Prendo in esame l’articolo di Guido Medri su “La negazione” cercando di enuclearne i punti fondamentali. Il materiale esaminato da Guido e il suo modo di presentarlo e descriverlo spero mi permettano di mettere a fuoco l’intreccio di interessi culturali e le qualità umane dell’autore che avevo conosciuto fino dal tempo della comune specializzazione in psichiatria. E’ stato però negli ultimi 30 anni che si è intensificata la nostra frequentazione e abbiamo condiviso, fra l’altro, la partecipazione a un gruppo di “psicoanalisi e politica”. Si può ipotizzare che i fenomeni di negazione di tipo collettivo (oggi di estrema attualità) di cui ci eravamo già allora occupati siano stati una delle motivazioni che hanno portato Guido ad approfondire il tema.
In questo mio intervento, probabilmente come in quelli degli altri colleghi, vi presenterò un insieme di considerazioni. Alcune di tipo più personale, che sono frutto di una conoscenza prima e poi di una amicizia che si è svolta nel corso degli anni; e altre considerazioni invece più centrate su temi psicoanalitici. Naturalmente non è possibile fare una distinzione e in questo contesto non avrebbe senso.
Prenderò spunto da un articolo, pubblicato nel 2016 su Pratica Psicoterapeutica, che riguarda il meccanismo di difesa della negazione e che Guido mi aveva mandato da leggere un mese o due prima.
Ho scelto questo articolo per diversi motivi. Il primo è personale. Ci era capitato di parlare della negazione, soprattutto in riferimento a tematiche collettive, se non addirittura specificamente politiche. Così diventa per me un modo di proseguire un discorso interrotto, una specie di dialogo immaginario. Perché purtroppo, nonostante mi fossi riproposto più volte di riprendere la discussione, la cosa non aveva avuto seguito. Ci vedevamo e finiva che si parlava d’altro, di qualcosa di più recente e ci dimenticavamo della negazione. Potrei solo aggiungere, come volevasi dimostrare.
Il secondo motivo della scelta, come cercherò di chiarire, è il fatto che l’articolo mi pare emblematico di quello che si potrebbe definire uno stile caratteristico di Guido Medri. Sia dello stile analitico, per quanto è possibile utilizzare questa terminologia, che di uno stile, un modo di essere, umano in generale.
Infine perché il tema della negazione ci porta a discorsi estremamente attuali.
Tenete presente che il taglio del mio intervento risente necessariamente del mio orientamento junghiano. In questo caso mi riferisco al fatto di dare una particolare importanza a quella che Jung definisce equazione personale. In realtà non è una prerogativa esclusiva degli junghiani. Infatti ricordo un noto analista freudiano che, anni fa, diceva: noi dovremmo appendere sulla porta dello studio un cartello su cui è scritto “qui si confezionano abiti con stoffa portata dal cliente.”
Ma inizio dal principio. Ho conosciuto Guido Medri nel 1966, da studente interno nella Clinica Psichiatrica dell’Università di Milano, dove stavo facendo la tesi. Lui era un anno avanti, iscritto al primo di specializzazione, ma eravamo pochi allora e ci conoscevamo tutti. In quel periodo però non ci siamo frequentati molto. Si capiva che era già allora insofferente verso il clima autoritario della Clinica Universitaria.
La Clinica Psichiatrica Universitaria di Milano era stata la prima ad essere fondata in Italia in modo autonomo e indipendente dalla neurologia. Era stata aperta 6 anni prima, nel 1961 e rappresentava un modello scientifico di avanguardia, se paragonata al manicomio. Si potrebbe dire, un po’ paradossalmente, che in quel luogo i pazienti erano trattati meglio, ma i medici forse peggio. Per chiarire posso aggiungere, senza timore di esagerare, che la situazione dei medici, nei confronti del Direttore della clinica, era di tipo servile. L’accettazione della servitù era ricompensata con la carriera. Ma era l’andazzo dei tempi. Naturalmente c’era chi lo sopportava meglio e chi peggio.
Nel mio ricordo di allora Guido Medri mi fa pensare a un antico personaggio storico di cui parla Erodoto, citato a volte dagli anarchici, il persiano Otanes, colui che si era rifiutato di partecipare alla gara per la successione a Dario e che diceva: io non voglio né obbedire né comandare. Ma soprattutto devo sottolineare un’altra cosa. Mi sono reso conto, ripensandoci, che in quel primo anno, quando ci incontravamo in Clinica, non ricordo di averlo mai visto sorridere. Cosa che, per chi lo ha conosciuto, sembra incredibile. E’ un particolare di cui anch’io mi ero dimenticato. Cancellato da quando poi avevamo iniziato a frequentarci e sorridere era l’atteggiamento abituale tra di noi.
Un altro particolare importante. La Clinica Universitaria tendeva a medicalizzare molto la psichiatria. Paradossalmente il professore che aveva avuto la cattedra, come dicevo, per la prima volta autonoma dalla neurologia, era necessariamente un neurologo, probabilmente convinto dell’importanza degli aspetti organici nella genesi delle malattie mentali.
Però nell’Istituto c’era anche qualcosa che potremmo chiamare una specie di opposizione, se non addirittura governo ombra, ed era la psicoanalisi. Gli specializzandi, quasi tutti, erano in analisi, ma di nascosto, senza farlo sapere al Direttore della Clinica. Inoltre, va notato, l’analisi DOC, l’analisi di serie A, era solo quella che si svolgeva con analisti della Società Psicoanalitica Italiana nella prospettiva di entrare a far parte in futuro di quella prestigiosa associazione. In questo senso l’analisi correva il rischio di essere a sua volta contaminata dalla sete di potere.
Naturalmente non ho alcuna intenzione di sminuire il valore di istituzioni come l’Università o la SPI. Mi riferisco all’atmosfera culturale di quel tempo, di cui sia Guido Medri che io abbiamo fatto parte, e certamente anche alle nostre proiezioni.
Vorrei comunque sottolineare che la tendenza a dubitare di ogni ideologia preconcetta, delle ortodossie obbligatorie, è un modo di pensare tipicamente psicoanalitico. Si può ricordare addirittura Anna Freud, che parlava della tecnica analitica come qualcosa di analogo agli strumenti di un artigiano che vanno affilati, curati, a volte perfino sostituiti.
Più recente è la frase di un collega che scrive: “Il cuore dell’analisi è etico: si propone di combattere la menzogna, prima di tutto quella che raccontiamo a noi stessi. L’etica dell’analisi non è dunque un espediente per dare rispettabilità alla professione. E’ una presenza originaria.” (Zoja citato da P. Severino, in: “Studi Junghiani”. 52. 2020)
In questa frase appare la parola rispettabilità. Ecco, in quegli anni il desiderio di rispettabilità rischiava a volte di prendere il sopravvento e mettere in ombra i valori più importanti anche in istituzioni di per sé positive.
La rispettabilità, nella frase citata, è contrapposta all’etica, intesa come aspetto più profondo. Nella tradizione junghiana, di cui faccio parte, la rispettabilità è rappresenta da quella che si chiama Personacon un termine latino che significa maschera. La maschera che serviva per impersonare un determinato ruolo. La maschera di cui abbiamo tutti bisogno per non restare nudi, ma che rischia continuamente di prevaricare quello che potremmo chiamare autenticità.
Mi riferisco a qualcosa di diverso dal Super Io. Ricordo che tante volte, negli ultimi anni, commentando con Guido vicende dell’attualità, si sottolineava il venire meno del Super Io. E la perdita del suo valore strutturante per l’intera personalità. Credo che il Super Io, considerato in questa sua funzione di strutturazione dell’intero sé, possa anche essere chiamato istanza etica che, ripeto ancora, non coincide con la rispettabilità.
Quanto alla maschera chi ha conosciuto Guido Medri sa bene che l’ha indossata con la necessaria ironia.
Ma torno ai ricordi. Guido non si legò mai all’ambiente universitario, e si staccò subito iniziando un percorso piuttosto avventuroso, come ha ricordato il dott. Landoni nel suo intervento di oggi. Io invece vi rimasi per cinque anni dopo la laurea, fino a una clamorosa rottura dopo la quale iniziai a lavorare in ospedale. In seguito Guido mi prendeva in giro: ma pensa, chi l’avrebbe detto che saresti scappato anche tu, mi sembravi così ben integrato…
Con Guido di fatto, per circa quindici anni ci siamo persi di vista, come si dice. Ma nel frattempo le nostre esperienze lavorative proseguivano in modi a volte divergenti e altre volte paralleli. Capitava casualmente di avere notizie da colleghi comuni.
Finché, circa 35 anni fa, ci siamo incontrati di nuovo in un modo che mi fa piacere ricordare. Sapevo che Guido abitava nella mia stessa zona e che, come me, aveva due figlie già intorno ai dieci anni, ma non ci eravamo mai incrociati. Una domenica mattina esco per andare a prendere il giornale e lo incontro. Con un certo stupore vedo che cammina tenendo davanti a sé in quello che credo si chiami marsupio, una bambina poco più che neonata. In questo caso ricordo molto bene che sorrideva, divertito per il mio stupore. Credo di avergli detto, anch’io divertito: ma non ne avevi già due? Lo ricordo bene perché è stato un incontro molto allegro, in una bella mattinata di sole.
Da allora è iniziata quella che credo si possa definire un’amicizia.
Fino a che Simone Maschietto non mi ha chiesto di partecipare a questo incontro non mi ero mai fatto domande approfondite per capire il perché di questa amicizia. Come accade a tutti credo.
Ora provo a mettere a fuoco alcuni punti. Ho già accennato alla rispettabilità delle istituzioni, nelle quali comunque abbiamo entrambi lavorato, ma verso le quali mi sembra che Guido abbia sempre mantenuto un atteggiamento critico. Se invece si privilegia la rispettabilità questo può significare, sul piano personale, non avere dubbi, sapere già tutto. E, dal punto di vista emotivo, perdere la capacità di meravigliarsi.
Ho sottolineato questo punto fino dal titolo di questo mio intervento perché tante volte ho sentito Guido esclamare, a proposito di un paziente o anche di vicende umane in generale “Ma è incredibile! Mai sentita una cosa così”. Anche nell’articolo sulla negazione compare questa frase.
Non è ingenuità, ma la consapevolezza del limite, sia delle teorie che delle nostre risorse personali. E’ la possibilità di rimanere aperti alla curiosità e, di conseguenza, all’attenzione e all’ascolto. Cito una frase di Eugenio Borgna, con cui ho avuto la fortuna di lavorare qualche anno: “Noi viviamo in un tempo […] che sembra perseguire soltanto, con cieca furia e agghiacciante successo, il divorzio totale della mente umana dalla propria facoltà di attenzione” (“Saggezza”. Il Mulino, 2019).
50 anni fa quindi Guido Medri scelse un percorso professionale e analitico diverso da quello che, come ricordavo, avrebbe dato forse maggiori sicurezze. Entrò in una scuola allora considerata se non eretica certamente alternativa, di cui molti anni dopo sarebbe divenuto Direttore. Io, per quanto mi riguarda, feci una scelta diversa, ma ugualmente alternativa quando scelsi Jung e, quasi contemporaneamente, lasciai l’Università per il Manicomio di Novara diretto da Eugenio Borgna. Senza alcuna retorica è giusto ricordare che in quegli anni scelte di quel tipo avevano il significato di andare contro corrente.
Non so quanto abbiano pesato questi fatti nell’amicizia che si è sviluppata negli anni perché in realtà parlavamo del presente e le vicende più lontane le vedevamo con un certo distacco e al massimo ci ridevamo sopra.
In seguito, all’incirca tra il 2002 e il 2010, abbiamo entrambi fatto parte, insieme a un’altra decina di colleghi, psicoanalisti di associazioni diverse, di un gruppo a cui avevamo dato il nome di “psicoanalisi e politica”. Ci vedevamo una volta al mese, discutevamo, abbiamo letto diversi libri che poi commentavamo insieme. Considerate che non è facile che un gruppo di questo genere, assolutamente spontaneo, paritario, privo di ufficialità, duri dieci anni.
Come si può capire questa esperienza in comune è stata l’occasione per consolidare ancora di più il nostro rapporto. Ed è anche il punto che mi permette di passare all’articolo di Guido sul tema della negazione, perché mi sembra molto probabile che quella esperienza di gruppo sia stata uno degli stimoli che hanno indotto Guido a interessarsi di quel tema.
Una delle frasi iniziali dell’articolo è la seguente.
“Mi domando se si è dato abbastanza rilievo a questa difesa che a me pare ubiquitaria, pervasiva e di difficile elaborazione”.
Sono parole scritte solo 4 o 5 anni fa. Oggi, in epoca di covid, sembra quasi una battuta provocatoria: non è che per caso abbiamo sottovalutato il meccanismo di negazione?
Vi dico subito che nell’articolo non si arriva a qualche conclusione teorica definitiva. Il suo valore sta più nelle domande che Guido si pone, a iniziare dalla prima che ho citato. Naturalmente do per scontata la preparazione e la competenza dell’autore, ma voglio piuttosto sottolineare uno stile caratteristico, un modo particolare di svolgere una discussione scientifica in ambito psicoanalitico. Si studia, si considerano con attenzione le diverse posizioni teoriche, le si confronta con la propria esperienza lavorativa e si formulano nuove ipotesi. Solo che, in questo caso, (e forse in tutti i casi che riguardano la ricerca psicoanalitica) non si tratta di argomenti affettivamente neutri. Come vedremo tra un momento.
Personalmente non amo utilizzare il termine scienza in ambito psicoanalitico. Senza entrare nel merito di discussioni teoriche sulla scientificità della psicoanalisi, mi limito a osservare che una delle cose che mi piacciono di quello scritto e che fanno venir voglia di leggerlo è il coinvolgimento personale che si coglie, il mettersi in gioco.
L’alternarsi di osservazioni cliniche personali e di citazioni, in buona parte di Freud, mi ha portato a fare una fantasia in cui Guido, molto educatamente, ma in modo amichevole, discute direttamente con Freud: vedi, tu l’hai detto che negazione e diniego sono un po’ diversi, ma non l’hai sottolineato abbastanza. Tua figlia poi lo ha specificato meglio, però si continua a sottovalutare il diniego ecc. ecc.
L’articolo inizia con una serie di esempi clinici che descrivono un fenomeno divenuto molto più frequente negli ultimi anni, l’interruzione dell’analisi dopo un periodo, generalmente di alcuni mesi, abbastanza fruttuoso. E’ un evento che l’analista avverte come una resistenza, se non addirittura una fuga, spesso assolutamente inaspettato. I diversi pazienti lo giustificano con motivazioni apparentemente ragionevoli, che si rivelano essere, in realtà sia negazioni che dinieghi.
Come ho accennato Guido Medri mette sul tappeto un problema analitico sgradevole per gli analisti e che spesso tende a essere affrontato solo in discorsi privati tra colleghi. Richiede un certo coraggio poiché si parte da una frustrazione dell’analista e c’è il rischio di non essere obiettivi, di essere invischiati in un gioco di transfert e controtransfert che non può essere verbalizzato e compreso. Infatti, nota Medri, le terapie spesso si interrompono quando si connotano in modo più preciso non più come supportive, ma come analitiche.
Il diniego, scrive Guido Medri, si pone per l’analista come una sfida impossibile, nel momento in cui il paziente utilizza dati di realtà, apparentemente oggettivi e inconfutabili, per sostenere una resistenza nei confronti di contenuti inconsci.
Il punto teoretico secondo me più importante che è messo a fuoco riguarda il tentativo di distinguere tra negazione e diniego e lo studio del rapporto che può esistere tra questi due meccanismi di difesa.
“I due termini significano entrambi qualcosa come un non prendere atto, un rifiuto. Il diniego di un fatto esterno, la negazione di uno interno al soggetto. La distinzione è chiara e, a mio parere, va decisamente mantenuta”. E ancora: “la negazione è il motivo del diniego, lo anticipa, mentre il diniego che ne segue, la sostiene.”
Il mio interesse per questo argomento è rinforzato anche da un’osservazione di cui purtroppo non avevo fatto in tempo a parlare con Guido, e che appare come una conferma di quello che è scritto nell’articolo. Cioè il fatto che in alcuni casi, pochissimi a dire il vero, il paziente dichiara sinceramente di aver paura a proseguire in un percorso che teme di non controllare. Un’osservazione che mi sembra confermi l’ipotesi del diniego come difesa che utilizza un distorcimento della realtà, ma presentata con una pretesa di oggettività che impedisce l’intervento dell’analista che, a quel punto, si trasformerebbe in un tentativo di convincere o in una polemica. Meglio allora, come nota Medri, accettare la decisione del paziente e sperare che possa ripensarci in futuro.
E’ interessante anche l’accostamento che viene fatto del diniego alla perversione, sempre in relazione alla tendenza ad alterare la realtà.
Cito ancora: “il soggetto decide di non prendere in considerazione una parte di sé a favore di un’altra cui si chiede di occupare l’intero campo di esperienza”.
A questo punto si apre nell’articolo un altro tema che deriva dal riferimento al meccanismo della scissione. Medri continua notando che “…Il pensiero “normale”, quello che si articola in seguito alla barriera tra conscio e inconscio, ora disarticola le connessioni che si stavano creando tra le due aree: ora il pensiero normale è diventato patologico. A partire da un uso perverso del concetto di realtà che intende negare valore alla realtà psichica”. [il corsivo è mio]
E’ interessante, pur se discutibile, anche la correlazione che viene fatta tra la maggior frequenza di queste situazioni in cui il cosiddetto buon senso porta all’interruzione dell’analisi e l’affermarsi delle teorie relazionali. Come se la minore attenzione alla rimozione, e quindi alle pulsioni, potesse in un certo senso far comodo. Potesse essere un modo di evitare di fare i conti con se stessi e permettesse di diluire, in questo passaggio da una dimensione verticale a una orizzontale, quell’istanza etica cui accennavo all’inizio.
Banalizzando un po’ si potrebbe dire che le teorie relazionali permettono più facilmente di autoassolversi.
Verso la fine dell’articolo c’è un ultimo paragrafo intitolato “un altro punto di vista”. Qui l’autore si domanda, con una certa ironia, ma in fondo seriamente: ma non è che gli analisti pretendono di ignorare il buon senso, le difese che ci permettono di sopravvivere? Come possiamo pretendere che un paziente continui la sua analisi per anni, quando sta già abbastanza bene, solo per andare più in profondità, per non interrompere un processo di autoconoscenza?
“Prima ho descritto l’interruzione [dell’analisi] come dovuta a una forza demoniaca, quella della coazione a ripetere, quella forza che Freud ha letto in riferimento alla pulsione di morte. Ora la leggo in termini utilitaristici, del tipo meglio un uovo oggi che una gallina domani”.
Fino però a riconoscere che “normalità” e analisi, quando si è all’opera in un percorso analitico, seguono logiche diverse che possono porsi in opposizione. E’ così che, come già ricordato prima, il pensiero cosiddetto “normale”, del buon senso, assume una valenza perversa, negando che il percorso analitico che quel soggetto sta compiendo abbia un valore.
Accanto a queste considerazioni c’è da parte dell’autore il continuo riconoscimento della universalità del meccanismo di negazione, della necessità della difesa che ognuno deve riconoscere a iniziare da se stesso. La negazione principale che tutti noi condividiamo, ricorda Guido Medri, consiste nell’atteggiamento di fronte alla morte: “sappiamo tutti che moriremo, ma se ci credessimo davvero, ci verrebbe a mancare ogni aspettativa per il futuro e ogni piacere nel vivere il presente”. Pensiamo al mito di Prometeo nella versione che ne dà Eschilo. Il dono principale fatto da Prometeo agli uomini, è l’oblio della morte, senza il quale l’altro dono, quello del fuoco, cioè del fare e del vivere in modo attivo, non potrebbe realizzarsi.
Alla fine Guido conclude scrivendo che “non tutti sono nati per fare gli eroi, l’importante è cavarsela alla bell’e meglio. Tuttavia il diniego comporta una lettura della realtà tendenziosa, ingannevole. Commentando le situazioni cliniche ho descritto come il paziente trovi la strada per liberarsi dalla responsabilità delle sue scelte. Siamo dunque a un passo dall’ipocrisia, dalla menzogna”.
Termino con un accenno alla situazione che stiamo vivendo.
Un primo punto riguarda l’utilizzazione della tecnologia a cui ricorriamo da quando il rischio di contagiarci impedisce contatti diretti. Proprio nel momento in cui io o chiunque altro tenta di descrivere l’attività analitica svolta da un collega, cerca di trovarne il valore, siamo costretti a verificare che il nostro discorso fa riferimento a una situazione analitica, e più ancora una situazione umana generale, che non è quella in cui ci troviamo adesso. Buona parte delle cose dette sarebbero state molto più difficilmente osservabili, se non forse totalmente cancellate, se ci immaginiamo quel collega nello svolgimento di una seduta online.
Certo, si fa di necessità virtù, ma almeno è importante esserne consapevoli. Anche da questo punto di vista non è corretto negare un limite, fingere o accampare scuse per dimostrare che lo stesso limite non esiste e che invece è tutto uguale.
Vi cito alcune righe iniziali del Manuale, opera del filosofo stoico Epitteto. “Le cose sono di due maniere; alcune in poter nostro, altre no. Sono in poter nostro l’opinione, il movimento dell’animo… in breve tutte quelle cose che sono nostri propri atti. Non sono in poter nostro il corpo, gli averi, la reputazione, i magistrati e in breve quelle cose che non sono nostri propri atti.”
Faccio notare che il corpo non è in nostro potere (nonostante frasi come “diritto alla salute”) mentre mettere la mascherina oppure no possiamo deciderlo.
Se consideriamo le molteplici forme di negazione e di diniego osservabili in questi ultimi mesi a livello di massa credo dobbiamo concordare sul fatto che le pulsioni sembrano avere un ruolo fondamentale nella genesi di questi fenomeni. Le pulsioni in questo periodo sono spesso ribattezzate con il termine libertà. Di fare ciò che piace e di non pensare a ciò che dispiace.
Anche in questo caso tuttavia si può mettere a fuoco l’altra faccia della medaglia. Infatti la traduzione dal greco dell’opera di Epitteto che ancora oggi si legge è quella fatta da Leopardi. Il quale scrive anche una breve introduzione in cui, secondo il suo stile e il proprio pensiero, contesta Epitteto, pur ammirandolo, e sostiene, come sappiamo, che l’uomo forte non deve accettare stoicamente la sofferenza, ma deve protestare contro la natura matrigna, anche se non otterrà nulla. Ovviamente anche la diversa filosofia di Leopardi non è una negazione della realtà.
Infine termino con una citazione che mi è sembrata divertente e in tema di Gilberto Corbellini, storico della medicina, arzillo novantenne che ha recentemente scritto un articolo su questi temi.
“Come mai, anche se i vaccini sono sicuri, i pregiudizi contro le vaccinazioni sono così persistenti o crescenti? È normale: non possiamo cambiare la nostra percezione del rischio sulla base solo di informazioni corrette. La psicologia umana si basa su meccanismi di difesa per cui, in alcune situazioni, ignora le informazioni vere e preferisce quelle false. Una conseguenza dell’evoluzione darwiniana.
Per oltre un secolo la vaccinazione dovette confrontarsi in Inghilterra con proteste sociali che raffiguravano propagandisticamente l’inoculazione come un’interferenza nella libertà personale e un atto disgustoso, fonte di minaccia alla vita umana. Il rifiuto o l’esitazione verso le vaccinazioni che si poteva quasi comprendere nell’ottocento dato che il materiale e i modi del vaccinare erano davvero disgustosi è riemerso negli ultimi decenni con preponderanza in tutto l’occidente per motivi psicologici che probabilmente rimangono gli stessi.
Sono state date molte spiegazioni dell’avversione alle vaccinazioni, alcune delle quali richiamano il fatto che la nostra mente non si è evoluta per fidarci di persone che non conosciamo (o di una entità astratta come lo Stato) e che ci dicono che ci potrebbe essere qualche minimo rischio nella vaccinazione. Se non studiamo la statistica, che non si insegnava nel Pleistocene, noi stimiamo i rischi in modo erroneo. Inoltre, la propaganda contro i vaccini, allo scopo di associare i vaccini a un pericolo, si avvale ancora dell’emozione del disgusto verso una forma di contaminazione; disgusto che come dimostrano gli psicologi cognitivi serviva evolutivamente per difenderci dai parassiti. Paradossalmente, la scomparsa dei parassiti come minacce pervasive, ha consentito che le vaccinazioni, che introducono qualcosa di estraneo in persone sane e implicano che si creda sulla fiducia che sono sicure e protettive, possano essere percepite come minacce e pratiche inquinanti.” (Pubblicato su “Scienza In Rete”. nel febbraio 2021).