Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 24
1 - 2021 mese di Giugno
IL CONTRIBUTO SCIENTIFICO DI GUIDO MEDRI ALLA PSICOTERAPIA PSICOANALITICA INDIVIDUALE DELL’ADULTO
GUIDO MEDRI, L’ANALISTA E L’UOMO
di Roberto Carnevali

Nel 1990 ho vissuto un momento di crisi profonda che mi ha indotto a sottopormi a un nuovo trattamento analitico, ad alcuni anni di distanza dalla fine di quella che avevo ritenuto essere stata la mia analisi personale. Fu un amico a consigliarmi Guido Medri, che allora non conoscevo neanche di nome, e sulla fiducia andai da lui e cominciammo quella che fu davvero la mia ultima analisi personale. Fu una svolta, nella mia vita e nel mio approccio alla professione.

Finita l’analisi, lasciai decantare per un po’ la traccia che si era formata dentro di me e poi mi riaffacciai sul mondo che si era aperto attraverso la conoscenza di Guido, e cominciai a partecipare ad alcuni suoi gruppi formativi. Passò qualche anno e nacque Pratica Psicoterapeutica, e Guido, sapendo della mia pluriennale esperienza in campo editoriale (e informatico – fui io a proporre l’idea di farla online, e tuttora mi occupo interamente di tutta la parte tecnica), mi volle al suo fianco. Era il 2009, e da allora al momento della sua morte c’è stata con Guido una frequentazione e un confronto intenso e partecipato, con molti contrasti ma anche e fondamentalmente con una stima e un affetto reciproco che ci ha accompagnato sino alla fine. Cercherò, nel mio intervento, di delineare l’immagine che mi porto dentro di Guido nelle varie sfaccettature che ho potuto e saputo cogliere di lui, e la traccia che ha lasciato dentro di me come analista e come uomo.

 

Prima di essere un amico e un compagno di lavoro, Guido Medri è stato dunque il mio analista, anzi il mio ultimo analista, essendomi rivolto a lui, come ho detto, qualche anno dopo aver concluso (o meglio aver ritenuto di aver concluso) un’analisi precedente che avevo successivamente capito avermi lasciato uno strascico, direi considerevole, di elementi conflittuali irrisolti.

Mi rendo conto di essermi espresso con un periodo un po’ lungo e ricco di incisi, ma lo ritengo corrispondente alle tortuosità che si erano create  dentro di me nel momento in cui mi rivolsi a Guido chiedendo aiuto.

 

Apro una parentesi, aumentando la tortuosità del percorso, ma la ritengo necessaria.

Chi decide di intraprendere la professione dello psicoterapeuta, soprattutto se di orientamento psicoanalitico, si trova necessariamente a fare i conti con gli aspetti “strumentali” dell’analisi. Molte scuole di specializzazione in psicoterapia psicoanalitica e, quando queste ancora non esistevano, quasi tutti gli istituti di training formativo alla psicoterapia richiedevano e tuttora richiedono all’allievo candidato di sottoporsi a un percorso analitico, che in genere deve iniziare almeno prima della conclusione del primo anno di scuola o di training. La mia prima analisi iniziò in un modo un po’ diverso, non essendoci ancora, a quei tempi, le scuole di specializzazione riconosciute dal ministero ma solo per l’appunto degli istituti di training, che si costituivano in genere intorno a una figura di analista particolarmente rappresentativa, che aveva sviluppato un pensiero con alcune caratteristiche che davano un’impronta particolare al training che veniva proposto. A quei tempi (parlo del 1977, anno d’inizio della mia prima analisi) era abbastanza diffusa la modalità che anch’io seguii: scegliere un analista che si riteneva avesse un pensiero al quale si aderiva in modo particolare, iniziare con lui un’analisi e dopo qualche anno, ad analisi conclusa o in via di conclusione, cominciare a frequentare incontri e seminari dell’associazione di appartenenza dell’analista e, se permaneva l’adesione all’orizzonte nel quale il pensiero proposto si muoveva, concludere a tutti gli effetti l’analisi e passare alla posizione di allievo, di candidato, fino ad arrivare a chiedere l’associatura. Benché l’andare in analisi abbia per me preceduto l’inizio del training analitico, il progetto di diventare analista e la regola fondamentale per la quale solo chi si è sottoposto ad analisi può svolgere a pieno titolo la professione di analista informavano il pensiero dominante nel nostro ambito, ed era dunque difficile, se non impossibile, per chi intendeva diventare uno psicoterapeuta, decidere di andare in analisi e scegliere l’analista avendo una motivazione chiara e sgombra di tutti gli aspetti, collaterali ma presenti e a volte addirittura dominanti, dovuti al progetto di diventare per l’appunto uno psicologo psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico.

 

Il percorso analitico con Guido è durato otto anni a tre sedute settimanali sul lettino (erano gli anni ’90, e allora si usava così!), e le considerazioni che seguono cercheranno di tracciare il senso e di cogliere l’essenza di quello che è stato lo sviluppo di un rapporto, inizialmente professionale e successivamente di amicizia, durato quasi trent’anni, dei quali gli ultimi dieci essendo lui e io affiancati e accomunati dall’aver creato e portato avanti, insieme ad altri amici e colleghi, la rivista Pratica Psicoterapeutica.

 

Quando chiesi al “dottor Medri” di essere il mio analista la motivazione era in me molto più chiara di quando, tanti anni prima (tredici per l’esattezza), avevo iniziato la mia prima analisi. Stavo male e avevo bisogno di fare chiarezza dentro di me. C’era sicuramente anche l’aspetto professionale, ma anche in quest’ambito sentivo “sulla mia pelle” e non soltanto come una regola da seguire, seppure con un’adesione di fondo sentita e condivisa, la fatica di ascoltare per tante ore al giorno i problemi degli altri e riuscire ad essere in grado di offrire loro un reale aiuto.

 

Non sto a descrivere i molti passaggi interni che l’analisi comportò. Mi limito ad evidenziare un problema di fondo. Mi ero accorto che, essendo diventato, dopo aver concluso la mia prima analisi, un collaboratore e un amico di quello che era stato il mio primo analista, vedevo divergere dentro di me gli aspetti teorici e applicativi di un metodo, che continuavo a condividere, e quelli personali di lui, e istituzionali dell’associazione alla quale avevo cominciato ad appartenere, salendo rapidamente a mansioni dirigenziali e contemporaneamente sentendo crescere un dissenso di fondo che mi aveva successivamente indotto a prendere progressivamente le distanze fino ad andarmene. Quando iniziai l’analisi con Guido ero ancora avviluppato dalle spire di quel mondo che vivevo in modo estremamente ambivalente, e la progressiva presa di distanza fino all’uscita avvenne nel corso dei primi anni del percorso analitico.

 

Apro una seconda parentesi. Nella mia vita personale coltivo i miei affetti e confido nella possibilità di rapporti intensi e duraturi. Il rapporto con mia moglie dura da cinquant’anni, ho degli amici conosciuti in prima elementare con i quali ho percorso tutta la vita condividendo le esperienze che ciascuno ha vissuto, e anche nel lavoro sono rimasto per quarantun anni nello stesso servizio, e ci sarei rimasto ancora se nell’avviso per il rinnovo del mio contratto non fosse stato posto un limite di età che avevo superato. I momenti di crisi sono per me occasioni per rivisitare il rapporto in essere e cercare elementi di rinascita che lo rilancino, e sono convinto che, se questo rilancio è nelle intenzioni delle persone coinvolte, la crisi diventi un’occasione per arricchirne la vita, trovando il nuovo all’interno della relazione senza bisogno di cercare altrove.

Peraltro, pensando alle mie esperienze formative e professionali e alle appartenenze che ho attraversato, mi è capitato più volte, e lo dico con tristezza e un po’ di rammarico, di vivere momenti di crisi che sono sfociati in una separazione. Mi sono spesso domandato il perché di questa differenza, e l’ipotesi di risposta che mi sono dato è che anche nei rapporti professionali il piano umano è per me fondamentale, e dunque non sempre i sodalizi nati intorno a progetti formativi e/o professionali sono stati vissuti da me e dalle persone coinvolte nell’impresa con un analogo coinvolgimento.

E qui torniamo a Guido e alla storia del nostro rapporto. Nel periodo in cui è stato il mio analista mi pareva di osservare (ma ero cauto nell’esplicitarlo anche a me stesso) che ci fosse una notevole discrepanza tra l’immagine che cercava di offrire dell’analista, se non proprio “neutrale”, almeno comunque sufficientemente distaccato da poter interpretare i contenuti portati dal paziente (da me nella fattispecie) senza essere “fuorviato” da un’eccessiva partecipazione sul piano degli affetti e delle emozioni, e quello che in realtà succedeva a livello di una trasmissione di vissuti che aleggiavano sopra le nostre teste e che empaticamente sentivo provocare dentro di me “piccoli ma significativi cambiamenti” (citazione a memoria da Bion).

Un elemento che già allora mi sembrò significativo, e sul quale successivamente ho riflettuto a lungo attribuendogli un significato nel senso or ora descritto, è stato il rapporto fra due cuori. Entrambi abbiamo avuto, e io ho ancora, problemi cardiaci rilevanti, su due versanti per certi versi opposti, a partire dall’essere lui bradicardico e io tachicardico. Questa logica degli opposti ci caratterizzava in molti aspetti, ed ebbe forse il suo punto culminante quando Guido ebbe una crisi cardiaca che lo fermò per qualche mese dall’attività, che riprese dopo l’installazione di un pacemaker. Il suo cuore era così rallentato da aver bisogno a volte di una “scossa” per potersi ripigliare. Quando riprendemmo l’analisi Guido mi confessò che la crisi bradicardica che aveva segnato l’inizio del suo percorso di cura cardiaca era avvenuta proprio alla fine dell’ultima seduta con me, prima della forzata interruzione. Descrisse la cosa in modo un po’ teatrale: “Lei se n’è andato e io sono stramazzato al suolo”, e in questo modo di esprimersi mi sembrò volesse sottolineare quanto l’analisi che stavamo portando avanti avesse degli aspetti di “lotta senza quartiere” che in un momento particolare aveva messo KO uno dei due “contendenti”. Non voglio banalizzare il lavoro analitico durato molti anni (otto) e vissuto molto intensamente da ambo le parti; ritengo peraltro che a fianco delle puntuali interpretazioni che emergevano dalla mente di Guido illuminando il mio cammino, o meglio sopra di esse, abbia sempre aleggiato qualcosa di empatico che passava attraverso il vibrare di due cuori, che partivano da modi di essere a volte contrapposti e comunque riuscivano a scambiarsi stimoli significativi e, mi permetto di dire, duraturi.

Alcuni anni dopo, ad analisi finita e dopo anni di lavoro insieme alla rivista Pratica Psicoterapeutica, mentre mi trovavo alla sede dell’SPP di via Pergolesi, durante l’intervallo di pranzo di un’assemblea, nel quale avevamo riunito la redazione della rivista per un breve incontro, ho avuto un TIA (Episodio Ischemico Transitorio), che ha indotto il mio cardiologo a decidere per un’operazione al cuore in predicato da tempo. Anche il tempismo del mio cuore non scherza, seppure in “stile” tachicardico.

 

Dopo la fine dell’analisi, memore di quanto mi era accaduto con il primo analista, ho preferito lasciar decantare dentro di me gli effetti trasformativi del lavoro analitico, e astenermi dal frequentare Guido e i seminari e gruppi clinici che venivano tenuti nell’ambito allargato dell’SPP. Volevo evitare che approfondire la conoscenza personale di quello che era stato il mio analista potesse, come era accaduto col primo, far emergere ulteriori conflitti irrisolti, avendo la consapevolezza che in entrambi i miei percorsi la rivisitazione della figura paterna aveva giocato un ruolo primario, e che in tale rivisitazione la persona del primo e del secondo analista avevano giocato un ruolo fondamentale nell’evocare proiezioni e identificazioni.

 

Quando mi decisi a interessarmi ai seminari organizzati dall’SPP e mi iscrissi a un gruppo clinico tenuto da Guido, accadde un fatto curioso. Prima del primo incontro Guido, dopo anni che non ci vedevamo, riprese un discorso fatto nell’ultima seduta della mia analisi, chiarendo un aspetto di ciò che aveva detto che temeva io potessi aver frainteso. Mi appariva chiaro che quello che avrebbe potuto essere stato un fraintendimento era rimasto dentro di lui per tutti questi anni, come una sorta di “scrupolo”, e che avermi ritrovato e aver potuto chiarire questo aspetto gli dava sollievo. Confesso che non ricordavo quel discorso, e a suo tempo evidentemente non gli avevo attribuito alcun rilievo particolare, visto che ho un’ottima memoria e se una cosa mi colpisce mi si scolpisce nella mente e nel cuore e rimane dentro di me potrei dire per sempre. Questa discrepanza aprì in me una riflessione di fondo sul fatto che ciascuno di noi tende ad attribuire a ciò che gli accade un significato personalizzato, che non necessariamente coincide con il significato attribuito allo stesso evento dal suo interlocutore, e questo, come mi accorgevo essere accaduto con Guido, può portare due persone, pur partendo da un rapporto di vicinanza e di alleanza, a portare dentro di sé ricordi molto discrepanti di uno stesso evento.

 

Quando, essendo diventati negli anni successivi amici e collaboratori, capitò di parlare della mia analisi, volli tornare sull’episodio, e testimoniare a Guido qual era stato, dal mio punto di vista (che, essendo io il paziente, era decisamente rilevante) un momento saliente del mio percorso analitico. Stavamo, nella seduta a cui facevo riferimento, parlando del mio rapporto con mio padre (morto improvvisamente a cinquantanove anni l’anno successivo alla fine della mia prima analisi e parecchi anni prima dell’inizio di quella con Guido) e una frase dell’analista mi fece intendere che dubitava dell’affetto di lui nei miei confronti; gli avevo chiesto se pensava che mio padre non mi avesse voluto bene, e Guido mi disse: “Secondo me suo padre l’ha fatta un po’ su”, usando un’espressione tipicamente lombarda che intende un modo di porsi che si colloca tra il raggiro e la squalifica. “Ti hanno fatto su” non significa soltanto che qualcuno ti ha raggirato, ma anche che avresti potuto accorgerti del raggiro se fossi stato un po’ più accorto, e che dunque l’altra persona non aveva un’opinione particolarmente elevata di te. Applicare questa visione delle cose a mio padre nel rapporto con me ha significato per me una rivoluzione copernicana, che mi ha fatto vedere sotto una luce completamente diversa un rapporto che fino a quel momento aveva segnato in un certo senso la mia vita.

Non sto a dilungarmi ad esporre i risvolti della significatività di quella frase, ma sono sicuro che Guido non colse quanto fosse importante per me quello che stava dicendo, e anche quando lo ripresi anni dopo, prese atto della cosa ma fece fatica ad accettare di concepirla come l’elemento di svolta di tutto il mio percorso analitico.

 

Raccontando questi eventi sto cercando, e spero di riuscirci, di evidenziare la grandezza di Guido come analista e come uomo, in una dimensione nella quale i confini dell’uno sfumano in quelli dell’altro, facendo sì che accadano eventi come quello che ho raccontato. Esiste un ulteriore livello di lettura di questo evento che forse può portare maggior chiarezza al mio discorso. Ciò di cui si è parlato è quello che è avvenuto a livello transferale, ma non solo, in tutto il mio percorso analitico. Guido, a volte inconsapevolmente, o meglio con la consapevolezza dell’intuizione, mi ha offerto un’esperienza emozionale correttiva nella quale ha rappresentato un padre che ha voluto sempre evitare di “farmi su”. Un padre che ha spesso dissentito sulle mie scelte senza per questo pretendere che rinunciassi a procedere se animato da una profonda convinzione; un padre che ha accettato le differenze rispettandole e a volte addirittura valorizzandole, riconoscendo che ci potessero essere altri spazi percorribili al di fuori dell’immaginario di padri prescrittivi che donano le gioie del paradiso terrestre a patto che non si mangi il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Spero che la metafora sia chiara.

 

Un aspetto su cui eravamo concordi (o meglio sul quale avevo aderito in pieno ai suoi intenti, visto che l’idea è nata in lui) era il senso e lo scopo di Pratica Psicoterapeutica. Nell’introduzione al primo numero, a cui abbiamo riservato uno spazio speciale e alla quale si può avere facilmente accesso da qualunque punto della rivista, Guido usa l’espressione “profilo basso” intendendo che gli scritti proposti alla rivista devono esprimere la quotidianità del lavoro dello psicoterapeuta, senza voli pindarici e senza la necessità di bibliografie mastodontiche; e questo discorso aveva lo scopo di incentivare allievi di scuole di formazione in psicoterapia e giovani psicoterapeuti a portare le proprie esperienze senza il timore di essere mal giudicati in quanto non abbastanza “profondi”. In realtà (siamo partiti nel 2009, quindi siamo al dodicesimo anno di pubblicazione) l’agilità degli scritti che abbiamo pubblicato non è andata a scapito della profondità, ma ha permesso di spaziare in vari ambiti con una sana “leggerezza” consapevole della complessità dei temi trattati. Sviluppare l’idea originaria di Guido ha permesso a tutti noi della redazione di costruire e portare avanti un percorso per certi versi unico, e sono orgoglioso di aver raccolto, insieme a Simone Maschietto e Secondo Giacobbi, l’eredità di una funzione direttiva che il suo modo di esserci padre ha reso facilmente percorribile nel rispetto delle differenze e nella solidità del rapporto che ci attraversa.

Voglio anche dedicare un attimo al ricordo di un’altra perdita dolorosa e significativa all’interno del nostro gruppo: quella di Alfredo Civita, anche lui un cuore grande che si è fermato improvvisamente lasciando in tutti noi una traccia indelebile.

 

E voglio concludere riproponendo un sogno, che alcuni di voi conosceranno, perché ne parlo nel ricordo di Guido Medri che ho proposto su Pratica Psicoterapeutica nel numero appena successivo alla sua morte.

 

Parecchi anni dopo la conclusione dell’analisi, e dopo qualche anno di vita di Pratica Psicoterapeutica, dopo un’ennesima riunione di redazione in cui erano emersi sia i punti di vista diversi, sia la voglia di continuare a confrontarsi pur nelle divergenze, arrivando a un esito condiviso, faccio un sogno, che racconto poi alla riunione successiva.

 

Sono davanti all’ingresso dello stabile dove si trova l’appartamento in cui abito. Nella realtà c’è un cancello, una scala che conduce a una porta a vetri, dietro la quale c’è il custode, e un corridoio che va in due direzioni, conducendo a due ascensori che portano ai piani. Nel sogno ci sono solo lastre di vetro, o plexiglass (comunque materiale trasparente), disposti con vari orientamenti su più piani, e dentro si vedono rampe di scale, sempre di materiale trasparente, che si snodano anch’esse in varie direzioni, configurando nel complesso qualcosa di simile a un quadro di Escher, con prospettive irreali che assumono un significato diverso a seconda della prospettiva in cui si pone l’osservatore. Mentre sto per entrare, Guido passa per strada, e si ferma a salutarmi. Guarda la casa e mi dice: “Ma tu abiti qui?”, ed è chiaro il suo stupore nel vedere la complessità dei percorsi generata dalla trasparenza del materiale e dalle improbabili prospettive. Lo guardo e, sorridendo e vedendolo come colui che era stato il mio analista ed era poi diventato un amico gli rispondo: “Sì, ma guarda che mi va bene così!”, e capisco che lui capisce.

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