Posso anche provare a interpretare la mia risposta e dire che io capisco il suo dolore, un sentimento di cui il paziente è inconsapevole, avvertendolo io in me per lui. Dunque potrei affermare che la mia risposta è funzionale alla comprensione del caso, attraverso i miei vedo già i suoi sentimenti altrimenti non leggibili, inconsci. Rimane però il fatto che è veramente difficile mettere in memoria il dolore che ho provato per lui, mentre è evidente che la mia risposta influenzerà la sua analisi con me, cioè io ci metterò qualcosa di mio, in una analisi di cui dovrei garantire la piena oggettività.”
Ecco, questo era per me mio padre, una relazione emozionante.