Il testo di Guido Medri che mi ha offerto lo spunto per quanto sto per dirvi è una relazione tenuta a Bari nel giugno 2003[1] in cui Medri fa una breve rassegna dei testi di psicoanalisi che sono stati per lui maggiormente importanti. Noi ne ricorderemo qui solamente tre. Fra gli scritti di Freud Medri cita Il piccolo Hans e L’uomo dei lupi. La grande portata innovativa di questi due scritti, a parere di Medri, è nel ripensamento del concetto di rimozione. Freud riteneva fino ad allora che la libido rimossa si trasformasse in angoscia; ora sostiene invece che sia la stessa angoscia di evirazione (il timore di ciascuno per la violenza paterna in risposta a ciò che si prova per lui) a indurre la rimozione. Si ha paura che il moto pulsionale (la gelosia nei confronti del padre, l’amore verso di lui) provochi una reazione da parte dell’oggetto con un danno per il soggetto, ovvero, nel caso del senso di colpa, che provochi un danno all’oggetto. La rappresentanza pulsionale, insomma evoca un pericolo e occorre difendersene, rimuoverla. La nuova concezione, a parere di Guido, ha un duplice vantaggio.
Propone una teoria più semplice e più convincente, non più vincolata a ipotesi metapsicologiche magari interessanti ma troppo astratte (la lotta fra Eros e Thanatos o fra Es e Superio). E finalmente (cito qui direttamente Medri)
L’oggetto trova il posto che gli spetta. La teoria infatti si fa relazionale. Freud non completa in tal senso le sue argomentazioni, ma, se ciò che scatena l’ansia è la risposta del padre al moto aggressivo o tenero che gli viene rivolto, siamo ormai ad un passo per portare all’oggetto l’attenzione che si merita. E dunque pulsione e oggetto vanno studiati e capiti insieme, il soggetto è una persona che vive con un’altra che la intenziona a sua volta[2].
C’è poi un’implicazione clinica. L’analista, stando così le cose, non darà più priorità all’astinenza, al distacco e alla neutralità così da frustrare e perciò rinforzare sempre di più il moto pulsionale fino a renderlo percepibile anche al paziente. Così facendo, infatti, se (come detto) la rimozione è in realtà un derivato dell’angoscia, si rinforzerà l’ansia causata dalla frustrazione e, con essa, la rimozione stessa. Al contrario, l’analista darà alla relazione e al desiderio transferale l’ascolto e lo spazio necessari affinché il paziente gradualmente si renda conto che il moto pulsionale, pur apertamente espresso, non comporta il pericolo temuto. “Ad esempio – cito ancora da Medri – nel caso dell’uomo dei lupi che si può amare teneramente l’analista come era stato un tempo per il padre senza per questo perdere la propria identità maschile”.
È già dubbio però, a parere di Medri, che a questo fine bastino le interpretazioni: che certo accrescono le conoscenze e offrono spunti di autoconsapevolezza e autocritica per il paziente, ma sono insufficienti per cambiare e crescere. A questo fine è necessario che l’analista non si limiti a far rilevare l’infondatezza (in termini ancora pur sempre ipotetici) dei timori del paziente, ma offra la prova effettiva o la concreta esperienza, per il suo modo di porsi e operare sul transfert, della possibilità di nuove relazioni d’oggetto. E qui interviene il terzo dei testi considerati più rilevanti da Medri: un lavoro, davvero molto innovativo, di Hans Loewald pubblicato nel 1960 col titolo On The Therapeutic Action Of Psychoanalysys. Questo è probabilmente il passaggio centrale della proposta di Loewald:
Sappiamo dall’esperienza analitica così come dall’esperienza di vita che nuovi spunti per lo sviluppo del sé potranno essere intimamente connessi con un tipo di riscoperte “regressive” di sé quale può darsi tramite lo stabilirsi di nuove relazioni d’oggetto e questo significa: nuova scoperta di ‘oggetti’. Dico nuova scoperta di oggetti e non scoperta di nuovi oggetti perché l’essenza di queste nuove relazioni d’oggetto è l'opportunità che esse offrono di riscoprire i percorsi precoci dello sviluppo di relazioni d’oggetto, conducendo a un modo nuovo di rapportarsi agli oggetti e anche di essere e di rapportarsi a se stessi. Questa nuova scoperta di sé e degli oggetti, questa riorganizzazione dell’io e degli oggetti è resa possibile dall’incontro con un “nuovo oggetto” che deve possedere certe qualificazioni al fine di promuovere il processo. Questa nuova relazione d’oggetto per la quale l’analista si rende disponibile al paziente e con cui il paziente deve mantenersi in rapporto lungo lo svolgersi dell’analisi è un significato del termine transfert positivo[3].
Personalmente devo riconoscere - anche se, ovviamente, non con l’autorevolezza di Medri - che anche per me la lettura di questo testo di Loewald (incluso, ai tempi, in una raccolta di scritti del 1980) è stata molto stimolante. Per introdurre il discorso che voglio fare qui devo però premettere, sempre su Loewald, una piccola riserva critica. Come si è già visto Medri rileva, correttamente, che le interpretazioni dell’analista non saranno di regola sufficienti a correggere i fraintendimenti e le proiezioni negative del paziente, a farlo cambiare e crescere; ma ora bisogna prendere atto che, sia pure con modi e limiti diversi da quelli discussi da Medri, anche per Loewald l’incontro col ‘nuovo oggetto’, incarnato dall’analista, dipenderà in primo luogo dall’interpretazione del transfert. Scrive infatti Loewald:
L’analista nelle sue interpretazioni implica aspetti di realtà non distorta che il paziente comincia a cogliere passo passo man mano che il transfert viene interpretato. Questa realtà non distorta è mediata al paziente dall’analista in primo luogo soprattutto col sistema di scalpellare via le distorsioni transferali, o, per riprendere una bella espressione di Freud ripresa a sua volta da Leonardo da Vinci, per via di levare, come nella scultura, non per via di porre, come nella pittura. […] In analisi estraiamo la vera forma, togliendo via le distorsioni nevrotiche[4].
Ciò che lascia perplessi, in questo discorso di Loewald, è l’assunto che le attese o le proiezioni negative del paziente siano pure e semplici distorsioni di una sottostante postività che è compito dell’analisi portare alla luce. Ma quelle attese e quelle proiezioni si radicheranno piuttosto spesso in vissuti precoci effettivamente negativi, che, certo avranno anche orientato (di nuovo, non sempre necessariamente distorcendole) il modo di vivere e valutare molte delle esperienze successive. Il nuovo oggetto – oggetto positivo – incarnato dall’analista e, come tale, proposto nel transfert non sarà dunque in ogni caso più autentico o più reale (come sembra implicare Loewald) degli oggetti negativi precoci; ciò che l’analista tenterà di fare, sarà, piuttosto, di renderlo più forte e più efficace di quegli oggetti precoci così da fornire al paziente qualcosa di simile a una nuova partenza.
Queste obiezioni non bastano certo a negare in toto la novità e la validità della proposta di Loewald. Ma possiamo chiederci, sempre in continuità con le riserve critiche di Medri, se non si dia una possibilità di intervento sulle proiezioni che non si avvalga, almeno in primo luogo, dell’interpretazione del transfert. In questo senso un contributo molto originale e, a mio parere, ancora molto attuale mi sembra offerto da uno scritto di Winnicott del 1971 – credo, peraltro, abbastanza noto – L’uso di un oggetto e l’entrare in rapporto attraverso le identificazioni[5]. Mi permetto, data la complessità del discorso, di riassumerlo schematicamente per punti:
1) Winnicott affronta il tema delle proiezioni distinguendo fra entrare in rapporto con un oggetto e uso di un oggetto. (‘Oggetto’ – lo ricordiamo – è sempre una persona - anche se non subito è trattata come tale: la madre per il bambino, l’analista per il paziente e viceversa). L'entrare in rapporto con un oggetto è lo spazio specifico delle proiezioni. Qui – scrive Winnicott – l'oggetto è investito di carica libidica, da parte del soggetto, nonché di proiezioni e identificazioni (che sono ancora parti del soggetto: le sue parti buone - e allora l'oggetto è idealizzato - e/o le sue parti cattive, la sua avidità o la sua rabbia e allora si teme la vendetta dell’oggetto): così che il rapporto rimane ancora, per un'ampia misura, del soggetto con sé.
2) Per contro, scrive ancora Winnicott ”Se l'oggetto si deve usare [se il paziente, ad esempio, deve usare l’analista] esso deve necessariamente essere reale, nel senso di essere parte di una realtà condivisa, e non un fascio di proiezioni. [...] In termini clinici: due bambini si nutrono al seno. Uno si nutre del sé, poiché il seno e il bambino non sono ancora diventati, per il bambino, fenomeni separati. L'altro si nutre, ben più efficacemente. a una fonte diversa dal sé. Il passaggio tra l’entrare in rapporto e l’usare [è allora] il collocamento che il soggetto fa dell’oggetto fuori dell’area del controllo onnipotente del soggetto stesso, vale a dire la percezione dell’oggetto come un fenomeno esterno, non come un’entità proiettiva; di fatto, un riconoscimento di esso come un’entità per se stessa”.
3) A questo punto Winnicott enuncia la sua tesi fondamentale. Scrive: “Questo passaggio [dall’entrare in rapporto all'uso] significa che il soggetto distrugge l’oggetto” ma che “l’oggetto sopravvive alla distruzione da parte del soggetto”. La madre (distrutta in fantasia) non viene meno e non contrattacca. Da questo momento il soggetto dice: “Salve oggetto! Io ti ho distrutto. ‘o ti amo’. Tu hai valore per me perché sei sopravvissuto al mio distruggerti”.
4) C’è una lettura semplicedi questa tesi di Winnicott: il sopravvivere della madre, e il suo astenersi dal contrattaccare, basterebbero a smentire le fantasie di onnipotente distruttività o, detto altrimenti, la proiezione esclusiva delle parti cattive del bambino (e i relativi timori di vendetta), e a dar libero corso alla vita istintuale. Ma ritroviamo qui un’obiezione simile a quella sollevata da Medri sull’efficacia delle interpretazioni: le fantasie di distruttività onnipotente, se sono tali, non sono necessariamente corrette da esperienze della realtà: invece si caratterizzano proprio per sovrapporsi a quest’ultima – più propriamente: a una percezione non delirante di essa – e trasformarla in “un fascio di proiezioni”. Ciò che deve emergere ed affermarsi, perché si rompa la bolla proiettiva in cui è rinchiuso l’oggetto, è allora qualcosa come un nuovo impatto, una nuova qualità o una nuova energia dell’oggetto. In questo senso è stata avanzata l’ipotesi[6] che qui si tratti del sopravvivere dell’oggetto, e del suo non diventare cattivo ma, come aspetti di un nuovo carattere di esteriorità e alterità, del precipitare di un nuovo vissuto di realtà e differenza che culmina nel passaggio (dell’oggetto-madre o, come vedremo, dell’oggetto-paziente e dell’oggetto-analista) da oggetto a soggetto (Più concretamente questo significa, rispetto all’oggetto, cogliere man mano la complessità, l’irripetibile individualità e una certa insondabilità o irriducibilità del soggetto). In altri termini, non c’è il persistere – o il sopravvivere – di una realtà già esistente (o di un oggetto già costituito) ma il rivelarsi di un'altra dimensione, di un nuovo ambito di realtà che presuppone un nuovo modo di essere l’uno per l’altro, di rapportarsi e di differenziarsi fra soggetto e soggetto. Abbiamo detto – si noti bene – fra soggetto e soggetto perché la scoperta della madre (o in generale dell’altro) come soggetto si rifletterà ulteriormente nell’essere a sua volta riconosciuto e quindi nel potersi vivere come soggetto da parte dell’Io. Come osserva Ogden:
Quando l’oggetto diviene un soggetto, il riconoscimento di se stessi da parte dell’Altro crea le condizioni di un nuovo modo di esser coscienti della propria soggettività, e la soggettività stessa è quindi modificata. In altre parole l’esperienza del riconoscimento della propria “egoità” da parte di un Altro (che vene riconosciuto come un “Io” esperiente) crea una dialettica intersoggettiva attraverso la quale si diventa coscienti della propria soggettività in modo nuovo, cioè si diventa “consci di sé” in un modo che l’individuo non ha mai provato prima[7].
Detto tutto questo rimane vero che il ‘sopravvivere’ della madre (nel senso di Winnicott) e il suo riproporsi come soggetto non porteranno subito e una volta per tutte alla scomparsa delle fantasie distruttive. A questo proposito Jessica Benjamin, in un importante lavoro, suggerisce di ampliare lo schema di Winnicott “fino a postulare non una relazione sequenziale, ma piuttosto una tensione di base fra diniego e affermazione dell’altro, tra onnipotenza e riconoscimento della realtà”[8].
L’onnipotenza (meglio l’onniscienza) dell’universo proiettivo infantile continuerà certo a sopravvivere in qualche misura anche nell’adulto (vedi tutto quanto già detto sulle proiezioni); ma d’altra parte la prima esperienza della soggettività della madre sarà anche il prototipo e la condizione del costituirsi di relazioni autenticamente interpersonali o intersoggettive e solo all’interno di queste(sempre in forza di quel carattere - di cui s’è detto - di assoluta originalità e irriducibilità del soggetto) potrà realizzarsi un superamento pieno delle proiezioni. (Sta qui - vorrei sottolineare - il passo ulteriore che il lavoro di Winnicott, ampliato e approfondito, sembra consentire rispetto al lavoro di Loewald).
Giunti a questo punto la questione decisiva è chiederci in che misura (torniamo così al nostro punto di partenza) lo stesso genere di relazioni intersoggettive possa realizzarsi anche nel rapporto analitico.La risposta più verosimile è che qui, come altrove (come propongono ancora la Benjamin e molti altri autori), ritroveremo un’oscillazione continua tra relazione oggettivante o soggetto-oggetto e relazione intersoggettiva. Da un lato, quindi, l’esigenza di dare e ricevere interpretazioni(a volte clinicamente opportune, a volte, però, anche allo scopo diprendere le distanze, ridurre e oggettivare difensivamente il paziente: che reagirà a sua volta, probabilmente, rinforzando le proiezioni transferali sull’analista); e, d’altra parte, la necessità di arrendersi all’altrui (e, di necessità anche alla propria) qualità di soggetto, ossia far luogo a una continua e indefinita scoperta (qui è difficile non pensare a Bion) non solo del paziente ma (se, come detto, l’analista deve rinunciare a difendersi dal paziente) anche dei vissuti personali meno gradevoli e più imbarazzanti dello stesso analista. In un lavoro recente[9] sempre Jessica Benjamin descrive questa evoluzione come l’emergere, in luogo del dualismo complementare fra agente e agito, interprete e interpretato, accusatore e accusato, di uno spazio terzo in cui a ciascun partner è dato esprimere una vitalità indipendente, sentire e pensare in autonomia fuori da ogni vincolo di obbligatorietà o costrizione. Spazio di libertà dalla colpa, dalla vergogna e dalla sottomissione: sia per il paziente, non obbligato a subire le interpretazioni dell’analista, sia per l’analista, che riesce a sua volta a non viversi, in caso di difficoltà o di stallo della relazione, come irrimediabilmente inadeguato o come dannoso. Vorrei leggervi infine, sempre su questo punto, un passo davvero illuminante di Bezoari e Ferro:
[...] Il funzionamento mentale della coppia analitica sembra procedere alternativamente secondo due diversi regimi fondamentali, uno dei quali si può definire come relazione, con il significato specifico di nuova esperienza intersoggettiva vissuta nel rispetto della reciproca alterità e simbolizzabile in modo consensuale. L’altro è quello del transfert (inclusivo del suo necessario complemento controtransferale), in cui l’attualità è esperita in modo stereotipo e ripetitivo e l’uno tende a costringere l’altro in ruoli fissi, predeterminati da fantasie inconsce e indotti mediante identificazioni proiettive. Compito essenziale dell’analista è garantire un microclima idoneo a far evolvere i fenomeni transferali in senso relazionale, dosando opportunamente temperatura, velocità, distanza e altre qualità specifiche del suo assetto mentale e dei suoi interventi. Ma questo processo che va dal transfert verso la relazione, oltre che essere arduo e faticoso, non è mai così lineare come pretenderebbero certi schemi ideali della cura… L’esperienza più comune - che è anche la nostra - ci mostra piuttosto un movimento di oscillazione tra questi due regimi di funzionamento mentale della coppia: oscillazione analoga a quella descritta da Bion tra PS e D[10].
L’obiettivo ultimo, come già anticipato da Benjamin, sarà pervenire a un riconoscimento reciproco della qualità di soggetti di paziente e analista; in particolare con l’accettazione da parte di questi, nelle difficoltà e nella complessità della relazione, dei suoi malesseri e delle sue delusioni, dei suoi fallimenti e delle sue resistenze, del suo disagio e di quello del paziente; con l’ammissione (se del caso anche esplicita) della propria fallibilità e con l’apertura a un dialogo riparativo; e con il riconoscimento, per riprendere ancora una volta la formulazione basilare di Benjamin, dell’autonoma competenza comunicativa e dell’agentività del paziente. L’alternativa sarà un arroccarsi unilaterale dell’analista nella pretesa al monopolio interpretativo (leggi: analista unico soggetto interpretante vs. paziente oggetto interpretato), dissociandola sua propria frustrazione e la sua propria vergogna e imputando esclusivamente al paziente la responsabilità di situazioni di stallo, conflitto o fallimento comunicativo. Ma con ciò alla lunga sarà dissociata o gravemente disregolata (quindi, di fatto, non più analizzabile) anche l’esperienza o l’affettività del paziente, costretto in un’alternativa sterile tra ribellione e sottomissione. Come osserva, sempre Jessica Benjamin
…Se il paziente non si sente sicuro nella mente dell’analista, la posizione osservante [...] viene vissuta come una barriera che non fa entrare, portando alla compiacenza, allo sconforto senza speranza o alla rabbia. Come proposto da Schore, potremmo pensare a questo in termini di emisferi cerebrali: L’analista che interrompe il contatto con il cervello destro del proprio dolore interrompe anche la comunicazione affettiva con il dolore del paziente. Muovendosi dissociativamente a osservare e giudicare dalla parte emisferica sinistra del cervello, l’analista “si spegne” e si riduce a interpretare la “resistenza”[11]
Quanto detto fin qui ricorda, come si è già accennato, la tesi spesso richiamata diBionsecondo cui il terapeuta dovrebbe coltivare la capacità negativa ovvero accostarsi a ciascuna seduta “senza memoria e senza desiderio”. Il maestro Zen Shunru Suzuki parlò di tale disciplina come di un metodo per coltivare una mente del principiante. Per usare le sue parole: “Se la tua mente è vuota, è sempre pronta a tutto; è aperta a ogni cosa. Nella mente del principiante ci sono molte possibilità; nella mente dell'esperto ve ne sono poche”. Nella tradizione buddista della meditazione consapevole ci si è anche riferiti ad essa come a un non sapere disciplinato e a una nuda attenzione. Il non sapere disciplinato o capacità negativa è legato, come osserva Nina Coltart,
alla competenza emotiva nel tollerare il dubbio. È correlata al saper permettere lo sviluppo graduale di un contenitore in cui i contenuti [...] possano disperdersi e sostare in questo stato per un certo lasso di tempo prima che un qualche fatto intervenga a sorpresa a organizzali in qualcosa di coerente[12]
E sempre Nina Coltart sulla ‘nuda attenzione’ riporta lo scritto, che trovo illuminante, e che vorrei leggervi in conclusione di un monaco buddista:
La pratica dell’attenzione si fonda sul puro ascolto, un ascolto che si fa più profondo grazie alla fiducia. Permettiamo a noi stessi di essere consapevoli della nostra sofferenza, o di quella degli altri, dell’oscurità, dello sconvolgimento, dei desideri ardenti e insoddisfatti; alla consapevolezza è concesso di crescere e non deve essere forgiata frettolosamente dall’idealismo. Questa fiducia permette all’esperienza diretta di noi stessi e degli altri di crescere in silenzio; ci sforziamo di essere a nostro agio con tutte le attività della mente, con cui ci mettiamo in contatto, essendo silenziosamente attenti al loro incessante vagare e mai giudicanti rispetto a esse. Il silenzio che abbraccia anziché resistere ha un tocco guaritore. Usare il silenzio come contenitore per l’angoscia e il dolore porta, di per sé, serenità[13]
[1]Relazione tenuta al Corso di Aggiornamento ARIRI “Aggiornamenti in Psicoterapia Psicoanalitica”, Bari, 14 giugno 2003
[2]Ibidem, p.2.
[3]H.W. Loewald, “On The Therapeutic Action Of Psychoanalysys”, in H.W Loewald, Papers on Psychoanalysis, Yale University Press, New Haven and London 1980, p. 22
[4]H. W Loewald, op. cit., pp. 225-226.
[5]D. W. Winnicott, (1971), “L’uso di un oggetto e l’entrare in rapporto attraverso le identificazioni” in Gioco e realtà,Armando Armando, Roma 1974.
[6]Cfr. In particolare J. Benjamin, Soggetti d’amore, Cortina, Milano 1996, pp. 21-27; T. H. Ogden, (1994), Soggetti dell’analisi, Masson, Milano 1999, pp. 40-42; R. Roussillon, “La funzione dell’oggetto nel legare e slegare le pulsioni. Distruttività e ‘sopravvivenza’ dell’oggetto”, L’Annata psicoanalitica internazionale, N. 8, 2016, pp. 189 sgg.
[7]T. H. Ogden, op. cit., p. 40.
[8]J. Benjamin, op. cit., p. 31.
[9]J. Benjamin, Il riconoscimento reciproco. L’intersoggettività e il terzo, Cortina, Milano 2019.
[10]M. Bezoari, A Ferro, “Percorsi nel campo bipersonale dell’analisi: dal gioco delle parti alle trasformazioni di coppia” in L. Nissim Momigliano, A. Robutti (a cura di), L’esperienza condivisa. Saggi sulla relazione psicoanalitica, Cortina, Milano 1992, p.78.
[11]J. Benjamin, Il riconoscimento reciproco, cit. p. 53.
[12]N. Coltart, Pensare l’impensabile, Cortina, Milano 2017.
[13]Venerabile A. Sucitto, “The Forest Newsletter” in Journal of the Amaravati Buddhist Monastery, 3.