L’amicizia tra me e Guido ha origini assai lontane: nei primi anni ottanta con le rispettive famiglie ci siamo incontrati durante le vacanze estive a Scario, nel magnifico golfo di Policastro, entrambi ospiti del Villaggio turistico La Francesca. Con i rispettivi gommoni scorrazzavamo lungo le magnifiche scogliere del litorale alla ricerca di qualche spiaggetta su cui approdare per passare la giornata in allegria. Nel tardo pomeriggio, ogni tanto, seduti all’ombra di querce secolari confrontavamo i rispettivi punti di vista sulla clinica e sulla teoria psicoanalitica. Avevamo avuto la fortuna di avere avuto entrambi grandi maestri: Zapparoli, Lopez, Cremerius, De Benedetti, accomunati dalla profonda convinzione che la clinica costituisse il banco di prova della teoria.
Questa specie di “mini convegni” tra di noi sono proseguiti negli anni anche al di là dell’occasione delle vacanze estive: almeno un paio di volte l’anno ci incontravamo di sera, finita l’attività di studio, talvolta nel circolo di tennis Malaspina , di cui Guido era socio, dove cenavamo e giocavamo a biliardo, ma anche discutevamo e confrontavamo i rispettivi punti di vista sulla clinica psicoanalitica; altre volte in un piccolo ristorante di pesce, di cui entrambi eravamo ghiotti, sotto casa di Guido.
Questa consuetudine si è protratta negli anni sino a poco tempo prima che Guido ci lasciasse.
Cercherò di riportare i temi che venivano discussi in quella specie di “mini convegni” in cui esprimevamo a ruota libera i nostri rispettivi punti di vista sulla teoria e sulla tecnica psicoanalitica.
Utilizzerò come traccia lo scritto di Guido Medri “Elementi fondamentali di psicoterapia psicoanalitica” , lavoro letto da Guido in un seminario tenuto presso lo Psiba il 3 dicembre 2002 e poi pubblicato nel n° 20 (2004) della rivista “Quaderno dello Psiba” [v. Bibliografia].
Scrive Guido: “Ho pensato che potesse essere interessante far sapere quali sono per me i punti, gli aspetti più caratterizzanti della mia pratica clinica (…) avrei dovuto intitolare la relazione Gli elementi per me fondamentali di psicoterapia psicoanalitica”.
L’aggiunta “per me” al titolo ufficiale è preziosa ed infatti poco dopo chiarisce che “non c’è nessuna teoria che copra il campo della clinica (…) posso solo fermare alcuni concetti, quelli che troppo spesso mi si propongono per non essere considerati qualcosa di stabile, ma tutto il resto è in discussione”.
La teoria si fa relazionale.
Guido parte dallo scritto di Freud del 1925 Inibizione sintomo e angoscia. La fobia esprime il conflitto relazionale: è l’angoscia a far scattare la rimozione, per cui “Freud riesce a liberarsi dalle pastoie del modello idraulico (…) ed a passare ad un modello della mente concepita come apparato per elaborare ed apprendere informazioni” (Medri pag. 12). “Ancora di più se ci si sbarazza del termine pulsione che si riferisce ad un impianto teorico oggi decisamente in discredito”, mentre “ finalmente l’oggetto trova il posto che gli spetta. La teoria si fa infatti relazionale (…) pulsione ed oggetto vanno studiati e capiti insieme, il soggetto è una persona che vive l’altra che la intenziona a sua volta” (pag. 13). Ciò rivoluziona la teoria della tecnica classica, “la linea dell’astinenza, neutralità, anonimato, le metafore dell’analista specchio, dell’analista chirurgo, insomma la posizione dell’analista distante e bloccato, fuori dall’interazione” (pag. 14). Per cui, scrive Guido, la strada “non può essere che quella opposta, cioè far sì che il moto pulsionale si attivi nella relazione con l’obiettivo che il paziente si renda conto che esso non comporta il pericolo temuto. (…) Dunque è essenziale che l’analista non si sottragga al gioco relazionale, al desiderio di transfert, ma semmai lo alimenti. Si tratta di un vero e proprio cambio di paradigma. (pag. 14)
Io ero perfettamente d’accordo con Guido ed aggiungevo che Freud già nel 1912 (Consigli al medico) nell’enunciare la regola fondamentale del metodo psicoanalitico, quella delle libere associazioni da parte del paziente, aveva indicato anche la regola fondamentale per l’analista: mantenere un atteggiamento di attenzione liberamente fluttuante. “La riuscita migliore si ha per contro nei casi in cui si proceda senza intenzione alcuna, lasciandoci sorprendere ad ogni svolta, affrontando ciò che accade via via con mente sgombra e senza preconcetti. Il comportamento giusto da parte dell’analista consisterà nell’oscillare da un atteggiamento psichico ad un altro, nel non indulgere a speculazioni ed elucubrazioni fintantochè analizza e nel sottoporre al lavoro intellettuale di sintesi il materiale ricavato soltanto dopo che l’analisi è conclusa” (Freud, 1912, pag. 535).
Si vede chiaramente come l’attenzione liberamente fluttuante da parte del terapeuta corrisponda esattamente alle libere associazioni da parte del paziente. E come tale “regola” è la più difficile da mantenere e da rispettare da parte del paziente, lo stesso vale per il terapeuta. Si tratta in effetti di un principio puramente formale, che comporta la capacità di mantenere la mente sgombra da contenuti attivamente cercati, come orizzonte vuoto perché possa manifestarvisi liberamente ciò che spontaneamente proviene dal preconscio di entrambi, paziente e terapeuta. Ma l’impostazione positivistica ha impedito allo stesso Freud ed alla psicoanalisi post-freudiana di sviluppare tale geniale intuizione in una teoria della tecnica genuinamente relazionale che considerasse imprescindibile la partecipazione attiva del terapeuta, al pari del paziente, al processo terapeutico. In questi ultimi anni si sono venuti sempre più sviluppando gli orientamenti relazionali ed intersoggettivi, anche grazie ai fondamentali contributi delle neuroscienze, per cui quella che era una geniale intuizione ha potuto finalmente dispiegare il suo grande potenziale ermeneutico come principio basilare della tecnica per cui l’esperienza soggettiva che il paziente fa del terapeuta è in larga misura strutturata ed organizzata anche dalle interazioni reali tra i due soggetti.
Nella psicoterapia, all’ora, i processi psichici non si attuano nè nel paziente nè nel terapeuta presi separatamente, ma solo nella relazione che si crea tra di loro attraverso la dialettica tra attenzione liberamente fluttuante del terapeuta e libere associazioni del paziente.
Sia Medri che io ritenevamo che questo fosse l’autentico significato della self-disclosure dell’analista: mentre nella psicoanalisi classica il paziente doveva per quanto possibile essere tenuto all’oscuro dei contenuti soggettivi della mente dell’analista, alla ricerca di un setting il più possibile asettico, oggettivo e neutrale in cui l’analista fosse lo specchio che riflette solo ciò che il paziente vi proietta.
La teoria post classica si sta muovendo, invece, nella direzione di una concezione della mente come un processo non lineare e relazionale di costruzione di significati.
Non esiste ascolto che non sia mediato dalla equazione personale, dalla teoria che seguiamo, dalle nostre convinzioni ed idiosincrasie etiche, valoriali, ideologiche, che determinano come ognuno di noi ascolta e classifica ciò che il paziente dice o fa. Per cui dobbiamo riconoscere che è non solo inevitabile, ma anche necessario, che nella relazione analitica si manifestino gli specifici modi di essere, i rispettivi caratteri, non solo per il paziente, ma anche e nella stessa misura per il terapeuta.
Queste considerazioni sono del resto confermate dalle ricerche portate avanti dalle neuroscienze, scrive infatti Kandel: “Quando un terapeuta parla ad un paziente ed il paziente ascolta, non solo si instaura un contatto visivo e vocale, ma l’azione dell’apparato neuronale del terapeuta sta avendo un effetto indiretto ed auspicabilmente durevole sull’apparato neuronale del paziente. Con tutta probabilità, vale anche il reciproco: nella misura in cui le nostre parole producono cambiamenti nella mente del paziente, è probabile che questi interventi psicoterapici trasformino anche il nostro cervello” (Kandel pag. 62).
Guido, infatti, afferma con decisione che il transfert non è un anacronismo e porta il caso di un paziente che “viene perché non sa relazionarsi con una donna in modo soddisfacente e costruttivo, pur avendone avute moltissime. In analisi, continua Guido, si evidenzia l’altra parte del problema, del tutto al di fuori del fuoco della sua attenzione, quella del rapporto con l’uomo. In famiglia la madre era onnipresente mentre il padre era una persona brillante e seduttiva che però si assentava continuamente per motivi di lavoro, aveva avuto varie vicessitudini ed era stato anche in prigione. Il figlio non lo aveva mai stimato e lo rimproverava di non averlo aiutato abbastanza. In un sogno si ferma ad un distributore in un paese straniero, vuol fare benzina ma ha timore che il benzinaio lo freghi sul prezzo approfittando del fatto che non ha dimestichezza con la moneta di quel paese. E’ evidente che non si fida di me. Gli succede poi nella realtà qualche giorno dopo di fare benzina nel chiosco sotto il mio studio ed ha il dubbio di non aver pagato. Torna allora dal benzinaio e verifica che è proprio così, è partito senza pagare. Alla fine del mese mi da l’assegno e in banca non me lo incassano perché non era firmato. Tutto si ripete. Io non sono affidabile, lui non è affidabile, la fregatura è sempre dietro l’angolo.
Come, continua Medri, si fa terapia in una situazione del genere? (…) In un altro sogno un grande stallone cerca di montare la cavalla del paziente e questi inorridito si frappone tra i due. Teme dunque che lo sodomizzi sia perché ci sono in ballo valenze omosessuali o come un’altra versione della solita fregatura. Se interpreto i suoi comportamenti facendoli risalire ai vissuti che ne sono alla base gli do un grande aiuto perché si capisce e così da un lato sdrammatizza il pericolo che egli è per gli altri e gli altri per lui e dall’altro può incominciare a chiedersi perché lui è così. Qui infatti sta la grande efficacia terapeutica delle interpretazioni. Inoltre gli mostro implicitamente che siamo in una situazione diversa da quella che egli intende e quindi gli insegno come le cose stanno in realtà e posso mostrargli i suoi fraintendimenti come il prodotto delle sue fantasie. Già tutto questo rappresenta una grande novità, ma io mi chiedo - scrive Guido - è sufficiente? In fondo non farei altro che dirgli che sbaglia e dargli un’immagine criticabile di sé. E’ possibile che qualcuno venga da me per anni solo per farsi dire dei suoi errori e che deve correggersi? E poi soprattutto come fa a cambiare e crescere? Tutto questo preambolo per arrivare a quello che è per me la chiave della terapia, l’incontro con il nuovo oggetto (Medri pag. 15-16).
Guido si rifà qui all’articolo di Loewald dl 1960 On the therapeutic action of psychoanalysis in cui l’analista viene definito come un nuovo oggetto con cui si ha una relazione nuova.
Scrive Medri: “Affinchè questo succeda occorre paradossalmente che sia quello vecchio cioè che l’analista sappia porsi al posto dell’oggetto dell’infanzia, altrimenti sarebbe estraneo alla vicenda affettiva in corso, ne rimarrebbe fuori. A partire dal prima succede poi qualcosa di diversoi nel presente perché l’analista non è quello di un tempo. E’ così che il paziente cresce e cambia, perché gli viene data la possibilità di riprovare gli antichi affetti e di risperimentarli, questa volta in chiave positiva in una relazione, la nuova relazione. Le ipotesi che ripercorrono tutto lo scritto sono: 1. Il transfert non è un anacronismo, ma la domanda di aiuto su una base realistica da parte di un adulto che sa di aver fallito in qualche aspetto del suo sviluppo e dunque regredisce per ripartire e 2. L’analista capisce le potenzialità alla crescita del paziente che stanno nel desiderio transferale e le accoglie nella relazione affinchè esse si sviluppino offrendo a tale scopo le sue superiori capacità elaborative e di organizzazione. Fa cioè qualcosa di più e di diverso rispetto all’interpretazione” (pag. 16).
L’analista, ossia il nuovo oggetto, offre quelle funzioni e quelle qualità che mancavano all’oggetto del passato e che il paziente va cercando. Medri continua ed afferma: “il dato centrale tuttavia, così come compare nel sogno, è che la sua auto è senza benzina e lui si ferma da un benzinaio. Questa è la domanda di transfert ed è una domanda realistica per due motivi, il primo perché al secco di benzina la macchina non può andare e il secondo perché l’unico che possieda quel tipo di benzina di cui lui ha bisogno è l’analista. Il mio compito appare allora ovvio: si tratta di dargliela (…) sulla legittimità della richiesta non si discute, nel senso che non si elabora analiticamente perché essa è niente altro che il motivo per cui il paziente è in terapia. Lo stesso vale per la risposta: mentre faccio la parte del benzinaio che offre quello che ha, non mi interrogo sul mio agito perché esso corrisponde esattamente alle funzioni di cui mi sono fatto carico nel momento in cui ho dichiarato al paziente che gli avrei fatto l’analisi.”
“Le ragioni per cui il paziente formula la sua domanda sono ovvie: il rapporto con il padre non gli ha dato abbastanza energia, la forza per sentirsi maschio e allora la chiede a me. Dunque sono chiamato a svolgere una funzione suppletiva, al di là della mera comprensione in termini analitici. (…) Per come la penso io - afferma Medri - ogni paziente è alla ricerca di un aiuto assolutamente specifico quanto concreto (la benzina nell’esempio di questo caso) e va ribadito che la risposta è allo stesso livello e dunque non può che trattarsi della messa in atto di un moto affettivo che ha ormai gettato l’analista nella relazione (…) checchè se ne dica nulla può essere battuto in absentia o in effigie, ci dice Freud, e se questo vale per il paziente lo è altrettanto per l’analista” (Medri pag. 18).
Come risulta chiaramente dalle parole di Guido Medri quello che qui viene affrontato è il tema centrale della teoria e della tecnica psicoanalitica: il transfert. Per spiegarsi meglio, Medri fa riferimento a quanto ha sostenuto Racher in “Studi sulla tecnica psicoanalitica” e che era condiviso da Cremerius: la relazione analista-paziente non è un rapporto tra una persona malata, il paziente, ed una persona sana, il terapeuta, “ma tra due persone malate, nel senso che anche il terapeuta è agito dall’inconscio, la differenza tra i due essendo essenzialmente che questi ha già fatto un’analisi” (Medri pag.18).
Non è allora la mera consapevolezza dei conflitti inconsci che può mettere al riparo lo psicoterapeuta dalle proprie tendenze proiettive, bensì l’accettazione che le tensioni, le angosce, i conflitti che il paziente porta in terapia riguardano direttamente anche lui, anzi costituiscono un’occasione non solo per il paziente, ma anche per il terapeuta, di affrontare nuovamente quelli che sono i temi fondamentali della vita e compiere di volta in volta un piccolo passo in avanti sulla via della conoscenza di sé e della libertà dai condizionamenti inconsci. Ci possiamo solo aspettare che lo psicoterapeuta su tale via sia giunto un po’ più avanti del paziente.
La ripetizione agita e proiettata nella relazione con il terapeuta dei nodi conflittuali del passato del paziente costituisce, infatti, solo il primo elemento del transfert ed in quanto tale si rivela anche come resistenza: il paziente agisce anziché ricordare. Ma il motore del cambiamento in psicoterapia è costituito dal terzo elemento del transfert che la psicoanalisi classica ha trascurato, per cui il transfert, oltre ad essere ripetizione del passato e quindi resistenza, è anche e soprattutto la preconscia ed inconscia aspettativa da parte del paziente di poter sperimentare nella relazione attuale con il terapeuta risposte e prospettive nuove al proprio malessere.
Come sostiene Medri, il transfert non è un anacronismo: “fare analisi significa ridare al paziente gli affetti che sono andati perduti. Il desiderio di transfert è il motore della terapia. L’analisi finirà quando il paziente saprà utilizzarlo come il motore della sua vita. Fare analisi dalla parte del terapeuta non significa solo mostrare al paziente che vuole quel buon genitore, ma anche esserlo” (Medri pag. 19).
Kandel scrive: gli sperimenti di Harlow sulle scimmie che tenute in isolamento mostravano un grave ritardo psichico, hanno evidenziato che la sindrome può essere completamente risolta dall’intervento di scimmie-psicoterapeute, caratterizzate da particolari aspetti del carattere che però differiscono sostanzialmente da quelli raccomandati nel setting psicoanalitico classico. I tratti del buon psicoterapeuta per le scimmie, infatti, prevedono la ricerca ostinata, greve e ossessiva di continue interazioni con la scimmia disturbata, finchè questa non risponde dopo sei mesi di terapia con una guarigione spettacolare, come se uscisse da un tunnel” (Pag. 13)
Il paziente, come le scimmie di Harlow, deve sentire che il terapeuta sta cercando in tutti i modi di entrare in relazione con lui, anche quando i suoi sforzi di alleviarne la sofferenza sembrano essere inutili e fallire. Bromberg sostiene giustamente che “l’unico modo in cui il passato-come-presente può essere riparato è all’interno di una relazione emotiva che ripeta i fallimenti del passato ma che in qualche modo non si limiti a questo” (Bromberg pag. 99).
Sia per il paziente sia per il terapeuta non esiste un modo per evitare che, oltre ai fattori consci, anche quelli inconsci della propria identità entrino nella relazione. Il paziente si trova nella posizione di poter osservare il terapeuta da vicino, per cui non è solo il terapeuta a venire a contatto con aspetti di cui il paziente non è consapevole, ma è anche quest ultimo a sperimentare lo stesso nei confronti del terapeuta.
L’accento sulla neutralità del terapeuta per favorire l’emergere dell’inconscio del paziente aveva portato ad una teorizzazione del transfert come un movimento ad una sola via: il transfert di esclusiva pertinenza del paziente, il contro transfert del terapeuta. Mentre il transfert non può che essere un movimento a due vie:
paziente↔terapeuta
Sia la self-disclosure sia i momenti di incontro, teorizzati dal B.C.P.S.G., non riguardano tanto il contenuto, il rivelare da parte del terapeuta qualche aspetto biografico o emotivo di se, quanto la struttura della relazione terapeuta-paziente: “due persone che fanno esperienza l’uno dell’altro al di fuori dei rispettivi ruoli professionali prescritti” (B. C. P. S. G. pag. 18).
Guido Medri ed io avevamo la profonda convinzione che qualsiasi emozione o tensione conflittuale il paziente porti nella relazione col terapeuta, è inevitabile che ciò riattivi in lui implicitamente, preconsciamente o anche coscientemente un’analoga tensione, facendo risuonare come il terapeuta ha affrontato la stessa problematica, sia la risposta o l’assetto che ha trovato nella sua personalità.
Questa corrispondenza dialettica rappresenta il senso costruttivo della disclosure come partecipazione attiva del terapeuta come persona al pari del paziente all’instaurarsi della relazione implicita condivisa.
La relazione è co-costruita ed il ruolo dell’analista non è di evitare la propria partecipazione personale al processo, in quanto la sua esistenza come persona reale non solo è inevitabile, dal momento che non può essere sotto il suo controllo, ma è anche necessaria, poiché l’esperienza che egli fa nella relazione con il paziente è dialetticamente collegata all’esperienza che il il paziente sta facendo di lui. Come afferma Bromberg “ i sentimenti di un analista nei confronti di un paziente non sono sua esclusiva proprietà” e, pertanto, non sono ne da evitare ne da nascondere (Bromberg psg. 144).
Le neuroscienze hanno fornito la verifica sperimentale della centralità dei processi psichici inconsci, confermando buona parte dei concetti psicoanalitici. Esiste pertanto, oltre all’inconscio rimosso, una parte inconscia che non è mai accessibile alla coscienza; solo che questa non è, come riteneva Freud, la sede delle pulsioni, ma coincide con la memoria implicita, per cui è un inconscio procedurale, sede delle esperienze relazionali ed emotive dei primi anni di vita, che sono e restano inconsce svolgendo comunque un ruolo centrale nell’organizzazione della personalità. Come hanno evidenziato Stern e Siegel l’inconscio procedurale rappresenta soprattutto la registrazione mentale e neuronale del tipo di attaccamento che la persona ha potuto sperimentare e quindi svolge un ruolo importante nella formazione dei tratti del carattere. E’ la conferma della geniale intuizione di W. Reich sulla formazione del carattere e sul suo ruolo nel funzionamento psichico. La memoria implicita, che costituisce il nucleo originario dell’inconscio, può manifestarsi solo negli atteggiamenti caratteriali e nelle relazioni affettive, quindi del tutto naturalmente nel transfert, in ogni transfert, incluso si intende quello della relazione terapeutica.
L’insight, le interpretazioni e le ricostruzioni non hanno alcuna possibilità di far progredire il processo terapeutico rispetto all’inconscio procedurale. Sono le esperienze di natura non verbale e inconsce che, creando nuovi circuiti sinaptici, possono influenzare e modificare i circuiti sinaptici dell’inconscio procedurale e quindi gli stati della mente. E’ la relazione tra paziente e terapeuta che può favorire la riorganizzazione dei ricordi impliciti. Il fulcro del processo terapeutico non è quindi l’interpretazione, ma la “negoziazione tra soggettività” (Bromberg pag. 74), che è mediata dall’ elaborazione condivisa delle rispettive esperienze del paziente e del terapeuta.
La self-disclosure del terapeuta non è, allora, un evento episodico o eccezionale, ma costituisce il fulcro del processo terapeutico. Analoga considerazione dobbiamo fare sui “momenti di incontro” messi a fuoco dal “The Boston Change Process Study Group” che li definisce come “situazioni in cui ciascun partner apporta un contributo unico ed autentico di se stesso come persona (… ) gli aspetti transferali e contro transferali sono ridotti al minimo, mentre viene messo in gioco l’umanità dei due partner” (B. C. S. G. pag 15).
La terapia di Franco è durata 5 anni, al ritmo di due sedute settimanali, dai 16 ai 21 anni. Il ragazzo si era del tutto ritirato dalla vita: a parte la scuola frequentata con buoni risultati, passava le giornate chiuso in camera sua, senza amici ed anche il rapporto con i genitori era limitato ai pasti consumati in perfetto silenzio. Primogenito di cinque figli, all’età di un anno era stato dato in una specie di affido alla famiglia degli zii che non avevano figli, poiché la madre era oberata dal peso di due gemellini già nati e di un altro in arrivo. Il bambino si era fin da allora chiuso in se stesso, presentando un quadro inibitorio che aveva spinto le maestre dell’asilo a segnalarlo per un sospetto di autismo, che però è stato escluso dalla N.P.I. con la raccomandazione del ritorno in famiglia e di una presa in carico psicoterapica. Franco era rientrato in famiglia, ma solo molti anni dopo aveva iniziato con me la psicoterapia.
Franco è sempre stato puntuale e non ha mai saltato una seduta, ma per tre anni è rimasto quasi del tutto in silenzio. Entrava, si sedeva, muoveva la bocca in uno sforzo spasmodico per far uscire le parole, che però non ce la facevano se non in rare occasioni. Mettendo insieme gli elementi della sua storia, qualche suo segno mimico o gestuale, le rare associazioni che riusciva a comunicarmi,ma soprattutto le emozioni che io vivevo nella relazione, specialmente la frustrazione e la solitudine, cercavo di entrare in contatto con lui, ricostruendo la sua storia e le sofferenze che aveva vissuto e che lo avevano portato a chiudersi in se stesso, ma anche le richieste affettive che attendevano una risposta nella relazione con me. Sarebbe troppo lungo esporre l’andamento della terapia. Vorrei invece soffermarmi su un punto importante. Dopo tre anni di quasi totale silenzio, Franco, lentamente, ma progressivamente, è uscito dal suo isolamento schizoide ed ha cominciato a comunicare emozioni e pensieri. Ma quello che mi ha colpito, e che mi preme riportare qui, è che quando e se io facevo accenno al cambiamento avvenuto dall’iniziale difficoltà ad entrate in relazione con me ed a fidarsi, Franco mi smentiva dicendomi che lui, anche quando stava in silenzio sentiva che la relazione con me era viva ed importante. Mentre allora io spesso mi chiedevo che senso avesse, e se ne avesse uno, quella psicoterapia ed inoltre dubitavo fortemente di poter riuscire a raggiungere il ragazzo nel mondo nel quale sembrava essersi chiuso; ora invece lui mi comunicava che anche allora viveva un rapporto caldo ed intenso. Franco mi ha aiutato a capire che il suo bisogno fondamentale non era di ricevere le mie brillanti interpretazioni e ricostruzioni, ma che io ci fossi come persona e svolgessi implicitamente quella funzione di oggetto –Sé, narcisisticamente a sua disposizione, per fornirgli quell’ambiente empatico sintonizzato con i suoi bisogni, che era venuto meno sin dalla sua prima infanzia, provocandogli la grave delusione che l’aveva portato progressivamente a chiudersi in se stesso. Solo dopo che era stata assolta questa importante funzione, la terapia, nei successivi due anni, aveva potuto affrontare le problematiche connesse ai processi di individuazione.
E’ importante sottolineare come la terapia si è svolta prevalentemente all’interno della relazione implicita condivisa che ha permesso lo sviluppo della self-disclosure di entrambi, l’incontro in cui ciascuno di noi portava il suo contributo come persona che progressivamente riusciva a svelarsi nella relazione.
La self-disclosure, i momenti di incontro, non costituiscono a mio avviso, parametri del tutto nuovi da introdurre nel processo terapeutico, ma rappresentano il riconoscimento ufficiale da parte della psicoanalisi del terzo aspetto fondamentale del transfert. Solo i primi due, infatti - il tranfert come ripetizione e resistenza- riguardano il passato e caratterizzano il movimento che permette al paziente di dare un significato al suo disagio, visto come del tutto adeguato alle vicende emotive e relazionali della sua vita. Comprendere e spiegare non è sufficiente di per sè a produrre un cambiamento, occorre affrontare ciò che sta succedendo qui e ora tra i due soggetti, ma questo è proprio il terzo aspetto del tranfert, quando paziente e terapeuta, all’inizio implicitamente ma via via in modo anche esplicito, riescono ad esserci come persona per poter costruire insieme nuove e creative risposte.
Non si tratta di un percorso lineare in cui i tre elementi del transfert si succedono ordinatamente, quanto piuttosto della loro simultanea presenza in ogni momento della relazione.
Guido Medri ed io concordavamo che in tale prospettiva è indispensabile che anche lo psicoterapeuta metta in campo non un complesso cerimoniale tecnico, ma il suo sé autentico nella piena accettazione che non c’è una “verità” da riconoscere o da scoprire, bensì una “verità” da costruire in quella serie di piccoli atti creativi che può essere appunto la relazione tra paziente e terapeuta nella prospettiva della libertà.
Obiettivo della terapia non è rendere conscio l’inconscio, eliminare i fallimenti empatici del passato, compiti spesso irrealizzabili, ma creare nella relazione qualcosa di nuovo che modifichi l’ambiente intersoggettivo. L’esperienza passata viene ricontestualizzata nel presente, cosicchè paziente e psicoterapeuta possano arrivare ad operare con uno scenario mentale diverso, che produce nuovi comportamenti e nuove esperienze nel presente e nel futuro.
BIBLIOGRAFIA
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Medri G., (2004), “Elementi fondamentali di psicoterapia psicoanalitica”, Quaderno dello Psiba n° 20, 2004, pp 12-20.
Renik, O., Psicoanalisi pratica per terapeuti e pazienti, Cortina, Milano, 2007.
The Boston Change Process Study Group, Il cambiamento in psicoterapia, Cortina, Milano, 2012.