Una delle parole più utilizzate, da quanti hanno voluto ricordare Guido Medri, è stata la parola “autenticità“, riferita sia al suo modo d’essere come uomo sia al suo modo di fare lo psicoanalista. È su questo secondo aspetto che io concentro la mia attenzione in questo mio ricordo del grande e carissimo collega scomparso dalla scena della vita e della professione.
Intanto riflettiamo sul termine. “Autenticità” non è assolutamente un equivalente semantico del termine “spontaneità”, che rimanda ad una dimensione della personalità ben diversa. Spontaneità e spontaneismo ci riportano ad un modo d’essere quasi sempre irriflessivo, impulsivo, talora addirittura insospettabilmente artefatto. La spontaneità è uno dei miti della cultura narcisistica e post-moderna, che esalta ciò che è all’insegna di una superficialità esibita e di una emozionalità la cui manifestazione sarebbe una riprova di sincerità e di disinibita affettività. In realtà di autenticità affettiva e relazionale nella spontaneità narcisistica ce n’è ben poca, tant’è che lo spontaneismo è spesso all’insegna di una teatralità esibita e di sentimenti simulati. E Guido Medri ha ben poco a che fare con tutto ciò. Lui era davvero quello che mostrava di essere, anche nella sua pratica clinica, come traspare nelle sue supervisioni e nei ricordi dei suoi pazienti, diventati poi, a loro volta, psicoanalisti.
Si pone qui un problema di grande interesse, che si collega col tema dell’autenticità, e su cui vorrei riflettere andando anche oltre il ricordo di Guido. È un problema pochissimo dibattuto in letteratura, per quanto ne so, e riguarda il “post-analisi” proprio degli psicoanalisti, che, entrando spesso in situazioni istituzionali e professionali nelle quali si ritrovano in un contatto diretto con quelli che sono stati i loro analisti, devono affrontare una vicenda di post-analisi assolutamente particolare e ben diversa dalla post-analisi degli altri pazienti, che non incontrano più il loro analista, tanto meno in situazione di condivisione professionale. La post-analisi è ormai considerata una vera e propria fase del percorso e dell’esperienza psicoanalitica, una fase delicata e difficile, decisiva per il buon esito della terapia analitica. Tale fase è ancor più delicata e difficile nel caso di psicoanalisti, che, incontrando e praticando il loro ex-analista in situazioni di condivisione istituzionale, devono fare i conti con il vero e proprio impatto rappresentato dalla rivelazione, vera e non più simulata, di aspetti di personalità, comportamenti, disfunzionalità ed anche magari psicopatologia, o, più semplicemente, limiti e negatività umane, che nella relazione psicoanalitica non erano, per lo più, emerse con la stessa evidenza. Si pone cioè il problema della de-idealizzazione della figura dell’ex-analista, che talora produce una vera e propria delusione e non la necessaria disillusione che il passaggio dalla dimensione transferale alla dimensione di realtà comporta inevitabilmente.
È chiaro che quanto più lo psicoanalista esprime il suo ruolo, all’interno della relazione analitica, favorendo, magari anche con la simulazione, la trasmissione al paziente di un’immagine di sé positiva, benevola, accettante, equilibrata, sana, ricca di affettività e di rigorosa eticità, ebbene tutto ciò favorirà certamente l’idealizzazione e l’investimento transferale, ma potrà anche costruire agli occhi del paziente un’immagine dell’analista, che anche come uomo, e quindi al di là del suo ruolo professionale, verrà immaginato in modo irrealisticamente idealizzato. Cioè, in parole povere, i pazienti potranno essere indotti a credere che il loro analista non sia solo un bravo analista, ma anche una persona di grande o addirittura eccezionale umanità. E’ chiaro che un bravo analista lavorerà sull’idealizzazione e sul transfert, anche sul transfert positivo; ed eviterà di introdurre nel suo rapporto con il paziente elementi di simulazione (diverso è il discorso relativo alla “ dissimulazione” e cioè al nascondimento di emozioni e pensieri da parte dell’analista, pratica, questa, certamente necessaria da parte dell’analista). E tuttavia sappiamo bene, come analisti, che grande è talora la tentazione di apparire ai nostri pazienti migliori di quel che siamo nella nostra vita privata e reale. Di tale vita i pazienti per lo più non vengono a sapere pressochè nulla (anche se oggi I nternet e social rendono più difficile l’anonimato degli psicoanalisti). Non è così per gli ex-pazienti, lo ribadiamo, che diventano colleghi del loro ex-analista. E qui possono appunto sorgere dei problemi, perché la figura dell’analista può rivelarsi anche molto lontana da quell’ideale di “superiore” umanità che sembrava trasparire dalla relazione terapeutica.
Ebbene, con Guido Medri, crediamo che per i pazienti (poi colleghi) trattati da lui il problema non si ponesse, perché ciò che l’ex-paziente vedeva in lui, incontrandolo nella realtà extra-analitica, non era un’immagine non corrispondente a quella che emergeva dall’esperienza relazionale vissuta con lui in analisi. Non c’era nessuno iato, non c’era, sostanzialmente, contraddizione tra lo psicoanalista Guido Medri e l’uomo Guido Medri con cui, dopo l’analisi, ci si incontrava in una dimensione di realtà quotidiana esterna all’analisi. Era proprio lui, era proprio così, autentico come uomo e come analista. Credo che questa constatazione producesse certamente un grande sollievo nell’ex-paziente, ma producesse anche una sorta di rinforzo a posteriori dei benefici effetti, terapeutici e maturativi, dell’esperienza analitica. Ebbene, credo che questa benefica situazione post-analitica non sia poi così comune.